Repubblica — 22 luglio 1995 pagina 15
ROMA – Che fine ha fatto il piccolo Buddha? E perché la povera tenda di nomadi dov’è nato è circondata da soldati cinesi armati fino ai denti? Nel remoto villaggio di Nagchua, distretto di Lhari, regione dello Qinqhai, un ragazzino di sei anni destinato a diventare Panchen Lama, numero due dell’Olimpo spirituale tibetano dopo il Dalai Lama, è al centro di un giallo che ipoteca il destino dei secolari conflitti politici tra Cina e Tibet. In un crescendo di paradossi storico-religiosi, infatti, i dirigenti cinesi sono arrivati a rivendicare il diritto del governo di attribuire a questo bimbo dai capelli ispidi e le gote rosse il titolo di Buddha reincarnato. Del resto, il precedente Panchen era un membro del comitato centrale del partito comunista. E anche la sua reincarnazione, a sentire Pechino, non potrà che ripercorrere le medesime tappe ideologiche. Si chiama Gedhun Chockyi Nyima, nato a Nagchua il 25 aprile del 1989, l’ ancora in parte ignaro protagonista di un’ avventura surreale tra la terra sofferente dei nomadi tibetani e il cielo simbolico delle divinità buddhiste, mai come in questo caso sottomesse alle regole degli uomini e delle loro ragion di Stato. In ballo c’ è il dominio spirituale e quindi politico di un popolo religiosissimo da quasi mezzo secolo assoggettato a un regime ateo e comunista. Ma ecco che cosa sta accadendo in queste ore. Secondo fonti tibetane Gedhun è stato rapito insieme ai genitori a bordo di un aereo cinese e trasportato a Pechino. Secondo quelle cinesi, invece, vivrebbe “sotto sequestro” nel suo villaggio assieme a tutta la famiglia, i fili del telefono tagliati e drappelli di militari tutt’ attorno al villaggio di Nagchua per impedire l’ arrivo di migliaia di pellegrini e di curiosi. Evidentemente il governo vuole prendere tempo prima di decidere quale sarà la mossa più conveniente da fare, isolando Gedhun e magari cominciando ad educarlo ai principi del buddhismo marxista. Per il momento l’ unica cosa certa è che il piccolo nomade Buddha non cresce più libero di giocare spensierato tra le mandrie degli yak sugli altipiani. E’ prigioniero del suo karma (per i buddhisti il frutto delle azioni passate) da quando i segni presunti della sua natura speciale si manifestarono al di qua (Cina) e al di là dell’ Himalaya (India). Per i comunisti di Pechino, Gedhun aveva infatti già superato le “prime cinque prove di buddhità” quando, proprio alla vigilia della sesta, quella decisiva, arrivò l’ annuncio a sorpresa da Dharamsala, sede del Dalai Lama esiliato, Tenzin Gyatso, indiscusso capo spirituale dei tibetani e premio Nobel per la pace. Anche il Dalai Lama aveva “letto” i segni della rinascita di Gedhun come Panchen: glielo indicarono numerosi sogni, le divinità del lago sacro Lhamoi Lhatso e le sfere di pasta d’ orzo che rimbalzavano “come in una magia” dal cesto dei trenta candidati iniziali. Sorpresa e sgomento tra i cinesi per questo gioco d’ anticipo dell’ odiato Dalai Lama, esule da 36 anni, che ottenne il Nobel per la pace in chiave anti-Deng dopo la strage di Tienanmen. Perché l’ annuncio del Dalai Lama, per quanto contestato da Pechino, ha messo un’ ipoteca sul piccolo Buddha, ponendo di fatto fine alle ricerche dell’undicesimo Panchen Lama, reincarnazione del decimo Gompo Tseden, padre di due figli, manifestazione del Buddha di luce Amithaba, morto il 28 gennaio 1989. E pensare che a Pechino tutto era pronto per l’ ultima delle grandi prove prima dell’ investitura ufficiale, la cosiddetta divinazione “del vaso d’ oro”, cioè l’ estrazione del nome del candidato di fronte alla statua del Buddha Sakyamuni, posta – non a caso – nel tempio lamaista di Pechino, a sancire anche il luogo fisico del dominio cinese sulla stessa religione del Tibet. Con il suo annuncio, per Pechino, il capo spirituale tibetano ha compiuto opera di “sabotaggio e cospirazione” contro la “sicurezza e l’ unità della madrepatria”, perché risalirebbe ai riti della dinastia Qing (seconda metà del 1700) il diritto del Celeste impero di approvare o no la reincarnazione dei Buddha. Molto diversa l’ interpretazione del governo tibetano in esilio, che attraverso un bollettino degli esiliati ricorda come fu il quarto Panchen Lama a riconoscere la reincarnazione del quinto Dalai Lama che, a sua volta, riconobbe il quinto Panchen e via consacrando: il settimo Dalai benedì il sesto Panchen il quale fece altrettanto con l’ ottavo Dalai che consacrò il settimo Panchen. Senza contare che certe cose – dice la stessa nota – appartengono alla tradizione degli antichi insegnamenti religiosi buddhisti, e non alle risoluzioni del partito comunista cinese. E pensare che il governo di Deng aveva anche rinunciato a certe granitiche certezze materialiste autorizzando e controllando passo dopo passo le magiche ricerche del nuovo buddha “filocomunista”, affidate a un Comitato formato da lama e monaci del monastero di Tashilhunpo a Shigatse, sede mondana del Panchen lama. Ma ora i cinesi sospettano che proprio da Tashilhunpo sia partita la “soffiata” sul nome del prescelto raccolta dal nemico tibetano in esilio, e hanno arrestato l’ abate del monastero, Chatral Rinpoche, un ex uomo di fiducia del partito, tanto fedele a Pechino da aver denunciato nel passato cinque suoi monaci scoperti a leggere in segreto la biografia vietata del Dalai Lama e ad ascoltare clandestinamente alla radio Voice of America. Tanti piccoli segni che il piccolo Gedhun è diventato un caso di Stato, mentre sullo sfondo si riaccendono le tensioni indipendentiste di pochi milioni di nomadi contro un miliardo di han. – di RAIMONDO BULTRINI
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1995/07/22/il-piccolo-buddha-un-mistero-cinese.html