Sua Santità il 14° Dalai Lama del Tibet
Sebbene sia in esilio, il Dalai Lama resta il custode delle tradizioni religiose e culturali del suo popolo. La Cina, che ha colonizzato la regione himalayana, è decisa a designarne il successore. Lui, che ha compiuto 84 anni, ha in mente una strategia per contrastare Pechino.
Un uomo può scegliersi il suo destino. Anche una fede può scegliersi il suo, di destino. Più complicato è quando le due scelte si intrecciano. Tenzin Gyatso il proprio destino ha provato più volte a non subirlo da quando il 22 febbraio 1940 — non aveva ancora 5 anni, è nato il 6 luglio 1935 — salì sul trono del Tibet come quattordicesimo Dalai Lama, signore spirituale e, a quel tempo, temporale. Lavorò a un accomodamento con la Cina comunista di Mao Zedong che nel 1950-51 aveva «liberato» le aree tibetane (insieme costituiscono un quarto del territorio della Repubblica popolare), decise di fuggire in India nel marzo 1959 quando la morsa di Pechino si era fatta insopportabile, rinunciò a rivendicare un’impossibile indipendenza e, in ultimo, nel 2011 si spogliò della propria autorità politica di leader del governo in esilio. È adesso, a 84 anni, che la sorte di Tenzin Gyatso diventa davvero un tutt’uno con quella della sua religione, il Buddhismo tibetano.
Il commissariamento delle attività religiose
In gioco, la sopravvivenza delle strutture gerarchiche che nei secoli hanno garantito la continuità di una tradizione spirituale sulla quale si basa l’identità culturale di un popolo.
Due elementi minacciano di scatenare un corto circuito. La Cina, il primo. L’età, il secondo. La Cina, che ha ripartito tra diverse province il Tibet storico e le ha progressivamente (e con successo) colonizzate, continua a considerare Tenzin Gyatso un «lupo vestito da agnello», un fomentatore di rivolte che attenta all’unità della madrepatria. Pechino ha sistematicamente avviato un’opera di commissariamento delle attività religiose e si prepara a gestire la successione del Dalai Lama. La sfida dottrinale e la guerriglia di opposti annunci stanno segnalando che molto cambierà per i buddhisti tibetani sia nelle terre himalayane sia nella diaspora. La posta non è un territorio ma una figura che ancora non c’è: il quindicesimo Dalai Lama. Perché il quattordicesimo — meglio: il suo corpo — non è immortale.
Vent’anni di assedio e il sequestro di un bimbo eletto
Sono oltre vent’anni che la Cina rende sempre più sofisticato il suo assedio a Tenzin Gyatso. Nel 1995 ha sequestrato il bambino riconosciuto dal clero come Panchen Lama (la seconda autorità del buddhismo tibetano) sostituendolo con un Panchen Lama di sua fiducia; nel 1996 ha vietato il culto del Dalai Lama e ha bloccato sia l’incremento del numero di monaci e monache in Tibet sia la costruzione di nuovi monasteri; nel 2007 ha promulgato una legge con la quale il governo avoca a sé il diritto di nominare i lama reincarnati; nel 2011 ha stabilito che funzionari del partito comunista devono essere presenti nei monasteri per sorvegliarne le attività; infine, dal 2016, promuove una politica di sinizzazione di tutte le religioni intervenendo anche in campo dottrinario. E qui si arriva al paradosso, perché le autorità comuniste ripetono che saranno loro a guidare la scelta e la nomina del prossimo Dalai Lama: ancora nel marzo scorso il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Geng Shuang, ha ribadito che «la reincarnazione dei Buddha viventi è un’istituzione peculiare del Buddhismo tibetano e segue una serie di regole e convenzioni. Ebbene, questo sistema è tutelato e garantito da strumenti legali appositi e dunque la successione dei Buddha viventi, incluso il Dalai Lama, deve seguire le leggi cinesi».
Un’ingerenza solidamente preparata
Di fronte alla prospettiva di un’ingerenza così solidamente preparata, il Dalai Lama ha cominciato a muoversi per tempo. Ha il carisma per farlo. Tenzin Gyatso — spiega a 7 Sam van Schaik, autore di Tibet. Storia di un popolo e di una nazione (Longanesi, 2015) — «rimane la figura religiosa chiave per la stragrande maggioranza dei buddhisti tibetani, per quanto la sua autorità politica non sia più quella di una volta, da quando ha rinunciato alle prerogative politiche» ed è consapevole, aggiunge lo studioso, che «un bis di quello che è accaduto con il Panchen Lama è più che possibile». Nella storia del Tibet le fasi di transizione tra la morte di un lama importante e il riconoscimento del successore sono state spesso travagliate da conflitti anche brutali. Ed è così che il Dalai Lama ha deciso di contrattaccare. Nel 2011 ha suggerito un metodo alternativo per trovare il nuovo Dalai Lama, spiegando che i Bodhisattva superiori possono manifestarsi in diverse persone contemporaneamente, uno scenario teologico che consentirebbe di indicare un erede mentre il leader è ancora in vita. Ha poi suggerito ulteriori possibilità, che quasi sembrano scompaginare la cartesiana linearità dei cinesi: potrebbe reincarnarsi in una donna o fuori dai confini della Repubblica popolare, la stessa istituzione del Dalai Lama potrebbe essere soppressa, addirittura potrebbero essere i fedeli a nominarlo. L’importante, ha aggiunto, è che il prescelto abbia una ventina d’anni, non sia dunque un bambino, troppo vulnerabile.
Un destino da reinventare
In sostanza, come ha fatto sapere lo stesso Tenzin Gyatso, «è particolarmente inappropriato che i comunisti cinesi, che respingono persino l’idea di vite passate e future interferiscano con il sistema delle reincarnazioni», anzi «quest’ostinata interferenza contraddice la loro ideologia e rivela il loro doppio standard». Il cambio di paradigma suggerito dal Dalai Lama ha lo scopo di ostacolare anche l’uso mirato che le autorità cinesi fanno delle consuetudini storiche tra Lhasa e Pechino di epoca tardo-imperiale, fino alla caduta della dinastia Qing (1912). Tuttavia la lotta rischia di essere impari. Dice a 7 Robert Barnett, ricercatore all’Università di Cambridge e già direttore del Modern Tibetan Studies Program alla Columbia University: «Se i cinesi continuano a rifiutare un negoziato con il Dalai Lama, l’esito quasi certo saranno due Dalai Lama. Quando il Dalai Lama dice che non si manifesterà di nuovo, beh, è solo una formula retorica: è prassi nella cultura tibetana, infatti, che i lama si mostrino modesti riguardo le loro capacità e ci si aspetta che siano i fedeli a chiedere loro di ritornare in un altro corpo».
Il sistema Vaticano: un conclave tra i lama
Tenzin Gyatso ha affermato che non gli dispiacerebbe il sistema vaticano, una sorta di conclave tra i lama di livello più elevato, e toccherà senz’altro a qualcuno fuori dal Tibet. Ma la Cina non accetterà mai una scelta fuori dal Paese. Anzi: sta già persuadendo lama tibetani affinché appoggino colui che Pechino sceglierà, chiunque sia. Ci sono funzionari in ogni villaggio per controllare la situazione quando il Dalai Lama morirà». In dieci anni oltre 150 tibetani (uomini e donne, religiosi e laici, adulti e ragazzi) si sono dati fuoco uccidendosi per protestare contro la presenza cinese: tutti inneggiavano al Dalai Lama, che tuttavia implora i fedeli di astenersi da atti cruenti come, appunto, l’autoimmolazione.
Il richiamo alla non-violenza del leader spirituale
Nello scetticismo delle nuove generazioni della diaspora, almeno a parole più intransigenti , il leader spirituale raccomanda la non-violenza e chiede di distinguere tra governo e popolazione cinese. Ma, come ha scritto su China File la sinologa Jessica Batke, per 8 anni analista per il Dipartimento di Stato americano, «senza la forza della presenza del Dalai Lama il rischio di violenza nelle aree tibetane della Cina aumenta in modo impressionante». Pessimismo, forse realismo. Un destino di sangue che, per la sua terra e per sé, il quattordicesimo Dalai Lama non vuole scegliere. Piuttosto, meglio essere l’ultimo dei Dalai Lama. Tenzin Gyatso è salito sul trono che ancora non aveva cinque anni. Fuggito in India nel 1959, ha rinunciato a rivendicare una impossibile indipendenza. Pechino si prepara a ignorare le mosse dei monaci a lui fedeli e a nominare un Dalai Lama allineato al potere comunista.
CARTA D’IDENTITÀ
Origini – Tenzin Gyatso (al secolo Lhamo Dondrub) nacque il 6 luglio 1935 in una famiglia di agricoltori a Taktser, piccolo villaggio nel nordest del Tibet, ai confini con la Cina.
Nomina – Nel 1939, una volta condotto al Potala, residenza dei Dalai Lama a Lhasa, capitale e cuore del Tibet, fu nominato XIV Dalai Lama nel corso di una solenne cerimonia.
Esilio – Nel 1959 l’esercito cinese, per stroncare la sollevazione contro Pechino organizzata dal movimento di resistenza tibetano, massacrò migliaia di uomini, donne e bambini nelle strade di Lhasa e in altri luoghi. Nella notte del 17 marzo il Dalai Lama fuggì dal Tibet e arrivò in India due settimane dopo, prendendo residenza a Dharamsala, dove vive tuttora.