iI XIV Dalai Lama Tenzin Gyatso, premio Nobel per la pace 1989
Il 10 marzo corre il sessantesimo anniversario della rivolta anti-cinese che condusse Tenzin Gyatso al suo esilio in India. Oggi il 14mo Dalai Lama da Mcleod Ganj, a Dharamsala, continua a denunciare il forte clima di repressione in Tibet. Disposto a negoziare l’autonomia del Tibet con le autorità cinesi, si definisce “aperto a soluzioni politiche condivise”. Pechino, intanto, temendo le ripercussioni che potrebbe avere il sessantennio, ha chiuso i confini tibetani ai turisti stranieri fino al primo aprile. La regione è già chiusa ai diplomatici e ai giornalisti stranieri. La rivolta e l’esilio La sommossa del 1959 scoppiò per un evento apparentemente banale: i cinesi invitarono Tenzin Gyatso a uno spettacolo teatrale nel quartiere generale dell’esercito, invitandolo ad andare senza scorta e senza nessuna cerimonia pubblica per la processione del Dalai Lama dal palazzo al campo, in contrasto con la tradizione. In città si diffuse l’idea che ci fosse un piano per rapire l’autorità religiosa.
La gente della capitale scese in strada per fare da scudo al Dalai Lama e migliaia di persone circondarono la sua residenza dando inizio alla rivolta, stroncata nel sangue di decine di migliaia di civili. Una settimana dopo, il 17 marzo, il primo proiettile raggiunse il palazzo del Dalai Lama, che decise di prendere la strada dell’esilio. Le parole del Dalai Lama “Storicamente il Tibet non ha mai fatto parte della Cina e molti testi storici cinesi lo riconoscono. Dalla dinastia Tang, fino a quella Manchu esistevano tre imperi distinti: quello cinese, quello mongolo e quello tibetano. La storia è la storia. Ma nonostante ciò, dal 1974 abbiamo rinunciato ad ogni richiesta di indipendenza dalla Cina e siamo disponibili a negoziare lo status di un Tibet autonomo all’interno della Repubblica Popolare Cinese, a condizione che la Cina riconosca ai tibetani i loro diritti fondamentali: professare la propria religione, tenere in vita la lingua e la cultura tibetana, preservare il proprio stile di vita”. Sono le parole del Dalai Lama che, intervistato dalla Stampa, ha detto anche che nonostante un miglioramento delle relazioni “in diverse aree della Regione Autonoma Tibetana abbiamo notizie di una forte repressione e di un controllo crescente nei confronti della popolazione. Anche lo studio della lingua tibetana in alcune scuole è vietato o vi sono crescenti restrizioni”. Il mal di montagna In occasione dell’anniversario della rivolta di Lhasa la Cina ha imposto restrizioni di accesso in Tibet agli stranieri chiamando in causa il mal di montagna. Lo ha spiegato il segretario del Partito Comunista del Tibet, Wu Yingjie, la massima autorità politica della regione autonoma, durante i lavori dell’Assemblea Nazionale del Popolo, il Parlamento cinese: “Dopo avere considerato le speciali condizioni geografiche e climatiche, abbiamo adottato una serie di regolamentazioni per gli stranieri che entrano in Tibet in base alla legge”, ha detto Wu, citando l’altitudine media dell’altipiano del Tibet, che si aggira attorno ai 4500 metri. “Molti stranieri ci sono riconoscenti per il nostro interesse”, ha continuato Wu, aggiungendo che tutti i visitatori sono bene accetti se si recano in Tibet tramite i canali ufficiali. Proprio le restrizioni all’accesso al Tibet sono state anche uno dei recenti capitoli di frizione tra Cina e Stati Uniti, dopo la firma del presidente Usa, Donald Trump, a dicembre scorso, del Reciprocal Access to Tibet Act, che mira a promuovere l’accesso al Tibet per diplomatici, funzionari, giornalisti, e cittadini Usa, e a imporre divieti alla concessione dei visti ai funzionari cinesi che negano loro l’ingresso nella regione autonoma cinese. Pechino ha reagito alla firma dichiarando la propria “ferma opposizione” alla legge Usa. Il Dalai Lama su Time ricorda il giorno dell’esilio E’ dedicata al Dalai Lama la prossima copertina di Time, che ricorda il sessantesimo anniversario del suo esilio dal Tibet con un’intervista esclusiva. “Mi considero mezzo buddista e mezzo scienziato”, confessa, a 83 anni compiuti, la guida carismatica di oltre 500 milioni di persone nel mondo e il bersaglio di una politica sempre più aggressiva da parte del partito comunista cinese. Tutto iniziò con Mao Tse Tung: il 17 marzo 1959 il Tibet fu annesso alla Cina, e il Dalai Lama (capo spirituale ma anche politico del piccolo Stato ai piedi dell’Himalaya) dovette rifugiarsi in India. “Circolava da tempo la voce che volessero uccidere il Dalai Lama”, ricorda nell’intervista. “Di fronte al palazzo di Potala c’era una divisione di artiglieria cinese. Prima le armi erano tutte coperte, poi il quindicesimo e il sedicesimo giorno del mese vennero tutte scoperte. Capimmo che la cosa si stava facendo seria. La mattina del diciassettesimo giorno, decisi di scappare”. I due giorni di viaggio verso l’India furono spaventosi, con i soldati cinesi che cercarono ovunque il Dalai Lama. Una volta trovato il rifugio, egli sperò in un appoggio dell’Occidente alla causa tibetana, ma le notizie non furono buone. “Il primo ministro indiano, Pandit Nehru, mi disse, ‘l’America non farà la guerra alla Cina per liberare il Tibet, prima o poi ti toccherà parlare con il governo cinese”. Decenni di colloqui non hanno portato a niente. Dal 2009, più di 150 tibetani si sono dati fuoco per protesta. Molti hanno criticato il Dalai per non aver condannato queste azioni. “E’ una situazione difficile – spiega – se criticassi chi si immola, darei un grande dolore alle loro famiglie. Il loro sacrificio, comunque, non produce risultati e non crea problemi”. Pechino continua a lavorare per isolare il Dalai Lama nelle relazioni internazionali, minacciando ripercussioni economiche sui Paesi che gli dimostrano vicinanza. La stessa India, che lo ospita, non manderà nessun rappresentante del governo alle celebrazioni ufficiali del sessantesimo dell’esilio. http://www.rainews.it/dl/rainews/media/accadde-oggi-Il-Tibet-a-60-anni-dalla-rivolta-che-porto-a-esilio-dalai-lama-e1c66ba9-4c03-4e5a-9573-8fb785f69214.html#foto-1