Repubblica — 08 ottobre 1987 pagina 13 sezione: POLITICA ESTERA
PECHINO Le ore sono trascorse lente ieri a Lhasa, nella capitale del Tibet, nel giorno anniversario dell’ invasione cinese. La città era presidiata da un imponente dispositivo di sicurezza, che ha di fatto impedito qualunque assembramento e imposto una calma forzata, pur non riuscendo a dissipare l’ atmosfera di grande tensione. La capitale tibetana resta isolata dal mondo e un portavoce del ministero degli Esteri a Pechino ha rinnovato l’ invito a non andarci rivolto agli stranieri: Alla luce dell’ attuale situazione li sconsigliamo vivamente di farlo. Dopo la prima mattinata, quando i dispacci delle agenzie di stampa occidentali da Lhasa non segnalavano avvenimenti, le comunicazioni telefoniche e telex sono state totalmente interrotte. Gli uffici delle agenzie straniere a Pechino non sono più riusciti a collegarsi con i loro inviati, restando totalmente senza notizie. Mentre la situazione a Lhasa era dunque ancora oscura, la crisi aperta dai moti indipendentisti dei giorni scorsi (costati almeno quattordici morti) ha avuto inattese ripercussioni internazionali, che hanno coinvolto anche i rapporti sino-americani e quelli interni agli Usa tra l’ amministrazione Reagan e il Senato. Disponibilità al negoziato Mentre dal suo esilio in India il Dalai Lama la massima autorità religiosa buddista tibetana ha invitato i suoi concittadini alla disobbedienza civile contro le autorità cinesi e si è dichiarato disponibile ad aprire negoziati per l’ indipendenza con Pechino, l’ amministrazione americana è scesa in campo al fianco del regime comunista cinese. Dal 1978 Washington considera ufficialmente il Tibet parte integrante del territorio cinese, e i portavoce del dipartimento di Stato hanno esplicitamente spiegato ieri che modificare questa posizione significherebbe mettere a repentaglio le ottime relazioni sino-americane. La presa di posizione è stata dovuta a un voto del Senato, che con 98 voti favorevoli e zero contrari ha approvato una mozione di condanna delle repressione e delle violazioni dei diritti umani compiute dalle forze cinesi a Lhasa. Immediata (e scontata) la protesta di Pechino per la gratuita interferenza nelle questioni interne cinesi. Il portavoce dell’ ambasciata a Washington ha accusato il Senato di essersi schierato dalla parte del Dalai Lama (la mozione approvata invita Reagan a riceverlo), nuocendo in tal modo all’ amicizia tra il popolo cinese e americano. Si tratta, concludeva il comunicato letto dal portavoce, di un nuovo, grave incidente provocato da una minoranza del Congresso Usa. Il governo cinese esprime la sua grande indignazione e la sua vibrante protesta. Ma torniamo alle dichiarazioni rilasciate dal Dalai Lama, che avranno probabilmente l’ effetto di riattizzare la rivolta in Tibet. Egli ha tenuto una conferenza stampa a Dharmsala, la località a circa 400 chilometri da New Delhi dove risiede dal 1959, anno della sua fuga da Lhasa. Dimostrazioni sì ma non violente Sono favorevole alle dimostrazioni, ma senza violenza fisica, ha detto il Dalai Lama. Io credo che la non violenza è la scelta migliore. Sei milioni di tibetani non sono felici e hanno il diritto di esprimere i loro sentimenti. La disobbedienza civile, ha spiegato, è necessaria per ottenere un miglioramento delle condizioni di vita del popolo. Ha aggiunto che è importante che i leader cinesi sappiano che il popolo tibetano non è felice, come lo deve sapere tutto il mondo. Il Dalai Lama ha poi rinfocolato la sua polemica a distanza con le autorità cinesi. Il capo spirituale dei buddisti tibetani è stato infatti recentemente negli Stati Uniti (il viaggio si è concluso il 30 settembre) e Pechino insiste nel vedere in quella visita l’ origine della rivolta di questi giorni. L’ accusa è stata ripetuta costantemente quasi ogni giorno. Ancora ieri un funzionario governativo interrogato da giornalisti occidentali ha definito i moti di Lhasa incidenti politici provocati da un piccolo numero di separatisti in combutta con il Dalai Lama, incidenti che sono da mettere in relazione con la recente visita dello stesso Dalai Lama negli Stati Uniti. Com’ era prevedibile, l’ imputato ha respinto fermamente le accuse, pur ammettendo che quel viaggio a Washington è stato naturalmente un elemento che ha avuto la sua influenza. Durante la visita il Dalai Lama aveva esposto un piano di pace in cinque punti per porre fine all’ occupazione cinese del Tibet davanti a una sottocommissione del Congresso. Una zona di pace Il piano chiede la sospensione del trasferimento di cinesi nel territorio tibetano, il rispetto dei diritti umani e la trasformazione del Tibet in una zona di pace. Nella conferenza stampa, il capo spirituale dei buddisti tibetani si è dichiarato pronto ad avviare negoziati con Pechino sulla base di queste proposte. – nostro servizio
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1987/10/08/tibetiani-resistete-chiede-il-dalai-lama.html