di Raimondo Bultrini. Dharamsala. La città dei bambini è immersa nel verde di una montagna che domina a duemila metri la valle del distretto di Kangra, nel nord dell’India.
A quota seimila, cime innevate avamposto dell’Himalaya sovrastano il piazzale dove al mattino i più piccoli si raccolgono ad ascoltare la quotidiana parabola in forma di fiaba. Un maestro tibetano infagottato nella sua giacca a vento racconta la storia di due gatti che avevano deciso di costruire insieme una casa, ma – a forza di litigare – non riuscivano mai ad ultimarla. Finché un giorno capirono che, se volevano ripararsi dal freddo e dalla pioggia, sarebbe stato meglio filare d’ amore e d’ accordo. “Ti-ti-ti-ti-ti” cantano i bambini al termine della storia, alzandosi in piedi con le mani congiunte per il rito del mantra di purificazione, lo sguardo fisso verso l’ orizzonte segnato dalla catena montuosa bella e terribile che li separa dai propri genitori.
SUL TETTO DEL MONDO SOGNANDO MAMMA E PAPA’ A vederli così, ordinati e tranquilli, raggiungere in fila le rispettive classi di scuola, non sembrano nemmeno gli stessi che pochi minuti prima, sbucando da ogni angolo del villaggio dove vivono centinaia di bimbi e ragazzi tibetani da pochi mesi a 18 anni, avevano riempito il pianoro di cemento correndo e saltando, ruzzoloni e carponi, guidando abilmente piccole ruote di gomma con lunghi fili di ferro, lanciandosi curiose sfere fatte di molle intrecciate. Sia i più piccoli che i più grandi indossano divise blu e celesti e sembrano molto eleganti nel loro contegno di cittadini-modello della città chiamata Tcv, burocratica sigla che sta per Villaggio dei bambini tibetani. Ma basta guardare i loro piedi per rendersi conto che le scarpe non bastano per tutti: qualcuno indossa i sandali, nonostante le temperature già invernali e gli scrosci di pioggia e grandine che arrivano senza preavviso in questo clima montanaro a ridosso delle vette himalayane. Vengono soprattutto dal Tibet cinese, dove ormai la lingua della loro gente non viene quasi più insegnata nelle scuole. Molti sono orfani, oppure figli di tibetani poverissimi che vivono negli insediamenti assegnati agli esuli dal governo indiano, distanti spesso migliaia di chilometri.
Quando fu fondato nel 1960 dal Dalai Lama, al Tcv c’ erano 51 bambini sopravvissuti alla micidiale fuga attraverso la catena himalayana dalla Lhasa occupata dai cinesi. Oggi, con il boom internazionale delle adozioni a distanza, sono più di 2500, divisi in home costruite nel più povero stile tibetano, edifici squadrati e funzionali abbelliti soltanto dai colori degli infissi in legno alle finestre, dalle stoffe ricamate col ‘nodo d’ infinito amore’ , geometrica e sacra rappresentazione degli eterni intrecci di destini tra tutti gli esseri. Ma a far sembrare tanti castelli pavesati a festa questi semplici building di cemento sono le file di bandiere colorate dei mantra affidati al vento e mescolate alle centinaia e centinaia di camicette, pantaloncini, calze, maglioni appesi in bell’ ordine ad asciugare e sventolare nell’ aria pungente del mattino. Li hanno lavati e appesi gli stessi bambini del villaggio, che imparano presto a diventare autosufficienti. “Ogni nuova esperienza è apprendimento”, c’ è scritto in uno dei tanti cartelli di latta affissi qua e là lungo le strade del villaggio, condensato estremo della filosofia di un popolo costretto a riporre in questa ospitale terra straniera le speranze di sopravvivenza della propria millenaria cultura. In ogni cortile delle home dove i bambini vivono come fratelli a gruppi di 40, 50 sotto l’ occhio vigile di una sola amala, una madre di vocazione, c’ è sempre qualcuno che, rispettando precisi turni, spazza i pavimenti, fa il bucato, trasporta nei pentoloni d’ alluminio il cibo dalla grande cucina comune. I più grandi lavano i piccoli con bagnarole d’ acqua fredda, giocano e scherzano rivestendoli con abiti non sempre adatti a climi rigidi come questi: non è raro sentirli tossire con rumori secchi e rasposi. Polmoniti e tubercolosi sono tra le malattie più frequenti, e non ci sono mai abbastanza antibiotici. Nonostante tutto, il Tcv sembra un mondo alieno in quest’ angolo di mondo dove case di fango e povertà estrema disegnano panorami di desolazione e miseria per altre migliaia di piccoli fuoricasta indiani che non hanno la fortuna di commuovere fondazioni filantropiche occidentali. Uno degli adulti che nel Villaggio lavora a tempo pieno al servizio dei bambini, il più delle volte soltanto in cambio di vitto e alloggio, ci accompagna nella prima classe dell’ asilo dove i piccoli cittadini iniziano a 3 anni, con l’ occidentalissimo metodo Montessori, la loro carriera di scolari garantita dal governo tibetano in esilio fino ai 16 anni.
Tenzin ha le orecchie a sventola e l’ aria triste, Chodrup i capelli rasati e due zigomi tondi e colorati come piccole mele rosse. “Questi due sono orfani”, dice il nostro accompagnatore. La madre di Tenzin è morta dopo il parto, Chodrup non ha più nemmeno il padre: “Sono morti entrambi l’ anno scorso a Lhasa, durante una manifestazione anticinese”, spiega la maestra. Nella città dei bambini la differenza tra gli orfani e gli altri non è così profonda. Per tutti loro padre e madre, troppo distanti sebbene vivi e vegeti, perdono col tempo una forma definita trasmutando nell’ immaginazione di questi bambini in sentimenti e ricordi sbiaditi, ravvivati di tanto in tanto dall’ inchiostro di rare lettere sgrammaticate, fotografie sfocate che arrivano, nella stagione buona, per mano di amici e conoscenti attraverso mille complicati passaggi di cavalli, jeep, pullman, aeroplani. Molti, dopo l’ arrivo al Villaggio, non rivedono mai più i genitori naturali. In compenso gran parte dei bimbi trova uomini e donne di un’ altra razza, perfetti sconosciuti che improvvisamente irrompono nelle loro esistenze a garantire un futuro di studi altrimenti negato. Mediamente bastano poche decine di dollari per sostenere – con l’ idea semplice e geniale dell’ adozione a distanza – un intero anno di studi del proprio figlio adottivo. L’ amministrazione degli adulti questi benefattori li chiama sponsor, ma per i piccoli cittadini ospiti del Tcv sono amala e apa, mamma e papà, anche se solo raramente li hanno conosciuti di persona. Tashi Tsering, cinque anni, è uno dei fortunati. La sua sponsor-mamma è un’ italiana che s’ è sobbarcata il viaggio, 12 ore di aereo e 12 di pullman da Delhi, per venire a conoscere lui e l’ altro figlio adottivo, un ragazzo di 15 anni che alloggia nel secondo Tcv, costruito più a valle. Carla Caponi, 44 anni, madre di altri tre figli naturali, vuole vedere con i propri occhi dove finiscono i suoi soldi e come vivono e crescono questi ragazzini che le scrivono, in un inglese elementare e preciso, lettere molto riconoscenti ma ancora teneramente formali. “Ogni essere potrebbe essere stato tuo padre o tua madre in una vita passata”, dice un insegnamento dei maestri tibetani. E un istinto di predestinazione accompagna il viaggio di questi genitori per vocazione che all’ inizio dell’ autunno arrivano in gran numero al Villaggio per festeggiare il trentasettesimo anniversario del Tcv. Una frenesia collettiva pervade i preparativi della grande kermesse celebrata ogni anno alla presenza del Dalai Lama, padre ideale della massa di piccoli orfani e rifugiati. I più grandicelli da settimane si allenano, sotto la guida di uno dei pochi maestri viventi, per la rappresentazione della Lhamo opera, tramandata oralmente per secoli. Ognuno delle decine di attori, cantanti, ballerini e comparse studia con pignoleria la sua parte di una storia complicatissima che vede contrapposte forze del bene e del male, entità celesti e terrene in un continuo capovolgimento di fronti com’ è nella tradizione più tipica della letteratura religiosa tibetana. La storia che va in scena quest’ anno narra la lotta mortale di Trowa Sangmo, reincarnata per diffondere l’ insegnamento del Buddha in una terra di malvagi, contro la strega che vuole uccidere i suoi due figli, a loro volta emanazioni degli dèi compassionevoli Avalokitesvara e Tara. I bambini che recitano nel ruolo delle divinità si preparano nel teatro del villaggio cantando con voci acute e angeliche le loro parti. Danzano al ritmo dei tamburi e dei lunghi corni come ballerini consumati: non a caso sono stati prescelti tra mille ragazzini della loro età, e il giorno della recita, nonostante il violento temporale, la folla li segue in estasi, come alla presenza delle divinità stesse. Quando – dopo ore di rappresentazione – nel regno di Sangmo torna l’ armonia, danze e ritmi hanno finito per trasportare tutti, pubblico e artisti, nella dimensione del mito e del sogno. Due universi paralleli sembrano convivere così tra realtà e immaginazione. Che è la caratteristica di questa cultura e ciò che rende incantevole una città di bambini ai confini del mondo.
Raimondo Bultrini http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1997/12/17/la-citta-dei-bambini-adottati.html