Repubblica — 06 febbraio 2008 pagina 38 sezione: POLITICA ESTERA
BANGKOK – Il culto di uno spirito “feroce” dell’antica tradizione tibetana è tornato dopo secoli a scatenare paure e tensioni tra la comunità buddista esule. Un articolo pubblicato ieri dal China Daily ha anche riacceso attorno a questo misterioso essere dalle forme demoniche un’ ennesima polemica politica e religiosa tra il Dalai lama e le autorità di Pechino. Il Nobel della Pace è stato infatti accusato dal quotidiano comunista di “perseguitare” i seguaci dello spirito e di aver indetto un imbarazzante referendum nei monasteri buddisti in esilio per estromettere i religiosi che ancora venerano Dorje Shugden. Di questa controversa figura del pantheon himalayano – come il Voldemort di Harry Potter – molti temono perfino di pronunciare il nome, e non a caso nel 1997 ai seguaci di Shugden è stato attribuito il massacro a coltellate di un lama che aveva criticato aspramente il culto e di due suoi assistenti. Il giornale scrive che a seguito del “voto pubblico” nove monaci che si sono rifiutati di abiurare “Gyaiqen Xudain” – così è stato cinesizzato scaramanticamente il nome – sono stati espulsi “perché lo spirito è addirittura sospettato di compromettere la causa del Tibet e di danneggiare la salute del Dalai lama”. L’ inedito interesse di Pechino per il rispetto delle libertà religiose e per la salute del leader esule risale a un episodio del 1996 citato nello stesso articolo. Quell’ anno un gruppo di buddisti tibetani e occidentali sfilò in corteo nel centro di Londra gridando slogan contro il Premio Nobel per aver chiesto “da un giorno all’ altro e senza motivazioni valide” di non pregare più il loro spirito. Il risalto dato dalla stampa occidentale e la successiva nascita di una “Coalizione Internazionale pro-Shugden” vennero seguiti con grande attenzione dai dirigenti di Pechino, ai quali non sembrò vero di trovare alleati tra gli ex discepoli del nemico “separatista” insignito del Nobel. I membri del culto hanno iniziato negli anni seguenti a ricevere speciali attenzioni e fondi per costruire statue di Shugden nei loro monasteri in Tibet, mentre un lama della coalizione residente in Italia, Ganchen Tulku, divenne uno dei più ascoltati consiglieri delle autorità cinesi nella delicata materia delle cosiddette “reincarnazioni”. Proprio la politica dei “tulku”, considerati capaci dopo la morte di riprendere forma a piacimento, sembra all’ origine di questo conflitto fatto risalire storicamente alla metà del 1600, quando il Quinto Dalai lama divenne il capo incontrastato della scuola dei Cappelli Gialli (i “Puri” Gelupa) che dominò per tre secoli il Tibet dall’ Himalaya ai confini cinesi. Lo spirito oggetto della controversia si sarebbe manifestato nel 1656 con il decesso in circostanze mai chiarite storicamente di un alto sacerdote della stessa scuola, Dragpa Gyaltsen, considerato dagli odierni seguaci il vero Quinto Dalai lama. Secondo questa tesi la figura di Dragpa Gyaltsen offuscava in termini dottrinari la figura del suo più celebre contemporaneo, ritenuto un “eretico” contaminato dalle pratiche di altre scuole. Da qui la presunta trasformazione post-mortem di Dragpa Gyaltsen in un “Protettore” divino del buddismo dalla forma feroce, con il compito di spaventare i nemici della fede (soprattutto gli adepti delle sètte diverse da quella Gelupa). Qualunque sia l’origine del culto, di certo Shugden è riemerso dall’oblio nel secolo scorso alla morte del XIII Dalai lama, quando un gruppo di alti sacerdoti, tra i quali i maestri dell’attuale reincarnazione, riuscì a convincere gran parte della potente aristocrazia Gelupa di Lhasa che il potere della loro scuola derivava dalla “Protezione” di Shugden. Si creò così in suo nome una sorta di fratellanza massonica ai vertici del governo e lo stesso XIV Dalai, all’ epoca poco più che un bambino, venne “iniziato” al culto. Fu soltanto dopo la fuga e l’esilio in India nel 1959 che l’ odierno Dalai lama, venuto a stretto contatto nel villaggio indiano di Dharamsala con i maestri delle altre scuole, considerò il culto di Shugden di natura settaria. O, come ci disse in un’ intervista, “fondamentalista”. Il premio Nobel ricevuto nella sua veste di leader di tutti i tibetani, senza distinzioni dottrinarie, lo convinse ad abbandonare definitivamente gli ortodossi e lo spirito da loro evocato come protettore esclusivo. Uno spirito che non a caso gli atei comunisti cinesi stanno cercando di riesumare e sostenere accusando il lama esule – come ha fatto ieri il China Daily – di “violare i diritti umani” dei praticanti di Shugden. La prossima mossa – già anticipata molti anni fa dall’ex capo della provincia autonoma tibetana Qiangba Puncog – sarà quella di nominare a Pechino il prossimo Dalai lama, com’ è già successo con la figura numero due del buddhismo tibetano, il Panchen. Quello attuale è un ragazzo diciottenne, sostituito al candidato scelto a Dharamsala e sparito senza lasciare tracce dal 1995. Il primo lama a riconoscere il Panchen di Pechino fu proprio lo “shugdenista” Ganchen Tulku. – RAIMONDO BULTRINI
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