Repubblica — 22 novembre 2007 pagina 16 sezione: POLITICA ESTERA
PECHINO – Il prossimo Dalai Lama potrebbe essere designato mentre l’ attuale leader spirituale dei buddisti tibetani è ancora in vita, rompendo la tradizione secolare che fissa la scelta del successore dopo la sua morte. Lo ha annunciato lo stesso Dalai Lama durante una visita in Giappone, quasi clandestina perché i rappresentanti del governo di Tokyo hanno rifiutato di riceverlo e perfino di dargli una scorta, per non scatenare l’ ira del governo cinese. Lo strappo annunciato rispetto alle antiche consuetudini religiose è un segnale dell’ estrema tensione sulla successione. Si spiegano così le durissime prese di posizione del regime di Pechino che di recente ha attaccato Stati Uniti e Germania per avere tributato onori ufficiali all’ autorità spirituale tibetana. I dirigenti della Repubblica popolare, convinti che il tempo giochi in loro favore, hanno pianificato la soluzione finale al problema del Tibet: alla morte del Dalai Lama imporranno un leader di loro gradimento per spegnere definitivamente ogni velleità di autonomia religiosa. Dal 1959, quando il Dalai Lama fuggì dalla sua terra occupata dall’ esercito cinese e trovò asilo nella città indiana di Dharmsala, questo esule carismatico è sempre stato una spina nel fianco per la nomenklatura comunista e un ostacolo alla “normalizzazione”. Ora il regime cinese punta tutto sulla sua morte. L’ ultima legge varata a Pechino dall’ Amministrazione statale degli Affari religiosi, il cosiddetto Ordine numero 5, s’ intitola “Misure amministrative per la Reincarnazione dei Buddha viventi nel Tibet”. Lo Stato cinese si arroga l’ ultima parola anche in questo campo, per far sì che il prossimo leader buddista sia un docile fantoccio nelle sue mani. “Il popolo tibetano – ha dichiarato il Dalai Lama in un’ intervista al quotidiano giapponese Sankei Shimbun – non riconoscerebbe un successore selezionato dalla Cina dopo la mia morte. Se i tibetani desiderano mantenere il sistema dei Dalai Lama, una possibilità è designare il prossimo mentre io sono ancora vivo. Tra le opzioni in discussione c’ è una selezione democratica operata dai più autorevoli monaci del buddismo tibetano, oppure una nomina fatta da me”. Ha aggiunto poi che le relazioni fra i tibetani e il governo centrale di Pechino sono “al livello di massima tensione da molti anni”. Negli ultimi mesi si sono moltiplicati gli episodi di ribellione contro il dominio cinese. Arresti e torture contro i dissidenti sono in aumento. Spaventati dall’ afflusso di immigrati han (l’ etnìa dominante della Cina) i tibetani temono di essere assorbiti dalla pressione demografica ed economica del colosso che li occupa dal 1950. Per consolidare il suo controllo su una zona vasta e quasi deserta (vi abitano poco più di cinque milioni di tibetani etnici), ma di interesse geostrategico e ricca di materie prime, il regime comunista accelera la modernizzazione. Il Dalai Lama ha sempre riconosciuto che lo sviluppo economico è necessario per affrancare il suo popolo dalla miseria, ma denuncia la deforestazione e il degrado del delicato ecosistema nella regione himalayana. Pechino ha già fornito un assaggio dei metodi che può utilizzare per blindare la successione. Nel 1995 il Dalai Lama aveva scelto un bambino di 6 anni, Gendun Choekyi Nyima, per farne l’ undicesimo Panchen Lama, la seconda figura spirituale più rispettata dai buddisti tibetani. Il bambino e la sua famiglia furono fatti sparire e non si sono mai più avute notizie su di loro. Il governo della Repubblica popolare sostiene di tenerli in un luogo segreto per “proteggerli”. Nel frattempo le autorità comuniste hanno designato un altro Panchen Lama, Gyaltsen Norbu, dal quale pretendono una fedeltà assoluta alla Cina. La questione tibetana – su cui il regime mostra un nervosismo accentuato dopo le rivolte dei monaci birmani di quest’ estate – continua ad avvelenare i rapporti fra Pechino e l’ Occidente. Il Giappone ha preferito non rischiare i fulmini del suo potente vicino. Il cancelliere tedesco Angela Merkel invece non si è affatto pentita di avere ricevuto il Dalai Lama, anche se questo è costato alla Germania dure accuse da Pechino e una serie di ritorsioni diplomatiche. In un’ intervista a Bild la Merkel ha detto che lo rifarebbe, e ha lanciato un monito al governo di Pechino. “La cosa migliore – ha detto la Merkel – sarebbe che i cinesi si decidessero a dialogare direttamente con il Dalai Lama, che non vuole l’ indipendenza ma solo un’ autonomia culturale del Tibet e il rispetto dei diritti umani”. – DAL NOSTRO CORRISPONDENTE FEDERICO RAMPINI
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