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Metti un monaco a Rebibbia: “Così insegno la meditazione ai detenuti”
Dicembre 9th, 2018 by admin

Aiutare chi è in prigione a ritrovare la calma. Come se il penitenziario fosse un ashram. È la scommessa del maestro zen Dario Doshin Girolami.

di Giovanni Gagliardi 08 dicembre 2018

“Il carcere può diventare un periodo di ritiro spirituale”. Quello che potrebbe sembrare un paradosso è un netto cambio di prospettiva che fra le mura del penitenziario romano di Rebibbia è riuscito a realizzare Dario Doshin Girolami, monaco e maestro buddista, fondatore del centro Zen l’Arco di Roma

che da dieci anni, insieme ad alcuni collaboratori, insegna ai detenuti l’antica tecnica della meditazione. “Ma attenzione – tiene subito a precisare – non è una fuga dalla realtà, anzi attraverso la meditazione si ha la possibilità di incontrare pienamente se stessi e affrontare i propri errori, le ansie e le paure guardandole da una angolazione diversa e sotto una nuova luce”. E la riuscita è stata così buona che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ha proposto al maestro di tenere corsi anche per il personale di Lazio, Abruzzo e Molise.
A Dario Girolami, classe 1967, l’idea è venuta mentre era al San Francisco Zen Center, dove ha iniziato a praticare nel 1986. “Ero interessato all’esperienza dei detenuti Usa che sono riusciti a trasformare la loro detenzione in un periodo di ritiro spirituale”. Cosa che ha certo contribuito a un calo della recidiva criminale del 20 per cento.
Ma portare questo programma qui in Italia non è stato facile: ” A lungo le istituzioni mi hanno detto no, perché lo presentavo come un corso di buddismo. Poi dieci anni fa la svolta: è bastato chiamarlo mindfulness e “magicamente” si è aperta la porta del carcere”. Ma questo era solo l’inizio, perché poi bisognava affrontare i diretti interessati, ovvero i detenuti. “Al primo corso dice Girolami sorridendo dietro i suoi occhiali rotondi – ci hanno dato serial killer, pluriomicidi, ergastolani. In totale erano 12. Ed è andato bene. Poi abbiamo allargato la possibilità di fare il corso a tutti i detenuti”.

E gli effetti benefici non si sono fatti attendere: “Vedi persone con tatuaggi e cicatrici che sembrano pirati. In realtà sono fragilissimi e a causa degli attacchi di panico e di ansia assumono farmaci. Ma alcuni hanno smesso addirittura di prenderli”.
Il monaco spiega che grazie alla meditazione è possibile non solo eliminare i sintomi ma andare alla radice e affrontare ciò che li causa grazie ad una progressiva presa di coscienza che avviene attraverso la meditazione: “Quando i detenuti mettono a fuoco il loro vissuto, c’è una fortissima auto- condanna. A quel punto diventa importante mostrare loro che hanno un valore che non è stato visto, riconosciuto e coltivato”. Un altro aspetto importante che alimenta il meccanismo di ansia-depressione è quello che Girolami chiama “la mente che va fuori” , cioè il pensiero ossessivo dei detenuti per la famiglia, i figli, gli affari lasciati fuori dal carcere: “La meditazione li aiuta a dimorare nel momento presente tranquillizzandoli e mostrando che la soluzione è affrontare le difficoltà (e la detenzione) un istante alla volta”.
Il passo successivo è la cosiddetta “alfabetizzazione emotiva”: “Bisogna aiutare queste persone a riconoscere e a dare un nome alle loro emozioni: rabbia, odio, paura. E poi a gestirle, perché altrimenti la mente tende ad andare verso emozioni negative. A quel punto occorre insegnare loro a riconoscere amore, benevolenza, compassione, cose di cui sono assolutamente capaci se aiutati e guidati”.
E il cambiamento nelle persone che hanno seguito il corso c’è stato. Come conclude Girolami: “Medici, psicologi, la direzione dell’Istituto hanno visto e certificato che persone aggressive e incapaci di gestire la loro rabbia si sono tranquillizzate e hanno iniziato ad avere una diversa relazione con gli altri, favorendo anche la vita collettiva”.https://www.repubblica.it/salute/2018/12/08/news/metti_un_monaco_a_rebibbia-213788223/


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