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Gu Chu Sum: Essere un prigioniero politico in Tibet
Agosto 19th, 2017 by admin

Gu’, ‘chu’ e ‘sum’ sono i numeri 9, 10 e 3. Abbiamo preso questi numeri per una ragione molto importante. I numeri nove e dieci rappresentano rispettivamente settembre e ottobre 1987, mentre tre rappresenta marzo 1988, quando il Tibet ha assistito a proteste e disordini pro-indipendenza nelle tre province di Amdo, Kham e Tsang.

Questa organizzazione è stata costituita nel 1991 a Dharamsala da un gruppo di ex prigionieri politici. Quando furono liberati, molti prigionieri politici decisero di andare in esilio, raggiungere l’India e lì stabilirsi. All’epoca, non c’erano organizzazioni tali da poter riunire tutti questi ex prigionieri politici. Decisero quindi di creare un’associazione che li aiutasse a parlare e lavorare per il movimento per la libertà.

Anche nelle nostre comunità ci sono giovani che non sanno molto dell’organizzazione. Così, quando questi prigionieri politici tibetani arrivarono in India, avevano la determinazione di continuare il loro lavoro per il movimento per la libertà. Erano stati nelle prigioni cinesi in Tibet per il loro lavoro politico, per aver difeso i diritti e la libertà dei tibetani e per aver espresso il loro dissenso contro le violazioni dei diritti umani e le atrocità commesse dal regime cinese contro i tibetani. Inoltre, diversi tibetani dovevano affrontare l’ira delle autorità cinesi, solo per aver espresso un loro desiderio – chiedere al loro leader spirituale, Sua Santità il Dalai Lama, di ritornare in Tibet.

È più facile spiegare il movimento per la libertà tibetana alle persone di paesi che hanno attraversato un processo simile. Poiché sosteniamo questo movimento per la libertà, posso dire che è impossibile farlo senza avere amore per il proprio paese – che viene preso alla leggera in alcune nazioni. Infatti, si tende a darlo per scontato.

Tutto quello che si desidera è una democrazia – una vera democrazia. Eppure, prima di questo c’è la sensazione o il desiderio di ritornare nel nostro Paese – specialmente per qualcuno come me che è nato qui, in esilio, e pertanto non ha mai potuto vedere la propria nazione. Eppure, la amo tanto quanto la amava il mio defunto padre!
Crescendo, ho sentito parlare della vita di mio padre in prigione, dove è rimasto per 20 anni, 6 mesi e 11 giorni. Mi ricordo di cosa raccontava della sua prigionia – ed era in qualche modo simile a quello che gli altri prigionieri politici mi dicevano.

Nel 2003 ho perso mio padre, quando avevo 17 anni. Forse ha pensato che non ero abbastanza grande – o piuttosto, abbastanza saggia – per capire le emozioni o il dolore che aveva vissuto. Quindi, condividerò alcuni episodi che ha vissuto per aiutarvi a farvi un’idea di cosa vuol dire essere un prigioniero politico.

È stato incarcerato nel 1959 e rilasciato nel 1979 insieme a un gruppo di altri prigionieri politici. Nel 1959 l’esercito cinese invase il Tibet e l’occupò. Questa è dunque una prima ragione per cui ci opponiamo alla Cina – perché hanno occupato illegalmente il nostro paese, e ora, sostengono sia sempre stato loro.

Mio padre ha anche scelto di non essere zittito dal governo cinese. Non ha accettato il regime cinese quale “nuovo proprietario” del Tibet. Per questo è stato considerato un dissidente. È stato etichettato come “separatista”, una parola che le autorità cinesi usano per descrivere un “controrivoluzionario”. Dopotutto, poiché fanno parte del regime comunista, usano questi termini ed esercitano un controllo autoritario sui loro assoggettati.

Come mio padre, c’erano molte altre persone che avevano espresso il loro dissenso ed erano state imprigionate per periodi altrettanto lunghi. In quei giorni (prima del 1979) i prigionieri politici facevano la fame. Molti non ricevevano nulla da mangiare per giorni. La polizia di solito costringeva a marciare per le strade di Lhasa i prigionieri politici con pesanti catene. L’intento era di mostrarli alla gente comune di Lhasa e avvisarli: “Vedete, questi sono prigionieri politici. Osservate le conseguenze per essersi opposti al regime. Questo accadrà anche a voi se farete quello che hanno fatto loro”.

Durante una di queste ‘marce forzate di avvertimento’, gli abitanti di Lhasa, sebbene avessero paura della polizia cinese, offrirono dello tsampa (n.d.t. una sorta di semolino) ai prigionieri politici. Mio padre disse che quello fu uno dei cibi migliori che avesse mangiato in quegli anni di prigionia.

Poiché avevo 17 anni e andavo a scuola, mio ​​padre non mi disse che aveva sofferto la fame ed era stato picchiato dalla polizia cinese. Più tardi, sono venuta a sapere che erano anche costretti ad andare nei campi di lavoro – me lo dissero amici di mio padre e membri dell’organizzazione. Così, una delle decisioni più importanti che presi, fu di aderire a quest’organizzazione.

A tal proposito, l’associazione Movimento Gu-Chu-Sum non è solo un’organizzazione di prigionieri politici. Nella nostra organizzazione abbiamo oltre a ex prigionieri politici, ex attivisti politici dal Tibet (ora in esilio) e familiari di prigionieri politici (come me).

Ogni tre anni abbiamo una riunione generale – ma non prima di essere sicuri che ciascuno dei nostri membri abbia ricevuto l’invito a partecipare alla riunione. Abbiamo anche elezioni in cui possiamo scegliere i membri del consiglio – così sono stata scelta io. Sono la prima presidentessa di seconda generazione, non prigioniera politica. Personalmente, vedo la mia elezione come un messaggio dei prigionieri politici: “Abbiamo fatto quello che possiamo. Ti diamo fiducia poiché tieni a questo movimento tanto quanto noi – e pertanto, dovresti assumertene la responsabilità”.

Ci sono cinque importanti ONG in esilio che si concentrano sull’attività politica e sulla promozione del movimento per la libertà tibetana. Sia chiaro che nonostante tutte le nostre azioni in esilio e in tutto il mondo, non siamo noi i principali agenti o eroi.

I tibetani che vivono in Tibet sono gli eroi. Lo dico perché sono loro che affrontano la minaccia delle autorità cinesi e vivono sotto il loro regime autoritario che non crede nella democrazia.

Oltre al fatto che i tibetani in Tibet devono obbedire alle autorità cinesi o affrontare atrocità, le immagini di WikiLeaks mostrano perché scelgo di chiamarli eroi.

Permettetemi di condividere con voi la testimonianza di una suora, che ora è madre di quattro bambini e si è stabilita in Australia con la famiglia. Faceva parte di un gruppo di sei suore – aveva 15 anni, mentre le altre tra i 16 e i 18. Una volta, stavano protestando, urlando “Tibet Libero”, una manifestazione che durò in tutto 10 minuti, prima che intervenisse la polizia cinese, le prelevasse e le picchiasse senza pietà.

Mi disse che nonostante ci fossero molte persone in strada, nessuno osò intervenire per fermare la polizia. Tutto quello che avevano potuto fare era gridare dal terrore e pregare la polizia di fermare la brutalità. Nessuno voleva essere arrestato e finire in una prigione cinese.

Condivido questa storia principalmente per arrivare a fare una domanda importante- cosa succede a un prigioniero politico e in questo caso a una ragazza minorenne?

Ci sono leggi internazionali per i detenuti politici e per i procedimenti penali. Ma all’interno del Tibet, la Cina si fa beffa di tutte queste leggi.

A quanto pare, in Tibet non si rispettano le leggi che richiedono la presenza di personale di polizia femminile in caso di arresto di donne. Queste sei suore furono portate in campi di detenzione, dove furono picchiate e prese a calci senza pietà dai poliziotti cinesi. Mi ha parlato del dolore intollerabile che ha provato.

Mi ha anche parlato dell’utilizzo di manganelli elettrici (su minorenne), e che fu interrogata separatamente dalle suore più grandi, e che dopo mezz’ora svenne. Tuttavia, una volta ripresa coscienza, la polizia ricominciò nuovamente.

La polizia continuava a chiederle chi l’aveva mandata e provocata a ribellarsi contro la Cina. Rispondeva che sapeva che il Tibet era una nazione indipendente – e quindi aveva scelto di opporsi. Le dicevano: “Ma tu sei nata dopo che siamo entrati in Tibet. Come lo sapevi?” Rispondeva: “Lo so perché l’ho sentito dai miei genitori e dai nonni”. Non volevano accettare il fatto che una giovane ragazza avesse scelto di esprimere il suo dissenso contro di loro – e continuavano a picchiarla fino a farla svenire di nuovo.

Il secondo giorno, le suore vennero denudate. Gli spruzzarono acqua bollente addosso – il dolore ancora evidente nei suoi occhi mentre me lo raccontava.

Era insopportabile per lei e per le altre suore. All’inizio si vergognavano di essere costrette a stare nude davanti a quegli uomini che le fissavano. Ma questa vergogna fu presto dimenticata, non appena due secchi di acqua bollente furono lanciati loro addosso facendole urlare dal dolore. La polizia continuò l’interrogatorio con la stessa modalità del giorno precedente, ma le suore non cambiavano versione della loro storia. La polizia continuava a torturarle nel tentativo di far dire loro cosa volevano sentire – senza alcun successo.

Di sera, furono nuovamente spogliate – e questa volta, obbligate a sdraiarsi su blocchi di ghiaccio. Mi disse che poteva letteralmente vedere e sentire la pelle strapparsi, ogni volta che si spostava sui blocchi di ghiaccio. Per quanto tutto ciò possa sembrare drammatico o irreale, queste sono le tattiche che le autorità cinesi utilizzano senza pietà anche sugli adolescenti.

Poi mi ha raccontato il terzo giorno. Ancora una volta, furono spogliate portate fuori. Non pensava più al proprio corpo ma al dolore che aveva provato nei giorni precedenti Inoltre, era in pieno trauma psicologico ed era veramente preoccupata per gli orrori in serbo per lei quel giorno.

Questa volta, notò che erano stati portati i cani della polizia, incatenati. Le suore erano terrorizzate. I poliziotti mormorarono qualcosa tra loro. Si ricorda i cani correre verso di loro, e morderle le cosce e strappare via pelle e carne. Mi ha mostrato anche le cicatrici – e ogni volta che la vede, le viene in mente quel giorno.

Trattandosi di cani addestrati, tornarono poi dai loro padroni. Dopo sette minuti, su comando degli addestratori, i cani ripresero a mordere le suore. La terza volta però, i cani si fermarono a metà strada, nonostante gli ordini. I cani erano letteralmente dispiaciuti per le monache – e nonostante piangessero, le suore erano sinceramente stupite.

Tuttavia, questo fu di ben poco sollievo, poiché l’interrogatorio continuò per una settimana. Alla fine della settimana, le suore erano completamente esangui e non potevano più parlare né muoversi. Furono costrette a firmare delle lettere – senza nemmeno sapere che cosa ci fosse scritto sopra. Forse, in quei fogli professavano la loro colpevolezza e dicevano che non avrebbero più intrapreso simili attività in futuro.

Un’altra monaca, in esilio in Europa, è ora sposata con un altro prigioniero politico. Tuttavia, anche se lo vuole, non può avere un figlio a causa delle atrocità che ha subito in prigione. Non sarà mai libera dal trauma psicologico e sarà sempre perseguitata dai ricordi della prigionia.

Le due monache si trovano ora in paesi liberi, godono della democrazia – e forse del diritto di voto. Ma, sono davvero ‘libere’?

Traduzione di Andrea Sinnove, LRF Italia Onlus


Fonte: Youth ki awaaz, 15 agosto 2017

English article: Youth ki awaaz, Gu Chu Sum – Being A Political Prisoner In Tibet

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