Repubblica — 26 aprile 2008 pagina 12 sezione: POLITICA ESTERA
Federico Rampini Pechino – Ventiquattr’ore dopo aver ricevuto i rappresentanti di Nicolas Sarkozy, e proprio mentre il presidente della Commissione europea Barroso è in visita a Pechino, il governo cinese «apre» al dialogo col Dalai Lama. La schiarita è un regalo prezioso alle diplomazie occidentali: da Washington all’ Unione europea, la richiesta di un dialogo sul Tibet era un coro unanime nelle scorse settimane, dopo la repressione cinese contro la rivolta scoppiata a Lhasa il 14 marzo. Il ramoscello d’ ulivo che il presidente Hu Jintao sembra tendere al leader buddista in esilio – trattato per anni come un «secessionista» e addirittura un criminale – è un gesto studiato per allentare la pressione in vista delle Olimpiadi di agosto. E’ presto per parlare di una svolta. Le attese di un cambiamento nella politica cinese verso il Tibet rischiano di essere deluse. Il governo di Pechino può essere impegnato in una sottile tattica dilatoria: alterna verso l’ Occidente i toni minacciosi, i risentimenti nazionalisti, e ora le offerte distensive. Un obiettivo è evitare incidenti politici imbarazzanti come la minacciata defezione di Sarkozy, che alla cerimonia inaugurale di Pechino l’ 8 agosto dovrebbe rappresentare l’ intera Unione europea. Di recente il governo cinese ha deciso di ingaggiare un’ importante società occidentale di relazioni pubbliche per un’ operazione di cosmesi sulla propria immagine: questo forse è il primo frutto dei consigli dei professionisti del settore. Il segnale di disgelo è arrivato ieri mattina dall’ agenzia ufficiale Nuova Cina: «Alla luce delle ripetute richieste avanzate dal Dalai Lama per la ripresa di negoziati, l’ ufficio competente del governo centrale avrà dei contatti e delle consultazioni con un rappresentante personale del Dalai Lama nei prossimi giorni». Il comunicato aggiunge che «la politica del governo centrale verso il Dalai Lama è stata coerente e la porta del dialogo è sempre rimasta aperta». Pechino conclude lo stesso annuncio con una rituale bordata di accuse: «E’ sperabile che attraverso il contatto e la consultazione il Dalai Lama farà dei gesti credibili per cessare ogni attività tesa a dividere la Cina; che smetta di complottare e di istigare la violenza; che rinunci a rovinare e sabotare le Olimpiadi di Pechino, in modo da creare le condizioni del dialogo». I toni restano duri. La dottrina ufficiale non rinnega la «teoria del complotto». Da quando iniziarono le proteste pacifiche dei monaci a Lhasa il 10 marzo (anniversario della fuga in esilio del Dalai Lama nel 1959), poi seguite dalla violenta ribellione della popolazione civile dal 14 marzo, il regime di Hu Jintao ha sempre sostenuto che vi era la mano del capo spirituale buddista dietro la rivolta. La sua «cricca secessionista» è stata accusata di manovrare le proteste. Nei mass media ufficiali il Dalai Lama è stato dipinto come un demone, o come un agente degli Stati Uniti e della Cia, impegnato a minare l’ unità della Repubblica Popolare. L’ odio per il Dalai Lama è stato alimentato nella popolazione cinese quando sono giunte da Londra, Parigi e San Francisco le immagini di manifestanti tibetani contro la fiaccola olimpica. Tuttavia, anche nella tensione più acuta lo stesso Dalai Lama ha sempre evocato l’ esistenza di contatti con Pechino. Un dialogo indiretto dura da anni – per certi versi analogo ai negoziati informali tra il Vaticano e la Repubblica Popolare – in modo «infruttuoso» secondo il leader buddista. Per Pechino l’ impasse finora sarebbe stata causata dal «secessionismo». L’ appartenenza del Tibet alla Repubblica Popolare – dopo l’ invasione militare ordinata da Mao Zedong nel 1950 – è un dogma del neonazionalismo cinese. Ogni appoggio occidentale ai tibetani viene dipinto come un’ interferenza negli affari interni e un tentativo di indebolire la Cina. Dall’ inizio di questa crisi Hu Jintao ha sempre preteso, e ottenuto, che i governi occidentali antepongano a ogni discorso sui diritti umani la premessa che il Tibet è parte integrante della Cina. In realtà il Dalai Lama ha rinunciato da vent’ anni a rivendicare l’ indipendenza. L’ autonomia culturale che chiede all’ interno della Repubblica Popolare punta a preservare l’ identità tibetana, aggredita dall’ immigrazione han, dallo sviluppo economico, dall’ indottrinamento politico imposto nei monasteri buddisti. E’ questo il nodo del contendere. Il regime comunista per mantenere il monopolio del potere e impedire la nascita di opposizioni, non ammette nessun tipo di autonomia della società civile. Considera come una sfida inaccettabile l’ esistenza di un movimento religioso guidato da un leader indipendente. E’ poco plausibile che su questo punto Hu Jintao abbia deciso di fare concessioni significative: sarebbe una sterzata riformista clamorosa, l’ inizio di una stagione nuova per il regime. E’ più facile che il dialogo con il Dalai Lama sia una mossa tattica tesa a risolvere la doppia crisi in corso. Da una parte sul piano interno: in Tibet e nelle enclave etniche tibetane delle provincie adiacenti, la repressione poliziesca non ha ancora soffocato tutti i focolai di protesta. Lo dimostra il persistente divieto di accesso ai giornalisti stranieri, in palese violazione degli impegni presi da Pechino per i Giochi. D’ altra parte c’ è la crisi d’ immagine internazionale, particolarmente fastidiosa a tre mesi dall’ avvio delle Olimpiadi. Con l’annuncio di ieri Hu Jintao probabilmente vuole captare la buona volontà del Dalai Lama: usandolo per placare l’esasperazione dei tibetani, e per gratificare l’ Amministrazione Bush, il Congresso di Washington, Sarkozy, Barroso e le opinioni pubbliche occidentali. – FEDERICO RAMPINI
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