Repubblica — 25 marzo 2008 pagina 45 sezione: CULTURA
Xizang, “la Dimora del Tesoro occidentale”, è il nome cinese del Tibet. Una nazione che per il Dalai Lama subisce un «genocidio etnico». Per l’ opinione pubblica dei paesi democratici è la vittima di sopraffazioni in cui si rivela il volto più brutale del regime cinese. La rivolta iniziata il 10 marzo a Lhasa è stata definita l’ ultima battaglia anti coloniale, il sussulto di un popolo oppresso nell’ impero multietnico dominato da Pechino. Per la maggioranza dei cinesi, invece, lo Xizang è sempre stato loro. Lo studiano nei manuali di storia fin dalle elementari. Per loro il coro di solidarietà internazionale verso i tibetani è la versione aggiornata del perfido imperialismo anti cinese, che portò l’ Inghilterra, la Russia, il Giappone, a violentare l’ integrità territoriale dell’ Impero Celeste nel XIX e nel XX secolo. … La storia del Tibet è complicata, nell’ arco di 1.500 anni si alternano periodi di indipendenza (perfino una fase in cui i tibetani alleati coi mongoli furono più forti dei cinesi) ed epoche in cui questo paese divenne un vassallo delle dinastie cinesi. Per capire l’ accanimento attuale di Pechino basta risalire indietro di un secolo. Nel 1903 il viceré dell’ India Lord Curzon si lascia convincere dal suo colonnello Francis Younghusband che la Russia zarista ha in pugno il Dalai Lama, una pedina negli equilibri geopolitici dell’ Asia centrale. Il colonnello britannico si mette alla testa di una piccola armata di mercenari indiani, oltrepassa il confine dal Sikkim, massacra tremila tibetani. Il suo exploit militare viene sconfessato da Londra che lo costringe alla retromarcia. Ma Younghusband ha messo in moto una catena di eventi. La dinastia cinese dei Qing, agonizzante e traumatizzata dalle umiliazioni subite a opera delle potenze straniere, teme una penetrazione inglese attraverso il Tibet, l’ apertura di un nuovo varco per minacciare la Cina dal subcontinente indiano. Anche se gli inglesi sono partiti, nel 1909 le truppe dei Qing occupano Lhasa per “liberarla dall’ invasore occidentale”. Il tredicesimo Dalai Lama deve fuggire in esilio. Da allora i termini della questione tibetana non sono mai cambiati. Sotto qualsiasi regime – imperiale, repubblicano, nazionalfascista, comunista – la Cina considera il Tibet come un cuscinetto strategico per proteggersi a Ovest. Pur di non mollare la presa Pechino inventa ogni sorta di legittimità, dalla lotta anti imperialista all’ unità sino-tibetana che gli storici revisionisti del regime fanno risalire ai tempi di Marco Polo. A Mao Zedong basta un anno dalla presa del potere a Pechino (1949) per lanciare il suo Esercito popolare di liberazione nell’ invasione del Tibet. All’ inizio l’ occupazione militare cinese mostra una certa tolleranza verso le tradizioni locali, compresa la religione. Nel 1959 una prima svolta estremista di Mao Zedong porta all’ imposizione dell’ ateismo di Stato: divampa la prima ribellione in Tibet, viene sconfitta e l’ attuale Dalai Lama è costretto all’ esilio. Dal 1966 al 1975 la Rivoluzione culturale intensifica le violenze contro la religione. Il Tibet è vittima della campagna più feroce: i comunisti cinesi vi uccidono probabilmente fino a 1,2 milioni di persone, un quinto dell’ intera popolazione. Ma la tenacia dei tibetani inganna perfino il leader più lucido e astuto della Repubblica popolare, Deng Xiaoping. Tre anni dopo la morte di Mao, nel 1979 insieme con la svolta politica moderata, la normalizzazione delle relazioni con l’ Occidente e l’ avvio delle riforme di mercato, Deng allunga un ramoscello d’ ulivo al Dalai Lama invitandolo a mandare suo fratello in visita in Tibet per constatare che le condizioni di vita del suo popolo sono migliorate. Nei piani di Deng è il preludio per un negoziato con il Dalai Lama da posizioni di forza, per convincerlo a tornare in patria dopo essersi sottomesso all’ autorità centrale di Pechino. Secondo le informazioni che Deng riceve dal partito comunista locale, i tibetani ormai sono assuefatti alla dominazione cinese, i progressi nel benessere materiale appagano la popolazione. L’ errore è clamoroso. La visita del fratello del Dalai Lama scatena l’ entusiasmo popolare, le manifestazioni di gioia degenerano in cortei nazionalisti al grido di “Tibet indipendente”. Ogni dialogo con il Dalai Lama è troncato. In compenso la pratica del buddismo è tornata a fiorire, sia pure con un “numero chiuso” che contingenta il reclutamento dei nuovi monaci. Questo non impedisce che oggi nei monasteri di Lhasa molti di loro siano giovanissimi, segno che nessuna secolarizzazione è riuscita a inaridire le vocazioni. Il regime tenta di sradicare il carisma del Dalai Lama imponendo un controllo ideologico e poliziesco nei monasteri, con sedute di indottrinamento politico obbligatorie. Un fallimento: il Tibet continua a essere il teatro di periodiche insurrezioni contro i cinesi. Nel 1989 una di queste rivolte viene stroncata con la legge marziale da Hu Jintao, allora plenipotenziario del partito comunista a Lhasa, oggi numero uno del regime a Pechino. Dal 1989 Hu Jintao credeva di aver fatto molto per sopire le tensioni. Sul fronte economico Pechino ha accelerato gli investimenti per dotare il Tibet di infrastrutture efficienti, dagli aeroporti alle autostrade, e per agganciarlo al boom economico cinese. La più gigantesca e la più contestata di queste grandi opere è la linea ferroviaria Pechino-Lhasa inaugurata da due anni. Lunga 1.142 chilometri, di cui 960 a un’ altitudine superiore ai quattromila metri e con tratti a cinquemila metri su terreni eternamente ghiacciati, è un’ ardita testimonianza delle capacità tecnologiche della Cina. Per ammissione del Dalai Lama la ferrovia contribuisce a uno sviluppo economico benefico per la popolazione locale. Ma il nuovo treno è anche sotto accusa per l’ offesa a un ecosistema naturale fragile e prezioso. Ed è il simbolo di quella “conquista del West” con cui l’ etnia dominante dei cinesi han schiaccia il Tibet sotto il peso della sua immigrazione: i militari di stanza a Lhasa sono quasi tutti han, come i dirigenti del partito comunista locale. Senza ironia il regime comunista si arroga ormai perfino il diritto di consacrare i “veri” Lama reincarnati. Dietro le rivolte di questo marzo 2008 c’ è anche l’ effetto di un privilegio reale di cui godono i tibetani. Come tutte le minoranze etniche sono esentati dalla regola del figlio unico. L’ alta natalità tibetana ha prodotto un sovrappiù di giovani. Metà della popolazione tibetana ha meno di 21 anni, una composizione demografica molto più giovane della Repubblica popolare. I giovani tibetani sono più istruiti dei loro genitori ma sul mercato del lavoro continuano a essere discriminati rispetto ai cinesi han. In tutte le epoche un eccesso di popolazione giovanile è un carburante per le rivolte; i ventenni e gli adolescenti protagonisti degli scontri a Lhasa confermano la regola. L’ Occidente finge di avere a cuore i tibetani, in realtà non muove un dito. La storia dei tradimenti va da Lord Curzon a Clinton e Bush, passando per Roosevelt e Nixon, tutti amici del Tibet a parole, a patto di non disturbare la realpolitik con Pechino. Ad alimentare quest’ ultima rivolta ha contribuito la grande cerimonia dell’ anno scorso a Washington dove il Dalai Lama è stato premiato dal Congresso con la Gold Medal, e un bel discorso di George Bush. Per i tibetani quelle immagini del loro leader spirituale osannato dal presidente potevano significare una cosa sola: l’ America stavolta li avrebbe protetti. – FEDERICO RAMPINI