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Dure condanne di Pechino a monaci e lama tibetani
Gennaio 9th, 2010 by admin

Il 3 gennaio 2010, il console generale cinese in India Wang Donghua ha definito il Dalai Lama “un monaco politico, che presto mostrerà anche a Delhi la sua vera faccia. Per questo, deve essere cacciato dal Paese”.

Il 3 gennaio 2010, il console generale cinese in India Wang Donghua ha definito il Dalai Lama “un monaco politico, che presto mostrerà anche a Delhi la sua vera faccia. Per questo, deve essere cacciato dal Paese”.

Una manifestazione a Delhi chiede il rilascio di Tenzin Delek, del Panchen Lama e di tutti i leader religiosi e politici del Tibet. Pechino, in risposta, manda i soldati nella contea di Nyagchuka e condanna un abate buddista a otto anni di galera. Il Dalai Lama, per la Cina, è un “monaco politico”. Un folto contingente dell’Esercito di liberazione popolare cinese sta piantonando in questi giorni Thang Karma, nella contea tibetana di Nyagchuka, per intimidire la popolazione locale che chiede a gran voce il rilascio del lama Tenzin Delek (condannato senza prove a 20 anni di carcere per la sua fedeltà al Dalai Lama), del Panchen Lama e di tutti i dissidenti politici arrestati. Nell’ultimo anno, Pechino ha messo in galera circa 60 leader (politici e religiosi) tibetani. Il governo centrale cinese ha pure condannato l’abate tibetano Phurbu Tsering Rinpoche a 8 anni e sei mesi di reclusione per “appropriazione indebita di suolo pubblico e detenzione illegale di munizioni”. In realtà, la condanna (emessa il 23 dicembre) è collegata ai moti anti-cinesi scoppiati in Tibet nell’estate del 2008. Il leader buddista, molto rispettato dalla popolazione, è stato arrestato il 18 maggio 2008: alcuni giorni prima, circa 80 monache avevano protestato contro la “ri-educazione patriottica” (una pratica di lavaggio del cervello) imposta dalla Cina nei luoghi di culto tibetani. Rinpoche, 53 anni, avrebbe confessato: i suoi avvocati dicono però che la confessione gli è stata estorta con la tortura. Il lama ha già passato circa 15 anni in galera.  

Per protestare contro tutti questi arresti, il Congresso dei giovani tibetani (Organizzazione non governativa che rappresenta i tibetani in esilio) ha organizzato il 31 dicembre una marcia di protesta contro la repressione cinese della contea di Nyagchuka. Sventolando bandiere tibetane, i manifestanti si sono riuniti davanti agli uffici delle Nazioni Unite; qui hanno consegnato un memorandum sulla situazione della regione da girare al primo ministro indiano, Manmohan Singh, e al presidente cinese Hu Jintao.

Nel corso della protesta, i partecipanti hanno condannato la repressione violenta di un raduno pacifico che si è svolto il 5 dicembre nella contea tibetana: qui, centinaia di persone si erano riunite per chiedere la liberazione dei monaci. In risposta, l’esercito ha arrestato 60 manifestanti.

Tsultrim Dorjee, Segretario esecutivo del Congresso, spiega: “La Cina deve immediatamente interrompere l’uso della forza contro i dimostranti pacifici, e deve rilasciare tutti coloro che sono stati arrestati. Pechino deve liberare immediatamente Tulku Tenzin Delek, senza condizioni, e permettere al nostro popolo l’esercizio della libertà di espressione, movimento e assemblea. Infine, ai tibetani feriti deve essere assicurato l’accesso all’assistenza medica e umanitaria”.

In ogni caso, la posizione cinese non sembra voler cambiare. Il 3 gennaio, il console generale cinese in India Wang Donghua ha definito il Dalai Lama “un monaco politico, che presto mostrerà anche a Delhi la sua vera faccia. Per questo, deve essere cacciato dal Paese”. Samdhong Rinpoche, primo ministro tibetano in esilio, dice ad AsiaNews: “Questi commenti non meritano neanche una risposta”. (di Nirmala Carvalho, AsiaNews)


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