Repubblica — 18 aprile 2008 pagina 45 sezione: CULTURA
Mentre la comunità internazionale reagisce alla repressione in Tibet da parte della Cina, un Paese si fa notare per il fatto di trovarsi nel bel mezzo di questa tragedia e di essere al contempo restio a parlarne. L’ India, terra di asilo per il Dalai Lama e le giovani teste calde violente del Tibetan Youth Congress, si trova alle prese con un dilemma insolubile. Da un canto, l’ India è una democrazia che per lunga tradizione ha sempre autorizzato le proteste pacifiche, comprese quelle contro le nazioni straniere quando i loro leader vi si recano in visita. … Nel 1959 ha offerto rifugio al Dalai Lama, quando egli scappò davanti all’ occupazione cinese del Tibet, e da allora ha garantito asilo e perfino la cittadinanza indiana a oltre 110.000 profughi tibetani, autorizzandoli a creare un governo tibetano in esilio (quantunque non riconosciuto dall’ India) nella suggestiva cittadina di Dharamsala, alle pendici dell’ Himalaya. D’ altro canto, l’ India sta coltivando rapporti migliori con la Cina, dalla quale fu umiliata nel corso di un breve conflitto di frontiera nel 1962. Benché la questione all’ origine di quel conflitto sia rimasta irrisolta, e la Cina sia stata un alleato cruciale dei nemici in Pakistan dell’ India e abbia fornito loro armi, negli ultimi anni le relazioni bilaterali tra questi due Paesi si sono fatte meno gelide e tese. Gli scambi commerciali tra Cina e India sono raddoppiati da un anno all’ altro per tre anni consecutivi, e si calcola che nel 2008 possano raggiungere un valore pari a 40 miliardi di dollari. La Cina ormai ha strappato agli Stati Uniti il ruolo di principale partner unico per gli scambi commerciali dell’ India. Il turismo, in particolare quello dei pellegrini indiani diretti nei preminenti luoghi santi hindu in Tibet, prospera. Le aziende indiane di informatica hanno aperto uffici a Shanghai, mentre il quartiere generale di Infosys a Bangalore di recente ha assunto nove dipendenti cinesi. Senza dubbio, Nuova Delhi non ha nessuna intenzione di mettere a repentaglio tutto ciò. Il governo indiano ha tentato di distinguere tra gli obblighi umanitari che ha in qualità di Paese che offre asilo e le sue responsabilità politiche di Paese amico della Cina. Il Dalai Lama e i suoi seguaci possono vivere in un luogo protetto, ma devono rispettare l’ obbligo di non dedicarsi ad “attività politiche” su suolo indiano. Quando i giovani radicali tibetani hanno organizzato una marcia verso Lhasa dal territorio indiano, la polizia indiana li ha fermati molto prima che arrivassero al confine con il Tibet, mettendone in carcere un centinaio. Quando i dimostranti tibetani fuori dall’ Ambasciata cinese di Nuova Delhi hanno dato l’ assalto all’ edificio, il governo indiano ha garantito la protezione ai diplomatici cinesi. Il ministro degli Esteri indiano Pranab Mukherjee – che durante una conferenza stampa con il segretario di Stato americano Condoleezza Rice è stato palesemente molto meno accomodante della sua controparte americana nei confronti del Tibet – ha pubblicamente messo in guardia il Dalai Lama dall’ intraprendere qualsiasi iniziativa che possa avere un «impatto negativo sulle relazioni tra Cina e India». L’ insolita posizione del Dalai Lama ha complicato i rapporti diplomatici dell’India con la Cina: a uno stesso tempo egli è infatti il leader spirituale maggiormente in vista di una comunità mondiale di fedeli – ruolo verso il quale l’ India dimostra stima e rispetto – e un leader politico, ruolo che l’ India tollera ma che ripudia allorché deve avere a che fare con lui. Da buddista, il Dalai Lama predica il non attaccamento alle cose materiali, l’ auto-realizzazione, l’ illuminazione interiore e la nonviolenza. Da tibetano è ammirato da un popolo fieramente attaccato alla propria terra, che in stragrande maggioranza ambisce a rendersi indipendente dalla Cina ed è determinato a combattere per questa causa. Il Dalai Lama è il simbolo più riconosciuto nel mondo di un Paese che egli non vede da circa mezzo secolo. Il messaggio di pace, di amore e di riconciliazione del Dalai Lama è stato recepito e fatto proprio da molte persone in tutto il mondo, tra le quali star di Hollywood, hippy con la coda di cavallo, musicisti rock irlandesi, e politici indiani. Ma il Dalai Lama non ha fatto alcun passo avanti con il regime che amministra il suo Paese natale, e si è rivelato impotente a impedire che il Tibet subisse un’ inesorabile metamorfosi e diventasse una provincia cinese. Gli stadi del mondo si riempiono di folle che vogliono sentirlo parlare, è stato insignito di un Premio Nobel, ma i leader politici della comunità internazionale si esimono quanto più possibile dall’ incontrarlo nel timore di offendere la Cina. Gli indiani sono perfettamente consapevoli che, da questo punto di vista, i cinesi sono assai suscettibili e si offendono assai facilmente. Se da un lato l’ India il mese scorso ha agevolato quanto più possibile l’ incontro di Nancy Pelosi, portavoce della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, con il Dalai Lama a Dharamsala, quasi simultaneamente dall’ altro ha annullato un appuntamento già fissato da tempo tra lui e il vicepresidente indiano Mohammed Hamid Ansari. Quando la Cina ha convocato al ministero degli Esteri di Pechino l’ ambasciatore indiano alle due di notte per rimproverarlo ufficialmente per le proteste dei tibetani a Nuova Delhi, l’ India assai docilmente ha incassato l’ affronto. Benché il Primo ministro Manmohan Singh abbia pubblicamente dichiarato che il Dalai Lama è “la non-violenza fatta persona”, l’ India ha fatto sapere che non ne sostiene gli obiettivi politici. Il Tibet – secondo quanto ha dichiarato ufficialmente il governo indiano – è parte integrante della Cina e l’ India non appoggia in nessun modo coloro che intendono modificarne lo status. Tale comportamento non è ovviamente esente da critiche. Il partito di opposizione Bharatiya Janata (Bjp, alla guida del precedente governo) ha condannato l’ attuale amministrazione per non «aver espresso vive preoccupazioni in merito all’uso della forza da parte del governo di Pechino» e per aver invece «adottato una politica di appeasement nei confronti della Cina, con scarsa considerazione per l’ onore nazionale del Paese e l’ indipendenza della politica estera». Pochi osservatori, tuttavia, sono persuasi che in analoghe circostanze il Bjp si sarebbe comportato in modo diverso. L’ amara verità è che l’ India non ha scelta. Non può mettere a repentaglio i suoi principi democratici limitando la libertà di espressione dei tibetani all’ interno dei propri confini. Né del resto può permettersi di alienarsi il suo principale partner commerciale, che è oltretutto un Paese confinante, una superpotenza globale emergente, ben nota per essere alquanto irritabile e suscettibile su qualsiasi presunta provocazione inerente alla sua sovranità sul Tibet. E l’ India in questo funambolismo tibetano continuerà a tenersi in equilibrio precario. Copyright Project Syndicate 2008 www.project-syndicate.org Traduzione di Anna Bissanti – SHASHI THAROOR