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I nipoti di Gengis Khan tradiscono il Dalai Lama
Dicembre 23rd, 2016 by admin

2016-11-23-mongolia-g04-pb230019Ulan Bator cede alla Cina: non riceverà più i leader tibetani. Uno strappo storico. Mongolia. I nipoti di Gengis Khan tradiscono il Dalai Lama

Raimondo Bultrini

Ormai è prassi nota a ogni Paese che concede un visto al Dalai Lama. Sia alla vigilia che dopo l’evento, la Cina diffonde le sue proteste con relativa minaccia di rompere i rapporti diplomatici e commerciali. Succede da 57 anni dopo l’esilio, e sono rimasti al mondo pochi Paesi incuranti delle conseguenze di accogliere l’odiato “separatista”, tra i quali – fino a ieri – la buddhista Mongolia, ex provincia sovietica indipendente con capitale Ulan Bator, separata dall’attuale Xinjiang cinese che ha la capitale a Hohhot. Per paura del potente vicino, in questi giorni anche questo popolo autonomo e devoto ha annunciato al Dalai Lama – per bocca di un ministro – che da ora in poi non sarà più bene accolto com’era sempre stato. Il ministro degli Esteri Tsend Munkh-Orgil in un’intervista ha addirittura espresso «rammarico» per aver permesso l’ultima visita del XIV leader tibetano e ha promesso a Pechino che per «l’intera durata di questo governo» non sarà autorizzato «a visitare la Mongolia neanche per scopi religiosi». L’atto per molti versi sacrilego interrompe secoli di legami spirituali profondi tra mongoli e i lama tibetani loro maestri, con radici ininterrotte dal tempo del nostro Medioevo e del triangolo di poteri tra Tibet, Mongolia e impero cinese. Furono i mongoli a creare il nome Dalai Lama che vuol dire “Oceano di saggezza” e a conquistare col sangue vasti territori donati ai leader di questo lignaggio di sacerdoti reincarnati. Gli eredi della dinastia Yuan di Gengis Khan, convertiti al buddhismo come Altan e Kublai (il mecenate di Marco Polo), dominarono o minacciarono abbastanza a lungo il celeste impero da rendere di conseguenza potenti anche i loro maestri spirituali, soprattutto i Dalai Lama della scuola Gelupa che entrarono in pompa magna alle Corti degli imperatori Han. Il Quinto Dalai giunse a Pechino a metà del XVII secolo con un seguito di 3000 dignitari per essere ricevuto dal regnante Manchu che chiedeva non solo la sua benedizione, ma un intervento deciso per tenere a bada le temibili tribù mongole alle frontiere dove la Grande muraglia non bastava a contenerli. In occasione dell’incontro, la Corte dovette escogitare uno stratagemma per far apparire il trono dell’imperatore leggermente più in alto di quello del Dalai, non troppo da offenderlo. Il principe Manchu voleva addirittura recarsi alle porte di Pechino per ricevere il corteo dell’ospite giunto dal Tibet dopo mesi di viaggio su una palanchina, ma i consiglieri gli imposero per decoro di attenderlo a Palazzo. Un gesto ingrato verso l’erede dei predicatori che convinsero i mongoli anche a interrompere l’abitudine di lanciare da alte rupi i nemici cinesi catturati.
Da allora lo spirito del buddhismo tibetano è rimasto vivo in Mongolia senza mai estinguersi nemmeno durante le purghe dei comunisti sovietici contro la religione, e ha ripreso vigore anche grazie a legami storici e di sangue. Il Dalai Lama numero tre morì durante un pellegrinaggio nella Mongolia interna oggi cinese, e il numero quattro fu un pronipote mongolo di Altan Khan.
Oggi che il lignaggio dei Dalai è giunto al numero 14, la decisione di questi giorni di accontentare i cinesi mettendo al bando il Dalai Lama potrebbe segnare una nuova svolta non solo economica e geopolitica nei rapporti tra Pechino e Ulan Bator, ma anche religiosa. Di certo il Buddhismo tibetano e il suo leader subiscono un colpo storico senza precedenti proprio dagli ex alleati tradizionalmente più fedeli, nonché loro discepoli di molte vite. Un cattivo segno per la futura incarnazione dei Dalai, già ipotecata da Pechino con un lama di suo gradimento.
https://www.facebook.com/raimondobultrini/posts/1304578812939854:0

Le sanzioni economiche imposte dalla Cina, maggiore partner commerciale della Mongolia fanno cambiare idea al Paese.

Ulaan Bataar (AsiaNews) –Tsend Munkh-Orgil, il ministro mongolo degli Esteri ha espresso rammarico a nome del Paese per aver ospitato il leader spirituale del buddismo tibetano. In un’intervista del giornale nazionale Unuudur, il ministro ha inoltre comunicato che “sotto l’attuale governo, il Dalai Lama non sarà più invitato in Mongolia neppure per motivi religiosi”.

Il mese scorso, la Mongolia ha deciso di ospitare il Dalai Lama nonostante le severe ammonizioni ricevute dal governo cinese, che vede il leader spirituale come un nemico politico e un separatista. Dopo la visita del capo del buddismo tibetano, il governo cinese ha rimandato gli incontri bilaterali previsti con il vice ministro mongolo ed ha applicato pesanti sanzioni economiche al Paese. Tali sanzioni hanno rappresentato un duro colpo per l’economia mongola, influenzata in modo determinante dalla Cina, primo partner commerciale del Paese. A metà dicembre, il governo indiano si è offerto di stanziare un miliardo di dollari Usa per affrontare le sanzioni politiche imposte dalla Cina.

Secondo i dati di Trading Economics, la Cina è il destinatario dell’89% delle esportazioni minerarie mongole – in particolare rame, carbone e oro – hanno un volume di 4,93 miliardi di dollari Usa.

La Mongolia ha già ospitato il Dalai Lama nel 2006 e in risposta la Cina ha cancellato – per un breve periodo – tutti i voli previsti fra Pechino e Ulaan Bataar. Il governo cinese serba rancore per ogni Paese che ospita il monaco vincitore del premio Nobel per la Pace e spera e quasi sempre attua sanzioni economiche contro di loro. Durante la sua visita in Mongolia, il Dalai Lama ha comunicato l’intenzione di visitare il neo eletto presidente degli Stati Uniti Donald J. Trump.

Asia News, Dicembre 22, 2016

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