di Piero Verni
Ve li ricordate quelli che nel 2008, mentre tibetani, uiguri, dissidenti cinesi, praticanti della Falun Gong e molti altri critici del governo cinese protestavano in tutto il mondo contro l’infamia che i Giochi Olimpici si stavano per tenere in un Paese dove anche le più elementari forme di democrazia sono conculcate e qualsiasi voce critica è ridotta al silenzio livido delle prigioni, dei laogai quando non delle esecuzioni capitali, ci davano degli estremisti? …Ve li ricordate quelli che, quando facevamo il calzante paragone con la vergogna delle Olimpiadi di Berlino del 1936 ospitate dalla Germania nazista con Hitler nelle vesti di Grande Anfitrione, dicevano che l’esempio era improponibile? Insomma ve li ricordate quelli che con sicumera degna di miglior causa sostenevano, al contrario di quanto dicevamo noi, che la celebrazione di un così importante evento sportivo avrebbe facilitato (”sicuramente” facilitato) l’apertura della Cina al mondo e quindi anche la “democratizzazione” del regine? E, spostandoci un pochino più a ritroso nel tempo, ve li ricordate quelli che all’inizio degli anni ’80 erano pronti a giurare sulla certa ricaduta democratica dell’ingresso della Cina nell’economia di mercato? Per non parlare di quanti scommettevano che accogliere Pechino nel WTO avrebbe “costretto” i suoi dirigenti a venire a più miti consigli in fatto di libertà civili?
Non so voi, ma io li ricordo bene e oggi mi piacerebbe ascoltare da questi signori qualche parolina di autocritica. Oggi, quando il filmaker tibetano Dhondup Wangchen è stato condannato a 6 anni di carcere duro per aver girato il documentario “Leaving Fear Behind”. Oggi, quando le monache tibetane Nordon e Lhawang Dekyi, colpevoli di aver inscenato una protesta pacifica contro l’occupazione cinese, sono state condannate rispettivamente a due e tre anni di prigione. Oggi, dopo che il mite Liu Xiaobo si è appena visto cadere addosso una condanna a 11 anni di carcere per reati di opinione. Oggi, quando nell’ex Turkestan Orientale le condanne a morte nei confronti dei patrioti uiguri si contano a decine. Oggi, quando è ancora vivo il ricordo dei tre tibetani giustiziati a Lhasa il 20 ottobre scorso e delle decine di arresti eseguiti in questi mesi tra quanti ancora non accettano di essere normalizzati e cercano di non lasciar morire il ricordo della rivolta indipendentista della primavera 2008. Oggi, dopo che perfino un intellettuale di regime come Zhang Boshu è stato rimosso dal suo incarico presso l’Istituto di Filosofia della Accademia Cinese di Scienze Sociali, per aver rivolto larvate critiche alla politica del Partito Comunista. Oggi, quando continua il martirio degli aderenti alla Falun Dafa che a centinaia vengono ogni mese imprigionati, torturati e uccisi. Oggi, quando in ogni angolo dello sterminato territorio della Repubblica Popolare qualsiasi protesta, anche la più pacifica e innocua, viene repressa con violenza e senza misericordia alcuna.
Ma oggi, santo iddio, non dovrebbe essere chiaro a tutti che quel regime è irriformabile? Che non ha alcuna intenzione di cambiare in meglio? O che forse, addirittura, “non può” cambiare pena la sua dissoluzione? Come si fa a non vedere una verità così lampante che è sotto gli occhi di noi tutti? Come non comprendere che più i signori di Zhongnanhai si rafforzano, più divengono potenti, più incassano vittorie politiche ed economiche, più cresce la loro arroganza, la loro brutalità, la loro protervia, il loro delirio di onnipotenza.
E a quanti, come il buon vecchio Prodi (non a caso finito sul libro paga di Pechino in qualità di commentatore politico della CCTV, la televisione di stato cinese), ci vogliono convincere che questa Cina sia un’opportunità per il mondo, dovremmo essere in grado di rispondere che non è vero. Che il presente governo cinese è una minaccia per il mondo. Non solo per il miliardo e trecento milioni di persone che hanno la sfortuna di essere governati da Hu Jintao e compagni ma anche per tutti coloro che vivono fuori dai confini della RPC. Perché la prepotenza e l’arroganza di Pechino sono quelle che conosciamo bene. E vanno dalla pretesa di decidere i luoghi che il Dalai Lama può o non può visitare in India, alla libertà di movimento nel mondo del medesimo Dalai Lama, di Rebiya Kadeer e di ogni altro esponente del dissenso. Per non parlare di cosa stia significando per le economie internazionali la concorrenza dei manufatti e delle merci cinesi prodotte da una classe operaia priva della benché minima copertura sindacale o addirittura prodotte nei campi di lavoro forzato dove sopravvivono e lavorano come schiavi più di 20 milioni di detenuti.
Al contrario di quanto pensa il pacifico Obama, questa Cina “forte e prospera” è ben lungi dall’essere un vantaggio per tutti. Sì, perché sarebbe ora di finirla con questi giochetti di prestigio. Quando si dice Cina infatti, non si parla in astratto di un antico Paese dalla storia millenaria ma del regime che dal 1949 governa con pugno di ferro i suoi cittadini (che nelle attuali condizioni sarebbe meglio definire “sudditi”). Si parla della dittatura del Partito Comunista. Si parla della ”economia di mercato socialista”, che altro non è che un capitalismo selvaggio all’interno di un sistema autoritario a partito unico. Vale a dire lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo privo anche dei più elementari contrappesi sindacali e democratici. E “questa” Cina dovrebbe essere un’opportunità e un vantaggio per tutti? Ma per favore!
L’opportunità e il vantaggio per tutti, popolo cinese e resto del mondo, sarebbe che si verificasse un cambiamento positivo nella struttura di potere a Pechino. Che il regime, se possibile in maniera graduale, mutasse. Che la dittatura del PCC cedesse il posto a forme di autogoverno calibrate sulla peculiare realtà cinese. Ma dovrebbe essere ben chiaro a tutte le persone ragionevoli, che un simile cambiamento positivo non cadrà dal cielo come dono degli Dei. E tanto meno verrà regalato dalla attuale nomenklatura. Il mutamento potrà essere solo il risultato della lotta e dei sacrifici delle forze che all’interno della società cinese premono e si mobilitano, a prezzo di rischi inenarrabili, perché questo cambiamento abbia luogo. Tanto per essere chiari sto parlando della resistenza tibetana, di quella uigura, di quella mongola, dell’embrione clandestino di un sindacato operaio libero, delle rivolte contadine che, sia pure in forma non organizzata e a macchia di leopardo, in questi ultimi anni sono esplose in numerose parti della Cina. E ancora. Parlo del dissenso studentesco e intellettuale che, a oltre 20 anni dal massacro della Tien An Men, non è stato del tutto domato. Dei “Cyber-Activist” i quali, proprio in questi giorni, hanno espresso la loro solidarietà all’opposizione iraniana scrivendo, “Oggi a Tehran domani a Pechino”. Dei milioni di aderenti al movimento spirituale Falun Dafa che continuano con eroismo ed ostinazione a non piegarsi alla brutale repressione che li investe. Di tutti gli aderenti alle numerose fedi religiose (buddhisti, taoisti, cristiani) che rifiutano di omologarsi consegnando la loro ricerca interiore ai funzionari delle “Chiese patriottiche” gestite dal regime.
La speranza di una trasformazione virtuosa della Cina, della nascita di una nazione la cui forza e prosperità possa essere veramente di aiuto al mondo, di un governo finalmente aperto ad un dialogo effettivo e sincero con le diverse componenti del suo mosaico etnico e sociale… questa speranza, dicevo, risiede solo ed unicamente nei soggetti fin qui elencati. Lasciamo perdere gli stati esteri, le pavide burocrazie internazionali, l’ONU, i parlamenti. Lo abbiamo visto quanto siano disposti a rischiare per difendere i “diritti umani”, i “principi democratici”, i “valori della persona”. Abbiamo visto il patetico spettacolo di Obama usato e preso per il collo in Cina da chi gli ricordava di avere nelle proprie mani buona parte del debito pubblico statunitense. Abbiamo visto la tremebonda Europa cosa ha fatto di concreto per difendere quanti, all’interno della Cina, vengono arrestati, torturati, uccisi, perché lottano in nome di quei princìpi di cui i nostri primi ministri e presidenti si beano -a parole- in continuazione. E il Parlamento Europeo? Il nobile, sensibile, solidale, Parlamento Europeo? Una risoluzione ieri, una dichiarazione oggi, una indignazione domani e tutto finisce nel nulla. Poi, business as usual, e via a fare la corsa a chi fa più affari con Pechino. Un esempio fra i tanti. Nel luglio 2000, a larga maggioranza, il Parlamento Europeo approvava una roboante risoluzione (B5-0608, 0610, 0617, 0621, 0641/2000) in cui auspicava una immediata apertura di colloqui tra Dalai Lama e Pechino per negoziare, “un nuovo statuto per per il Tibet che garantisca una piena autonomia dei tibetani in tutti i settori della vita politica, economica, sociale e culturale, con le sole eccezioni della politica di difesa e della politica estera”e si spingeva fino al punto di invitare, “… i governi degli Stati membri ad esaminare seriamente la possibilità di riconoscere il governo tibetano in esilio come legittimo rappresentante del popolo tibetano qualora, entro un termine di tre anni, le autorità di Pechino e il governo tibetano in esilio non abbiano raggiunto un accordo relativo a un nuovo statuto per il Tibet, mediante i negoziati organizzati sotto l’egida del Segretario generale delle Nazioni Unite”. Infine incaricava, “… la sua Presidente di trasmettere la presente risoluzione al Consiglio, alla Commissione, ai governi e ai parlamenti degli Stati membri, ai governi e ai parlamenti dei paesi candidati, al Presidente e al primo ministro della Repubblica popolare cinese, al Dalai Lama nonché al governo e al parlamento tibetani in esilio”. Mica male, no? Peccato che, dal 2000 ad ora, di anni nei siano trascorsi 10 e nessuno si è mai sognato di ricordarsi di questa risoluzione. Carta straccia, per non dire di peggio.
In conclusione. La Cina è una dittatura aggressiva, brutale e con ambizioni imperiali. All’interno di un pianeta globalizzato la volontà di potenza del presente regime cinese, che coniuga la struttura autoritaria del sistema comunista con il dinamismo di un impianto economico selvaggiamente capitalista, costituisce una minaccia non solo per i suoi vicini asiatici ma per tutti i paesi con i quali Pechino si trova a competere. Con buona pace delle anime candide, verrà il momento in cui ogni nazione sarà obbligata a confrontarsi con questa spiacevole realtà. E, prima che a qualche dottor Stranamore del 21° secolo venga in mente di “risolvere” il problema all’irachena, sarebbe bene comprendere che l’unica soluzione è aiutare quanti già adesso cercano di cambiare lo stato di cose presente all’interno del moderno “Impero di Mezzo”. Non potendo contare sui governi “democratici”, questa responsabilità spetta dunque a coloro, singoli individui e organizzazioni, che sono pienamente consapevoli della realtà dei fatti. Oggi più che mai è giusto dire a tibetani, uiguri, operai, contadini, dissidenti cinesi, che, “la vostra lotta è la nostra lotta”. E, soprattutto, che dobbiamo, vogliamo, essere in grado di aiutarvi concretamente. Fare conoscere la vostra battaglia, il vostro eroismo, la vostra determinazione. Di fornirvi, dall’esterno, i mezzi necessari per rendere la vostra lotta sempre più efficace e vincente. Che non siete soli.
Nonostante sia stato un criminale politico, Mao aveva ragione quando scriveva, “osare lottare, osare vincere” e “ribellarsi è giusto”.