Sua Santità il Dalai Lama festeggiato a Washington dai suoi tibetani
Obama incontra oggi il leader in esilio ma non nello Studio Ovale.
È il giorno dell’attesissimo incontro a Washington tra i due premi Nobel per la pace, Barack Obama e il Dalai Lama. Il leader spirituale tibetano in esilio, nonostante la più volte rimarcata contrarietà della Cina, entrerà alla Casa Bianca. Per non urtare ulteriormente la sensibilità di Pechino, a cui Washington chiede sostegno per l’inasprimento della sanzioni nucleari all’Iran, i due leader non si incontreranno nello Studio Ovale dove solitamente Obama riceve i capi di Stato e di governo, come a rimarcare che il presidente americano riceve il Dalai Lama nelle vesti di leader religioso e non politico. …leggi gli altri articoli:
L’AMERICA SCOPRE DI TEMERE LA RINCORSA CINESE.
Dall’economia alle tecnologie dai trasporti all’energia Pechino guadagna sempre più terreno.
Egemonia asiatica, la Cina punta alla leadership totale. Di FEDERICO RAMPINI
L’incontro si svolgerà nella sale delle Mappe e non sarà aperto alla stampa. Secondo l’inviato speciale del Dalai Lama negli Usa, durante il colloquio il leader spirituale chiederà al suo interlocutore un aiuto a trovare una soluzione per la questione tibetana che sia favorevole sia al popolo del Tibet che a quello cinese. Il Dalai Lama incontrerà anche il segretario di Stato americano, Hillary Clinton. http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/201002articoli/52344girata.asp#
PECHINO CHIEDE AGLI USA DI ANNULLARE L’INCONTRO OBAMA – DALAI LAMA Pechino, 12 febbraio 2010. La Cina ha chiesto agli Stati Uniti di annullare «immediatamente» il programmato incontro alla Casa Bianca tra il presidente Barack Obama e il Dalai Lama, il leader spirituale dei tibetani. Lo ha reso noto l’agenzia ufficiale Nuova Cina citando il portavoce del ministero degli esteri Ma Zhaoxu, in quello che si preannuncia come un braccio di ferro diplomatico dalle ricadute imprevedibili. La dura presa di posizione fa seguito all’annuncio venuto giovedì dalla Casa Bianca, secondo il quale Obama incontrerà il Dalai Lama a Washington il 18 febbraio prossimo nonostante i precedenti ammonimenti venuti da Pechino.
IL COMUNICATO – «Esortiamo gli Stati Uniti a comprendere il carattere molto sensibile della questione tibetana, e rispettare scrupolosamente il loro impegno sull’appartenenza del Tibet alla Cina e la loro opposizione all’indipendenza tibetana», si legge in un comunicato del ministero degli Esteri cinese. Robert Gibbs, il portavoce del presidente, aveva precisato che l’incontro avverrà non nello Studio Ovale ma nella cosiddetta Sala delle Mappe, un luogo meno ufficiale e simbolico. Obama aveva già fatto sapere la settimana scorsa di voler ricevere il leader tibetano in esilio suscitando una prima reazione negativa da parte cinese. Pechino aveva infatti ammonito che un tale incontro potrebbe danneggiare gravemente i rapporti tra i due paesi
RUOLO DI LEADER SPIRITUALE – L’amministrazione Obama ha sempre sottolineato che il presidente vedrà il Dalai Lama nel suo ruolo di leader spirituale e che Washington non mette in discussione che il Tibet faccia parte del territorio cinese. L’ormai imminente colloquio sembra proprio destinato a acuire gli attriti esistenti tra Washington e Pechino su diverse questioni: la vendita di armi Usa a Taiwan, il rispetto dei diritti umani in Cina, il tasso di cambio dello Yuan, la censura di Internet. Senza contare che gli Stati Uniti, inoltre, stanno attualmente cercando di convincere la Cina ad appoggiare nuove sanzioni contro l’Iran per il suo controverso programma nucleare.
Robert Gibbs ieri ha detto che i rapporti tra i due paesi sono «maturi abbastanza» per lavorare insieme sui problemi di reciproco interesse accettando nello stesso tempo il fatto che non si può essere d’accordo su tutto. In questo clima teso si era anche registrato uno sviluppo positivo: la Cina ha infatti autorizzato la portaerei nucleare statunitense Nimitz a visitare la prossima settimana il porto di Hong Kong.
Pechino pretende l’annullamento dell’invito del Dalai Lama alla Casa Bianca, già fissato per giovedì prossimo: in caso contrario minaccia il veto alle sanzioni in Consiglio di Sicurezza. Ma il presidente Usa conferma tutto
A Washington lo chiamano grande ricatto. Obama l’ha già respinto confermando di voler incontrare il Dalai Lama ad ogni costo. Il ricatto cinese però c’è e rischia di rivelarsi assai pesante. Per intuirlo basta dare un’occhiata ai due appuntamenti cruciali di questo mese. Il 18 febbraio il presidente Obama riceverà il Dalai Lama alla Casa Bianca. Una decina di giorni dopo il Consiglio di Sicurezza dell’Onu esaminerà le nuove sanzioni contro l’Iran. Il grande gioco è tutto concentrato in quei cruciali giorni di fine febbraio che rischiano di portare Washington e Pechino verso una nuova Guerra Fredda. Pechino l’ha detto più volte, l’incontro con il Dalai Lama non s’ha da fare. E ieri i suoi portavoce hanno evocato un possibile «grave danno». La minaccia si nasconde in quelle due parole ed è strettamente legata al voto del Consiglio di Sicurezza. Grazie al suo cruciale diritto di veto Pechino può vanificare qualsiasi voto del Consiglio di Sicurezza e garantire immunità e protezione alla Repubblica Islamica. Se Obama stringerà la mano all’uomo simbolo dell’indipendenza del Tibet la Cina reagirà riducendo all’impotenza il mondo occidentale. E non lo farà neppure troppo a malincuore. In fondo quando annuncia un pugno in faccia all’Occidente la Guida Suprema Alì Khamenei sa di non dover fare affidamento sui propri muscoli, ma su quelli di un gigante cinese sempre più propenso a trasformarsi nel fratello maggiore di tutti gli Stati canaglia.
Quella propensione deriva dalla natura stessa della «potenza gialla». Una potenza costretta, per garantirsi il consenso interno senza concedere libertà e diritti civili, a promettere un inesauribile miglioramento economico. Per rispettare quel patto con i propri sudditi e alimentare la continua crescita economica il regime è costretto a reperire sempre nuove fonti energetiche garantendosene approvvigionamenti sicuri e illimitati. Gli unici ad assicurarli senza poter cambiare idea sono Paesi ai margini della legittimità internazionale come l’Iran, il Sudan, il Venezuela. Paesi pronti a garantire il ruolo di fornitori obbedienti e riconoscenti in cambio della protezione e delle armi del grande Fratello Cinese. Il caso Iran è esemplare. Pechino è oggi il primo partner economico della Repubblica Islamica grazie ad acquisti di petrolio e gas naturale per oltre 120 miliardi di dollari. In cambio Teheran può contare su forniture di macchinari, tecnologie e parti di ricambio. Lo scorso giugno la China Petroleum ha firmato un contratto da 5 miliardi di dollari per lo sviluppo degli immensi giacimenti di gas naturale della South Pars una società saldamente controllata dai pasdaran. Un mese dopo le aziende cinesi sono state invitate a partecipare a progetti per quasi 43 miliardi di dollari per la costruzione di 7 raffinerie di petrolio in Iran e di un oleodotto da 2.000 chilometri. La moneta di scambio più preziosa di Teheran sono però le armi e le protezioni sul fronte del nucleare. Quelle protezioni hanno finora evitato il varo di sanzioni veramente risolutive. Da questo punto di vista l’unica vera contromisura psicologica nelle mani degli Usa è Israele. La mancata approvazione di nuove sanzioni rischia d’innescare un raid preventivo dello Stato ebraico deciso ad impedire con tutti i mezzi la costruzione della «bomba» iraniana. L’immediata chiusura dello stretto di Hormuz potrebbe, però, costringere la Cina a confrontarsi con prezzi del greggio quasi triplicati. La ricetta Obama per estorcere alla Cina un sì al Consiglio di Sicurezza nonostante l’affronto dell’invito al Dalai Lama si basa proprio su questa prospettiva. La prossima visita di Hillary Clinton in Arabia Saudita e Qatar serve a discutere la fornitura alla Cina, in cambio di un sì alle sanzioni, di quantitativi di greggio a prezzi bloccati in grado di sopperire alle forniture iraniane. Se neppure quell’offerta basterà a evitare il niet alle sanzioni allora la nuova guerra fredda sarà ad un passo. Un passo già oggi auspicato da molti esponenti del Partito comunista e delle Forze armate cinesi decisi a punire la decisione americana di fornire a Taiwan armi per oltre 4 miliardi di dollari. «È venuto il tempo di punire gli Stati Uniti e di fargli male» ha dichiarato il generale della Marina Yang Yi. E il colonnello Meng Xianging, esperto di strategia dell’esercito cinese, ha spiegato le tappe della prossima escalation. «Per i prossimi dieci anni innalzeremo il livello qualitativo dei nostri armamenti fino a quando non saremo pronti al confronto diretto con gli Stati Uniti».
http://www.ilgiornale.it/esteri/obama_respinge_ricatto_cinese_sulliran/13-02-2010/articolo-id=421487-page=1-comments=1
L’AMERICA SCOPRE DI TEMERE LA RINCORSA CINESE.
Dall’economia alle tecnologie dai trasporti all’energia Pechino guadagna sempre più terreno. Egemonia asiatica, la Cina punta alla leadership totale
dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI
WASHINGTON – Quando oggi Barack Obama riceverà qui il Dalai Lama, nella Map Room della Casa Bianca, Washington aspetterà col fiato sospeso la nuova bordata di proteste da Pechino. Gli Stati Uniti si chiederanno quale prezzo la Repubblica Popolare potrebbe far pagare, per punire quell’omaggio al Tibet che considera un’interferenza nella propria sovranità nazionale. È un America nervosa perché si scopre vulnerabile, assediata dalla grande rivale asiatica, su fronti nuovi e insospettati: l’industria e la finanza, certo, ma ora anche la ricerca scientifica, la cultura, il “soft power” su cui si costruisce un’egemonia globale. Lo sconvolgimento dei rapporti di forze parte naturalmente dall’economia. Proprio alla vigilia dell’arrivo del Dalai Lama si è appreso che Pechino ha “liquidato” una parte dei suoi giganteschi investimenti in Buoni del Tesoro degli Stati Uniti.
Commentando la vendita record dei Treasury Bond, per 34 miliardi di dollari (ne restano comunque 755 miliardi nelle casse della banca centrale cinese) il Wall Street Journal si chiede con ansia se sia “un segnale di sfiducia verso l’America”. Che umiliazione: il Tesoro degli Stati Uniti trattato come fosse la Grecia, in balìa del giudizio dei cinesi. Più probabilmente il disinvestimento di Pechino è una mossa cautelativa. Il premier cinese Wen Jiabao da mesi denuncia il rischio che l’alto debito americano rilanci l’inflazione, e che Washington rimborsi i cinesi con carta straccia. Perciò Pechino diversifica i suoi investimenti. Anziché Bot, compra direttamente aziende americane. Il fondo sovrano del governo di Pechino (China Investment Corporation) ha divulgato la lista delle grandi imprese di cui è diventato azionista, per ora di minoranza. C’è il meglio del capitalismo americano: Apple, Citigroup, Coca Cola, Bank of America, Visa, Johnson & Johnson.
Un altro segnale enigmatico, alla vigilia dell’incontro tra Obama e il Dalai Lama, è il nulla osta del governo cinese per l’attracco a Hong Kong di una flotta di cinque navi militari americane, guidate dalla portaerei ammiraglia Uss Nimitz. Orville Schell, il direttore dell’Asia Society e l’esperto di Cina più ascoltato da Hillary Clinton, commenta così: “Pechino sta imparando a usare con l’America il bastone e la carota, tiene Washington sulla corda, alterna minacce e blandizie”. http://www.repubblica.it/esteri/2010/02/18/news/egemonia_asiatica-2340725/
Per una singolare coincidenza, proprio in questi giorni di alta tensione s’inaugura al China Institute di New York una grande mostra su Confucio. È il filosofo dell’ottavo secolo avanti Cristo di cui il regime cinese si “appropria” il pensiero rivisitandolo, per farne il teorico di un moderno paternalismo autoritario. La mostra su Confucio, così come tutto il China Institute, è un’iniziativa di Stato finanziata dalla Repubblica Popolare. “Confucius: his Life and Legacy” costa meno di una partecipazione azionaria in Apple, ma segnala il nuovo fronte della penetrazione cinese che si è aperto. L’offensiva culturale, sostenuta dalla potenza economica, sfida l’Occidente anche sul terreno delle idee. Il mandarino ha soppiantato lo spagnolo per la rapidità di diffusione come prima lingua straniera nelle scuole americane. Quando è uscita la notizia che il boom delle iscrizioni ai corsi di cinese alle elementari è sussidiato generosamente da Pechino (con borse di studio, formazione degli insegnanti, regali di materiale didattico e audiovisivo) sul New York Times sono apparse lettere di protesta dei genitori.
“È inaccettabile – ha scritto un padre allarmato – che la politica scolastica degli Stati Uniti venga decisa da un governo straniero”. E quale governo. Certo non suscitano lo stesso allarme i sussidi di Nicolas Sarkozy per lo studio del francese all’estero. La promozione della civiltà cinese non viene percepita dall’Occidente come un fenomeno puramente culturale. Minxin Pei, ricercatore della Fondazione Carnegie, ricorda che America e Cina sono divise da “insormontabili differenze in termini di valori, sistemi politici, visione dell’ordine internazionale, e interessi geopolitici”. Quasi per un crudele scherzo del destino, i finanziamenti della Repubblica Popolare per lo studio del mandarino dilagano nelle scuole americane proprio quando gli Stati Usa sull’orlo della bancarotta (dalla California alla Florida) devono tagliare gli stipendi agli insegnanti e ridurre gli orari delle lezioni. Martin Jacques, lo studioso britannico autore di un libro-shock che vuole aprire gli occhi all’America (“When China Rules the World”: quando la Cina dominerà il mondo) sostiene che questo è proprio uno degli effetti più dirompenti della crisi economica dell’Occidente: “La Cina è un modello di Stato che funziona. D’ora in avanti il dibattito sul ruolo dello Stato nelle società moderne non potrà più prescindere dall’esempio cinese”. Ian Buruma, un altro esperto di Estremo Oriente che abbiamo intervistato per questa inchiesta, sottolinea che “di fronte alla crisi delle liberaldemocrazie occidentali, il fascino della Cina avanza anche in aree del mondo vicine a noi”.
Non passa giorno senza che il raffronto con la Cina sia motivo di ansia e frustrazione per la superpotenza leader. La settimana scorsa Barack Obama ha finalmente firmato il via libera ai fondi federali per avviare il progetto dell’alta velocità in California e in Florida. Per il presidente doveva essere un fiore all’occhiello, una di quelle grandi opere infrastrutturali che aveva annunciato fin dal suo insediamento. Ma la Tav di Obama è stata così liquidata l’indomani da un giornale “amico”, il New York Times: “Se tutto va bene, il primo treno ad alta velocità comincerà il servizio nel 2014 fra Tampa e Orlando, una tratta di sole 84 miglia. Ma a Capodanno i viaggiatori cinesi hanno inaugurato il nuovo treno ad alta velocità, 664 miglia in tre ore, da Guangzhou a Wuhan. Entro il 2012 le linee ad alta velocità in funzione saranno 42, tutta la Cina sarà collegata”. Un raffronto amaro. Tanto più se viene fatto quando Washington è reduce da una “chiusura per neve” di una settimana. La capitale federale della nazione più ricca del pianeta, per penuria di spazzaneve, si è arresa alle intemperie e ha smesso di funzionare per sette giorni consecutivi. Nella gara tra due modelli di Stato, è l’America che si ritrova in serie B.
Forse nessuno più di Obama ne è consapevole. Per questo presidente il confronto con la Cina è diventato una costante, il tema che ricorre più spesso nei suoi discorsi. Obama cerca di spronare il suo paese, come John Kennedy fece per la gara con l’Unione sovietica nella conquista dello spazio dopo il sorpasso dello Sputnik. Usando la Cina come “benchmark”, come punto di riferimento, Obama spera di rovesciare le umiliazioni in positivo, di trasformarle in adrenalina, in altrettanti stimoli a riconquistare la leadership. Avverte che “la Cina ci sta dando dei punti anche sul terreno della Green Economy, produce più pannelli solari e pale eoliche di noi”. Gli esperti energetici disegnano un quadro inquietante. In un futuro non troppo lontano, l’America potrebbe scoprirsi due volte dipendente: dal petrolio arabo e dalle tecnologie verdi (pannelli fotovoltaici, batterie per auto elettriche) sempre più made in China.
Ma l’establishment e il sistema istituzionale americano sembrano intorpiditi, incapaci di reagire alle frustate del presidente. Dall’energia all’ambiente le riforme languono, bloccate da veti politici e resistenze lobbistiche. Di fronte all’autoritarismo cinese la democrazia americana arranca. Gli Stati Uniti perdono colpi nella ricerca scientifica, penalizzata dai tagli di bilancio, mentre gli investimenti cinesi in questo campo aumentano ogni anno a ritmi vertiginosi, di due cifre percentuali. Dalle università americane comincia un riflusso di talenti, numerosi cervelli asiatici – cinesi e anche indiani – tornano in patria attirati da nuove opportunità.
La gara tra America e Cina non lascia indifferenti gli europei. Non è un caso se l’avvertimento più severo agli americani oggi viene da Martin Jacques, un intellettuale inglese, cittadino di un altro impero decaduto che dovette cedere il suo primato. Noi occidentali, sostiene Jacques, ci siamo illusi che la Cina a furia di modernizzarsi sarebbe diventata sempre più simile a noi. La storia dimostra al contrario che la diversità cinese è profonda, radicata, irriducibile. La mancanza di democrazia non è un handicap nel breve termine: anche la maggior parte delle nazioni europee (e il Giappone) governarono la modernizzazione e lo sviluppo attraverso regimi autoritari. E l’egemonia cinese – espandendosi dal denaro alla politica, dalla tecnica alla cultura – può riproporre in forma moderna quella che fu l’antica relazione tra l’Impero Celeste e i suoi vicini: un “sistema tributario” di Stati vassalli, satelliti ossequiosi.