Il Primo Ministro britannico Gordon Brown ammonisce che se la comunità mondiale non ha sottoscritto un accordo giuridicamente vincolante a Copenhagen, la responsabilità è prevalentemente della Cina. La verità è che né la Cina né la comunità mondiale erano pronte per un tale impegno; ma le ragioni per cui la Cina non ha accettato un accordo giuridicamente vincolante, sono ancora più controverse. Questo è quanto dichiarato da Knut H. Alfsen, direttore del Centro Cicero, per la Ricerca sul Clima. Al vertice di Copenaghen ha preso parte una delegazione tibetana non ufficiale, chiamata Tibet Third Pole (Tibet Terzo Polo). Scopo di tale delegazione era quello di portare all’attenzione l’importanza dell’ecosistema dell’altopiano tibetano e le politiche ambientali cinesi in Tibet. La definizione “Terzo Polo” proviene dal fatto che l’Himalaya custodisce la terza maggiore scorta di acque glaciali al mondo, dopo il Polo Nord e il Polo Sud. … La temperatura sull’altopiano tibetano è aumentata il doppio rispetto alle medie nel resto del Globo. L’IPCC (International Panel on Climate Changes), prevedeva che i maggiori ghiacciai dell’altopiano Himalayano si sarebbero completamente sciolti entro il 2035; nonostante questa previsione non sia stata in realtà scientificamente confermata, la velocità di scioglimento risulta essere comunque molto alta. Nel 2009, la Cina è stata vittima della sua peggiore siccità degli ultimi 50 anni. Le aree erbose che coprono circa il 70% dell’altopiano tibetano e che sono indispensabili per proteggere il permafrost (un terreno ove il suolo profondo è perennemente ghiacciato), sono ora in processo di desertificazione. La Cina si trova nel bel mezzo di una vera e propria crisi idrica e l’obiettivo della delegazione tibetana Tibet Third Pole a Copenaghen è stato quello di presentare un piano di intervento alternativo alle riprovevoli politiche di intervento cinesi.
Una delle “strategie” del governo cinese è quella di rimuovere tutti i nomadi dalle loro abitazioni sui pascoli dell’altopiano entro la fine del 2010, per trasferirli in tristi complessi di piccole costruzioni in cemento. Qui, i nomadi, persa la loro principale fonte di sostentamento, hanno ben poche se non nessuna prospettiva. Questa politica di assimilazione rappresenta una minaccia sia per la cultura e l’identità del Tibet, che per l’autodeterminazione del suo popolo. Inoltre, la decisione di Pechino di distruggere la cultura e lo stile di vita dei nomadi tibetani è in contrasto con quanto fino ad ora dimostrato dalla ricerca scientifica. Infatti, i ricercatori che studiano questo specifico ecosistema hanno dimostrato che l’attività dei nomadi ha in realtà un effetto positivo nel territorio. Perché quindi non basarsi su queste evidenze scientifiche per fronteggiare il problema della desertificazione? Le conoscenze tradizionali nomadi, da sempre consacrate ad essere in sintonia con l’ecosistema, adattandovisi nel corso dei secoli, dovrebbero essere parte del piano di prevenzione nell’impedire l’ulteriore diffusione del processo di desertificazione. Ma il Governo centrale di Pechino non sembra preoccuparsi di tali conoscenze. La rimozione forzata dei nomadi è stata giustificata dalla crisi idrica, ma in realtà il suo scopo principale è quello di “cinesizzare” i tibetani, soprattutto in seguito ai disordini del 2008.
La seconda soluzione cinese per fronteggiare la crisi idrica e quello di costruire una serie di centrali idroelettriche, per controllare il flusso dei fiumi attraverso un sistema di dighe. Ciò ha importanti implicazioni ambientali e conseguenze per la popolazione locale nelle aree in cui tali opere sono in corso di progettazione o sono state già portate a termine. Bisogna poi considerare che più di un miliardo di persone dipendono, essenzialmente, dall’acqua proveniente dall’Himalaya. Il Fiume Giallo, il secondo fiume più lungo della Cina, non raggiunge la foce per più di 200 giorni l’anno. Un’opera di deviazione del corso del fiume Jinsha è già in corso. Il 20 ottobre 2009, la Cina ha siglato un accordo con l’India, garantendo di non costruire dighe sul corso del fiume Yarlung Tsangpo / Brahmaputra lungo il suo corso in territorio cinese, ma ci si potrebbe chiedere cosa accade laddove il fiume cambia il suo nome. Il Fiume Giallo non bagna altro Paese se non la Cina e quindi può essere considerato una questione di “gestione interna”, ma la storia è diversa nel caso del fiume Yarlung Tsangpo / Brahmaputra e di molti altri fiumi che bagnano l’Asia medio-orientale.
Il problema oggi è che la Cina minaccia di sanzioni commerciali chiunque osi criticare le sue politiche. Il 9 dicembre 2010 la Danimarca, paese ospitante la XV Conferenza sui Cambiamenti Climatici (COP15), ha sottoscritto una dichiarazione nella quale dichiara di non riconoscere l’indipendenza del Tibet. Questa dichiarazione è arrivata proprio due giorni dopo l’inizio delle trattative del COP15, quindi non è assurdo pensare che la dichiarazione fosse un messaggio volto a far scendere il silenzio in merito alla crisi idrica sull’altopiano tibetano e il trattamento riservato ai suoi abitanti, per paura che eventuali proposte in questo ambito potessero essere interpretate come interventi a favore dell’indipendenza del Tibet. Se la comunità mondiale avesse protestato contro la presa di posizione ufficiale della Danimarca in un così delicato momento, la conseguenza più plausibile sarebbe stata che la Cina avrebbe abbandonato il tavolo dei negoziati, con il rischio di sanzioni commerciali nei confronti di alcuni Paesi.
La causa scatenante che ha portato la Danimarca a sottoscrivere la dichiarazione contro l’indipendenza del Tibet è probabilmente il raffreddamento dei rapporti con la Cina dopo che il Primo Ministro danese Lars Rasmussen Loop aveva personalmente ricevuto la visita di S.S. Dalai Lama nel 2008. La Cina aveva interpretato questo gesto come un oltraggio al suo tentativo ti apparire una nazione unita e compatta. Infatti, il governo cinese vuole dare al mondo l’impressione di poggiare su un consenso interno armonico e forte. In seguito ai disordini sorti in Tibet nel 2008, i confini della regione sono stati chiusi, senza che tra l’altro la comunità internazionale abbia fatto esplicite pressioni contro questa politica sconsiderata. È chiaro che la Cina vuole tenere la sua politica ambientale lontano dall’attenzione del mondo.
Parallelamente al COP15, si è tenuta una para-conferenza chiamata “Climaforum09”, che voleva essere la risposta della società civile ai negoziati “dell’élite”. Singoli individui e organizzazioni provenienti da tutto il mondo hanno partecipato con diverse attività, ma non si è vista neanche una ONG cinese. Forse la società civile cinese non si interessa dei cambiamenti climatici? Senza la presenza della sua società civile, la Cina ha potuto facilmente negoziare acritica, come un’ unica voce.
Come sottolineato dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, clima e politiche ambientali sono collegate ad aspetti socio-culturali. In un futuro non lontano, la vita di più di un miliardo di persone potrebbe essere influenzata dalle politiche cinesi sull’altopiano tibetano, se non si fa qualcosa adesso. È quindi indispensabile che la Cina apra i confini del Tibet e permetta a ricercatori internazionali e indipendenti di condurre studi sul caso. Il governo cinese deve rispettare il diritto del proprio popolo all’auto-determinazione, come sancito in materia di diritti umani, e fermare il trasferimento forzato dei nomadi tibetani. Bisogna anche che vengano interrotte tutte le attività che degradano l’ecosistema sull’altopiano. Fintanto il governo cinese tiene chiuse le frontiere, cercando di mantenere nascoste i suoi interventi in Tibet, non è difficile comprendere il perché a Copenaghen non ha voluto siglare un accordo giuridicamente vincolante sui cambiamenti climatici: un tale accordo potrebbe mettere il bastone tra le ruote alle sue immorali ambizioni politiche in Tibet.
Roy-Arne Varsi
Norwegian Tibet Committee & Tibet Third Pole
(Tradotto per Associazione Italia-Tibet da Giovanna Calogiuri) http://www.italiatibet.org/index.php?option=com_content&view=article&id=420:la-cina-evita-un-accordo-vincolante-su-cambiamenti-climatici&catid=37:rassegna-stampa&Itemid=75