Tutto come previsto: nemmeno ventiquattro ore dopo la decisione di Google di chiudere il proprio servizio cinese e reindirizzare google.cn e google.com sul dominio di Hong Kong (google.com.hk), il Governo Cinese taglia i risultati prodotti dal motore: “the connection was reset” è la risposta che ricevono gli utenti che tentano di accedere a risultati o parole chiave non gradite al governo. Il Great Firewall cinese è quindi entrato in opera ristabilendo la “legalità”. … La decisione di Google di non piegarsi alla censura in Cina reindirizzando il traffico verso il proprio sito di Hong Kong non avrà alcuna ripercussione sulle relazioni bilaterali tra Cina e Stati Uniti a meno che non ci sia «qualcuno che intenda politicizzare» la questione. E’ quanto ha riferito il portavoce del ministero cinese degli Affari Esteri, Qin Gang. Pechino considera la decisione di Google una questione esclusivamente commerciale» ed ha confermato che la Cina continuerà a gestire gli accessi e l’uso di internet in conformità con la legge in vigore nel paese. In precedenza però le autorità cinesi avevano reagito stizzite alla mossa del colosso di Mountain View, giudicando un «grosso errore» la decisione di chiudere il sito cinese e di reindirizzare il traffico su quello di Hong Kong.
SITO CHIUSO – Come previsto, dopo due mesi di braccio di ferro con Pechino seguiti a un violento attacco haker, la società di Mountain View ha deciso di non sottostare alla censura imposta dal regime. E, almeno per il momento, ha trovato, come detto, un modo per aggirarla: reindirizzando il traffico al sito di Hong Kong, Google.com.hk, che offre risultati non filtrati in cinese, almeno non direttamente dalla società americana. Il sito accoglie i nuovi visitatori con la frase: «Benvenuti nella nuova casa di Google Cina».
ATTIVITÀ DI VENDITA – Una nota pubblicata sul blog della società spiega che resteranno in Cina alcuni servizi commerciali, come la vendita di inserzioni pubblicitarie sui motori di ricerca. Insomma si cerca di tenere almeno un piede in un mercato in piena esplosione. «Riteniamo che questo nuovo approccio di fornire ricerche non censurate in cinese semplice attraverso Google.com.hk sia una soluzione ragionevole – viene spiegato -: è interamente legale e aumenterà significativamente l’accesso all’informazione dei cinesi. Ci auguriamo che il governo cinese rispetti la nostra decisione, anche se siamo consapevoli che potrebbe bloccare l’accesso ai nostri servizi». Una strategia rischiosa, che potrebbe innescare ritorsioni. Le autorità cinesi potrebbero per esempio utilizzare filtri per bloccare l’accesso al motore di ricerca con base a Hong Kong.
L’ASCESA DI BAIDU – Secondo le stime della Cnbc Baidu (il principale motore di ricerca in lingua cinese) potrebbe ora conquistare il 95% del mercato della ricerca online. Mentre il quotidiano finanziario Bloomberg prevede che Mountain View si espanderà in mercati come la Corea del Sud e il Giappone, dove finora è riuscita a conquistare solo una frazione della popolarità di cui gode in Europa e Stati Uniti. Non si sa invece quale sarà il destino dei quasi 600 dipendenti della sede di Google a Pechino: «È ancora presto per dirlo» fanno sapere dal quartier generale in California.
GLI ATTACCHI DI GENNAIO – Non è chiaro da dove venissero gli attacchi informatici subiti da Google a gennaio, ma alcuni analisti vi hanno ravvisato un coinvolgimento diretto del governo di Pechino. Tra le vittime degli hacker ci sarebbero, infatti, diversi dissidenti (le cui caselle di posta elettronica sono state aperte), oltre a grandi multinazionali, molte delle quali statunitensi. Google ha minacciato di smettere di utilizzare i filtri richiesti dalla censura cinese e poi di chiudere il portale se non fosse stata messa in grado di garantire la sicurezza ai suoi clienti. Evidentemente nessun accordo era possibile.
MA LA CENSURA RESTA – Come detto però, nonostante la decisione di Google di porre fine alla censure e non filtrare più i contenuti del suo motore di ricerca in Cina, rimangono ancora bloccate le ricerche scomode. «Great Firewall» – come è battezzato il controllo del regime sul cyberspazio – continua, infatti, a bloccare le ricerche scomode: le ricerche dalla Cina di temi come il Tibet o Amnesty International risultano ancora impossibili.
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