Condurre la gioia e il dolore sulla via verso l’illuminazione
di Dodrupchen Jigme Tenpe Nyima
Omaggio
Rendo omaggio al nobile Avalokiteśvara elogiandone le virtù:
“Colui che gioisce sempre per la gioia degli altri
e che soffre per il dispiacere degli altri con estremo dolore;
colui che ha realizzato la virtù della Grande Compassione;
egli rinuncia, abbandonando sia la propria gioia sia il proprio dolore.”[1]
Comunicazione d’intento
Illustrerò brevemente come condurre sulla retta via la gioia e il dolore. L’insegnamento più inestimabile al mondo e strumento essenziale per la vita spirituale. Esso si divide in due parti:
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Il modo in cui accettare la sofferenza come cammino verso l’illuminazione.
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Il modo in cui accettare la felicità come cammino verso l’illuminazione. Ogni punto si divide ulteriormente in due parti, in base al punto di vista della realtà relativa e della realtà assoluta.
Usare la sofferenza come cammino verso la via dell’illuminazione.
i. Attraverso la Realtà Relativa
Da qualsiasi fonte sorga la minaccia – dagli esseri senzienti, dalle cose animate o da quelle inanimate – se la percezione del dolore diventa un’abitudine mentale, l’angoscia, anche per le piccole cose, tende a crescere smisuratamente. È per natura propria, infatti, che qualsiasi percezione – sia essa di gioia o di dolore – accresce allo svilupparsi di quell’attitudine della mente all’abitudine.
In questo modo, la forza dell’abitudine evolve gradualmente fino a rendere fittizia l’opportunità di essere felici; poiché, a causa del ricordo, qualsiasi cosa affiori alla mente, diventa angoscia.
Considerando inoltre colpevoli solo le condizioni esterne, senza dar peso alle proprie abitudini mentali, le fiamme della sofferenza, dovute alle azioni negative come l’odio o l’ira, bruceranno senza mai estinguersi. Questo è ciò che è detto “ogni percezione apparirà sotto forma di nemico”.
È necessario capire, con precisione, che il motivo per cui gli esseri senzienti di quest’epoca degenerata sono tormentati dal dolore è la debolezza della capacità di discernimento che li caratterizza.
Il modo per evitare che gli ostacoli – come ad esempio i nemici, la malattia, influenze negative etc. – ci affliggano, non è pensare di poter allontanare definitivamente cose come la malattia, bensì fare in modo che non sorgano affatto in quanto ostacoli sul cammino verso l’illuminazione.
Perché questo si realizzi bisogna, innanzitutto, rifiutare che la mente non possa desiderare in alcun modo il proprio dolore. In secondo luogo bisogna generare quell’attitudine mentale alla gioia al manifestarsi del dolore.
Rifiutare l’attitudine mentale che considera il dolore inaccettabile
Si pensi cosa provocano la depressione, l’ansia e l’ira considerando sempre la sofferenza svantaggiosa, qualcosa che va assolutamente evitato. Adesso pensa a due cose: quanto sia inutile e quanta sofferenza possa sorgere da questo.
Con forte determinazione si pensi: “da questo momento in poi, qualsiasi sofferenza sopravvenga, io non proverò più ansia”. Pensando così ripetutamente si svilupperanno coraggio e forza.
Innanzitutto vediamo quanto sia inutile considerare il dolore inaccettabile. Se c’é un rimedio alla sofferenza, non serve essere infelici. Se il rimedio non c’é, anche essere in uno stato d’infelicità non porta alcun beneficio. Vediamo adesso lo svantaggio di considerare il dolore inaccettabile.
Se non si prova tormento di fronte alla sofferenza sarà semplice sopportare il dolore. Così, con la sola forza della mente, anche la più grande delle pene sarà percepita leggera come un filo di cotone.
Se, invece, si é dominati dall’angoscia sarà difficile sostenere anche un minimo dispiacere, poiché accrescerà una terribile sensazione d’infelicità. Per esempio, se si pensa alla bellezza di una ragazza é impossibile distaccarsi dal desiderio mosso dalla passione, allo stesso modo non é possibile generare la pazienza rimanendo concentrati sui vari tipi di tormenti causati dalla sofferenza.[2]
Com’é detto ne Le istruzioni per sigillare le porte delle facoltà sensoriali: “La mente non dovrebbe essere legata alle caratteristiche della sofferenza; al contrario, é necessario generare l’abitudine ad abbandonarsi alla vera natura della mente e rimanere nella propria dimensione”.
Generare l’attitudine mentale che gioisce al sorgere della sofferenza.
Considerando la sofferenza come supporto per la via, si mediti sulla pratica della gioia.
Inoltre quando si abbatte la sofferenza – nonostante si abbia conoscenza di qualche tipo di pratica spirituale combinata con le capacità della propria mente – non importa quante volte si possa pensare: “Bene, ho quasi appreso il giusto metodo sarò capace di reggermi sulla sofferenza, per ottenere qualche beneficio” perché questo metodo non avrà successo. L’obiettivo da raggiungere sarà lontano come il cielo dalla terra.
Usa, invece, la sofferenza per le pratiche seguenti:
a. usare la sofferenza per coltivare la Rinuncia
Si usi, qualche volta, la propria sofferenza per coltivare la pratica della rinuncia.
Si pensi: “Poiché sono destinato a vagare nel samsara, essendo inerme, il sorgere della sofferenza non è ingiusto, ma piuttosto la caratteristica della ciclicità della vita.” Si sviluppi un profondo senso di repulsione, pensando: “Se è difficile sopportare la sofferenza – anche per un breve lasso di tempo – in uno dei regni di rinascita superiore, si immagini la sofferenza in uno dei regni inferiori. Alas, il samsara è un oceano di sofferenza senza fine!” Poi si rivolga la mente verso la liberazione e l’illuminazione.
b. usare la sofferenza per coltivare la pratica del Rifugio
“Qualsiasi cosa succeda, mi appoggerò all’unico rifugio infallibile, i tre gioielli; la guida preziosa – il Buddha; il cammino prezioso – il Dharma e i preziosi compagni lungo la via – il Samgha. Solo affidandomi ai tre gioielli potrò superare le pene, come la paura della continua rinascita. In qualsiasi circostanza, non rinuncerò mai ad essi.” Convinti di questo, si coltivi la pratica del rifugio.
c. usare la sofferenza per prevalere sull’arroganza
In base a ciò che è stato detto prima, non avendo controllo di se stessi (affinché si vagherà nel samsara), si tende ad avvalersi di un metodo che non è altro che la dipendenza da una sofferenza costante; quindi ci si liberi dall’arroganza.
Si allontani “il nemico che distrugge qualsiasi cosa sia retta e buona” : l’ego e l’arroganza. Si deve abbandonare la cattiva abitudine di disprezzare gli altri e considerarli inferiori.
d. usare la sofferenza per purificare i peccati.[3]
Si ricordi e si realizzi: “Tutta questa sofferenza che cresce incommensurabilmente, così come molti altri tipi di dolore, è il risultato delle azioni non virtuose”. Si rifletta, poi, attentamente su questi quattro punti: – la certezza del karma – la teoria di causa ed effetto è infallibile; – la tendenza del karma a crescere progressivamente;[4] – l’impossibilità di ottenere qualcosa se non è stato fatto; – l’effetto delle azioni compiute che non andrà perduto. Si pensi: “ Abbandonerò la negatività,[5] che è la causa della sofferenza , poiché io non desidero soffrire.”
Con il supporto dei “quattro punti”, che descrivono le caratteristiche del karma, ci si sforzi a riconoscere e purificare tutte le azioni negative accumulate in passato, al fine di prevenire le sofferenze che verranno in futuro.
e. usare la sofferenza per scoprire la gioia nelle Virtù.
Si pensi: “l’antidoto alla sofferenza sono le virtù. Essendo queste la causa del gioire, è necessario agire virtuosamente per essere felici.” Pensando intensamente così, in ogni angolo, ci si soffermi sulle implicazioni. Poi si faccia tutto il possibile per accrescere le proprie azioni positive e virtuose.
f. usare la sofferenza per coltivare la Compassione
Si pensi: “tutti gli esseri senzienti, come me, soffrono. Questa sofferenza causa l’emergere di uno stato di afflizione sempre più intenso.” Pratica pensando: “Come sarebbe bello se tutti potessero essere liberi dal dolore!”.
Concentrandosi sui problemi che affliggono gli altri, si comprende come mettere in pratica amore e gentilezza.
g. usare la sofferenza per apprezzare gli altri più di se stessi.
Si pratichi pensando: “La ragione per cui non si è liberi dalla sofferenza è che, da sempre, l’uomo pensa solo a se stesso. Adesso, al fine di accumulare azioni virtuose, si pensi con più fervore agli altri, di modo che si possa sviluppare la pratica di considerare gli altri più importanti di se stessi, poiché questa è fonte di felicità e bontà.
Trovandosi faccia a faccia con le difficoltà è difficile praticare. Quando ci si trova in situazioni sfavorevoli basterebbe avere familiarità con le pratiche virtuose elencate in precedenza: è molto importante praticare attraverso un’esperienza chiara.
Non è sufficiente pensare che sofferenza e difficoltà possano da sole essere un supporto alla pratica virtuosa. È davvero necessario che si generi – con perseveranza – un entusiasmo forte e solido, per poi consolidarlo affinché sia stabile e continuo.
In questo modo, seguendo ognuna delle pratiche elencate sopra, si pensi: “La sofferenza è stata di straordinario supporto, mi aiuterà a raggiungere molti meravigliosi stati di gioia e beatitudine, esperiti nei Regni Superiori, liberi dal samsara e tanto difficili da ottenere. Da questo momento in poi, qualsiasi tipo di sofferenza sorga, avrà per me lo stesso effetto. Sebbene la sofferenza possa essere difficile susciterà sempre la più grande gioia e felicità, dolce e amara, così come il variegato laddu fatto di melassa misto a pepe e cardamomo.
Si segua questa linea di pensiero profondamente e si mediti sullo stato di felicità della mente che esso suscita. In questo modo la natura travolgente e predominante delle attività mentali legate alla gioia rende la sofferenza, prodotta dalle facoltà sensoriali, impercettibile e incapace di disturbare la nostra mente. Questo è il punto in cui l’autocontrollo può allontanare la malattia e si ha il merito di soggiogare le difficoltà causate da nemici, demoni, etc.
Come è stato spiegato prima, “rifiutare che la mente non desideri il dolore” è la base per “condurre sulla via la sofferenza.” Questo perché non sarebbe possibile condurre sulla via dell’illuminazione la sofferenza, provando ansia e generando rabbia profonda e agitazione.
Più si esercita la pratica per “condurre sulla via la sofferenza”, è più si sviluppano e si potenziano le nostre pratiche precedenti. Una volta che si esperisce come la sofferenza causa lo sbocciare della pratica spirituale e delle virtù, infatti, si svilupperà anche il coraggio e la buona motivazione.
Si dice che iniziando a praticare gradualmente su piccole sofferenze, passo dopo passo e con facile progresso, si potranno sopportare anche sofferenze e difficoltà maggiori. È importante affrontare la sofferenza in questo modo, diversamente sarebbe difficile esperire qualcosa che va oltre il proprio livello e le proprie capacità mentali. Nel periodo di intervallo fra le pratiche meditative, si dovrebbero invocare i tre gioielli supremi, affinché si possa “condurre sulla via dell’illuminazione la sofferenza”. Una volta che la mente si è rafforzata un poco, si facciano le offerte ai Gioielli e agli spiriti, implorando: “Perché io possa praticare l’esercizio delle virtù, mettetemi in condizioni sfavorevoli”. Perché questo si realizzi, bisogna mantenere un grado di massimo agio, allegria e felicità.
All’inizio della pratica meditativa bisogna, prima di tutto, tenere lontane le distrazioni mondane. Fra queste si cominci dalle influenze negative degli amici che dicono “Come fai a sopportare sofferenza, umiliazione?”.
Inoltre, i dispiaceri causati da avversari, parenti, ricchezze potrebbero contaminare e attaccare la conoscenza, facendo perdere il controllo e generando rabbia. Oltre a queste, una serie di oggetti e situazioni spiacevoli possono distrarre la mente. Nei luoghi solitari, invece – in cui queste distrazioni non ci sono – la mente è molto chiara; lì è più facile concentrarsi.
I praticanti del Chöd, quando fanno la pratica del “controllo della sofferenza”, invece di praticare concentrandosi sulle attività mondane dell’uomo, praticano – principalmente – nei cimiteri e nei luoghi desolati, sulle apparizioni di dei e demoni.[6]
In breve, non solo ogni sofferenza causata da condizioni negative non recherà danno alla mente, ma proprio esse potranno condurre alle attività mentali della gioia. Al fine di evitare definitivamente l’apparire di stati non graditi: malessere personale, nemici e demoni esterni, linguaggio improprio, etc.; bisognerebbe imparare a considerare questi piacevoli alla mente.
Perché questo si realizzi bisogna evitare di valutare le condizioni negative come dannose e considerarle – con tutti gli sforzi – virtuose. D’altra parte qualsiasi cosa appare, piacevole o non, dipende dal modo in cui è percepito dalla mente.
Per esempio, colui che si sofferma a lungo sulla futilità delle preoccupazioni ordinarie e mondane, non farà altro che stufarsi dell’accrescere dei possedimenti o dell’acclamazione da parte del seguito; colui che vede invece le perdizioni mondane significative e benefiche, cercherà e pregherà affinché accrescano il proprio potere e la propria influenza.
Coltivando questa pratica: – la mente e il carattere diventeranno più pacifici e gentili; – si diventerà più aperti (e più flessibili); – si diventerà più socievoli; – si diventerà coraggiosi e sicuri; – si potrà praticare il Dharma senza ostacoli; – le cattive circostanze saranno percepite di vantaggio e di buon auspicio; – la mente sarà sempre in uno stato di gioia, nella felicità che ha origine dalla pace interiore.
In questa epoca di oscurità è necessario considerare le pratiche, descritte in precedenza, come le armi per ottenere la via verso l’illuminazione. Quando non si è afflitti dalla sofferenza, causata dall’angoscia, non solo le altre sofferenze saranno sconfitte, come un soldato che perde le armi, ma anche l’apparire di forze, quali la malattia etc, scompariranno naturalmente.
I saggi del passato hanno detto:
“Non provando dispiacere o inquietudine verso nessuna cosa, la mente non sarà disturbata;
quando la mente non è ostacolata, l’energia interna (Tib.lung) non è ostacolata;
così anche gli altri elementi del corpo non saranno ostacolati;
poiché la mente non sarà distolta, andrà avanti nella pratica, come la ruota della gioia costante gira..”
Essi hanno anche detto:
“Come per gli uccelli è facile provocare dolore sul dorso di asini o cavalli, così è facile per gli spiriti malvagi provocare sofferenza a coloro che per natura vivono nella paura. Sarà difficile causare dolore, invece, a coloro che sono forti e stabili.”
Le persone colte, avendo realizzato che sia la felicità che la sofferenza dipendono dalla mente, cercano la felicità proprio nella mente. Dal momento che le cause della felicità risiedono nella mente stessa, non dipenderanno da cause esterne. Qualsiasi afflizione, che provenga dagli uomini o da cose materiali, non può danneggiarci. Anche nel periodo che segue la loro estinzione bisogna mantenere questa attitudine cosicché esse possano essere libere e sotto controllo.
Questo è il modo in cui i Bodhisattva ottengono la stabilità meditativa (il samadhi) chiamata ‘travolgere con la gioia tutti i fenomeni’.
Gli stolti, invece, cercano la causa della felicità negli oggetti esterni, continuando a sperare invano. Qualsiasi felicità essi scoprano, piccola o grande che sia, si trasformerà sempre, come dice un antico proverbio: “Tu non hai controllo, è tutto nelle mani degli altri, come se un ciuffo di capelli si impigliasse nella corteccia di un albero”.
Non si arriverà mai a raggiungere il fine, le cose non avvengono quando si vuole; si danno dei falsi giudizi e si ha un fallimento dopo l’altro, I nemici non avranno difficoltà a provocare dolore e anche la più piccola falsa accusa ti separerà dalla felicità. Ad esempio: nonostante un corvo dia da mangiare a un cuculo appena nato, quest’ultimo non diventerà mai un corvo, ma resterà comunque un cuculo. Allo stesso modo, se tutti gli sforzi saranno disorientati e basati su qualcosa di irrealizzabile non porteranno nient’altro che stanchezza per gli dei, afflizione per i demoni e sofferenza per se stessi.
Questo vantaggioso consiglio è la sintesi di cento punti cruciali in uno solo. Ci sono molti altri insegnamenti, infatti, che accettano la sofferenza e le difficoltà per praticare il retto sentiero e che prevedono l’uso della malattia e dell’afflizione come mezzi per ottenere l’illuminazione come trasmesso ad esempio dalla tradizione Zhi Ce. Qui ho esposto un sommario di facile comprensione sul modo in cui accettare la sofferenza come supporto della via, basandomi sugli insegnamenti del nobile Shantideva e dei suoi discepoli.
ii. Attraverso la Realtà Assoluta
Grazie al metodo logico del “rifiutare secondo i quattro estremi[7] il sorgere di qualsiasi fenomeno”, la mente tende verso la vacuità, la naturale condizione delle cose, in uno stato di pace suprema e lì dimora. In questo stato le cattive circostanze – che causano sofferenza – ma anche solo il nome di queste, saranno infondate. Anche quando si viene fuori da quello stato contemplativo, non sarà più la stessa cosa come quando nella mente appariva la sofferenza e si tendeva a reagire con paura e senza autocontrollo. Adesso la sofferenza si può soggiogare vedendola irreale nient’altro che un concetto. Non andrò nei dettagli qui.
Accettare la felicità come cammino verso l’illuminazione nella realtà relativa
i. Attraverso la Realtà Relativa
Se le condizioni o gli oggetti della gioia – nel momento in cui si manifestano – ci influenzano, allora diventeremo arroganti, orgogliosi, vanitosi e pigri e ci ostacoleranno nel nostro sentiero spirituale.
È difficile non essere influenzati dalla felicità, così Padampa Sangya disse:
“Noi esseri umani possiamo sopportare grandi sofferenze, ma solo piccole dosi di felicità”.
Per questa ragione bisogna aprire gli occhi e vedere che la felicità e i fenomeni che la causano sono impermanenti e per natura propria sofferenza.[8]
Si provi ad accrescere un profondo senso di distacco e si fermi la mente a indulgere nella solita apatia e negligenza. Si pensi: “Tutti i piaceri mondani e le ricchezze sono insignificanti e sono causa di tutti i tipi di problemi e difficoltà , anche se – in alcuni casi – possono avere delle buone qualità”. Il Buddha disse:
“È difficile ottenere l’illuminazione per quegli uomini la cui liberazione è stata contaminata dalla sofferenza; ma per coloro che stanno in uno stato di gioia è molto più semplice.” “È un grande merito per me poter praticare il Dharma in questo stato di felicità. Con questa gioia mi affido in ogni caso al Dharma, così che da questo sorgano la gioia e la felicità continuamente. Dovrei allora praticare Dharma e felicità insieme, l’uno come supporto dell’altro. Diversamente, il risultato finale sarebbe lo stesso di quello iniziale, come far bollire dell’acqua in una ciotola di legno.”
Come è detto nel Ratnāvalī di Nagarjuna: “Al fine di raggiungere l’essenza, bisognerebbe unire qualsiasi stato di gioia e felicità al Dharma.”[9]
Se si è felici, ma non lo si riconosce, la felicità non diventerà mai lo strumento per ottenere il Dharma e rimarrà solo una speranza, nell’attesa di una felicità individuale, sprecando le proprie vite dietro infiniti progetti. L’antidoto è applicare le pratiche in qualsiasi momento adatto a possedere il nettare della soddisfazione.
Ci sono altri metodi per condurre la felicità sulla via verso l’illuminazione: specialmente quelli basati sul “ricordare l’amorevole bontà dei tre gioielli” o sulle “ istruzioni per praticare il Bodhicitta”, ma per il momento i metodi elencati sono sufficienti.
Come nel caso della sofferenza, per condurre sulla via la felicità, bisognerà andare in luoghi solitari per praticare insieme la purificazione e l’accumulazione dei meriti e della saggezza.
ii. Attraverso la Realtà Assoluta
La pratica è la stessa di quella per “accettare la sofferenza come via per raggiungere l’illuminazione.”
Risultati della pratica
Se si soffre a causa della sofferenza, non è possibile praticare il Dharma – allo stesso modo – il Dharma non può essere praticato se, al momento in cui si prova felicità, si è attaccati al desiderio; in queste condizioni, quindi, non sarà possibile praticare la dottrina.
Per questo è fondamentale per un praticante l’esercizio di usare la felicità e la sofferenza come cammino verso l’illuminazione.
In questo modo, in qualsiasi luogo ci si trovi, posti desolati o città; con qualsiasi persona si abbia a che fare, buona o cattiva; qualsiasi situazione si affronti, la ricchezza o la povertà, la gioia o il dolore; qualsiasi insegnamento si ascolti, piacevole o sgradevole, di auspicio o non, non si sarà sopraffati dalla paura. Questa pratica si chiama: “la pratica dello yogin simile a un leone.”
Grazie a questo metodo, la mente sarà rilassata e spensierata e le azioni virtuose saranno eccellenti. Nonostante, fisicamente, si continua a risiedere in questa terra impura, si potrà godere della gloriosa beatitudine tipica degli innumerevoli Bodhisattva che risiedono nelle terre pure.
A proposito di ciò, un lama Kadampa disse:
“tieni la felicità sotto controllo;
metti fine alla sofferenza,
Con il controllo della felicità e la fine della sofferenza.
Se sarai solo, il Dharma sarà il tuo amico.
Se sarai malato, ti curerà”.
L’orefice purifica le impurità dall’oro sciogliendolo nel fuoco e continua a pulirlo con dell’acqua fino a che questo diventi flessibili; così è per la mente.
Se la mente quando è tormentata prende la felicità come via; e quando è serena prende la sofferenza come via, in questo modo, si ottengono facilmente le caratteristiche speciali del Samadhi, che permettono al corpo e alla mente di fare ciò che desiderano.
Questo insegnamento, penso, sia il più profondo, conduce alla perfezione delle regole morali ed è fonte di virtù. Non essere attaccati alla felicità crea le basi della straordinaria disciplina della rinuncia. Essere liberi dalla paura della sofferenza rende questa disciplina completamente pura.
È stato detto:
“La generosità è alla base delle regole morali e la pazienza è quella che le purifica.” Praticando in questo modo, raggiunta l’elevata via di purificazione, si ricordi:
“Avendo realizzato che tutti i fenomeni sono come delle illusioni,
che nascere un’altra volta è come andare nel giardino dei piaceri –
sia al momento della prosperità che a quello del declino –
si sarà, a quel punto, liberi dalla paura provocata dalle emozioni negative e dalla sofferenza.”[10]
Qui di seguito espongo un episodio della vita di Buddha: “Quando non aveva ancora raggiunto l’illuminazione, il Buddha rinunciò al regno del cakravartin che gli spettava,come se fosse erba.
Stava seduto sulle rive del fiume Nairanjana, senza pensare alla durezza dell’ascetismo. L’obiettivo, necessario per ottenere l’essenza suprema, nettare della realizzazione, fu quello di realizzare l’equanimità tra felicità e sofferenza.
Quando raggiunse la Bodhi, i reggenti degli uomini e degli dei che risiedono nel piano più alto dell’esistenza – dopo aver toccato con la testa i piedi del maestro – gli offrirono tutti i requisiti della gioia e della venerazione. Il bramino Bharadvaja lo umiliò e lo denigrò, invece, con cento accuse e fu anche accusato di abusi sessuali con la figlia di un altro bramino. Visse nel regno del re Agnidatta per tre mesi, mangiando biada andata a male; e nonostante quelle circostanze lo stato della sua mente non cambiò. Come il monte Meru non può essere mosso dal vento, così anche il Buddha rimase impassibile. Egli ha dimostrato che è necessario, dunque, sviluppare l’equanimità tra felicità e sofferenza per portare beneficio agli esseri senzienti.
Epilogo
In realtà un insegnamento come questo dovrebbe essere esposto dai maestri Kadampa che nelle vite realizzano ciò che dicono: “nessun pianto nella sofferenza” e “grande rinuncia nella felicità”.
Penso che se un uomo come me insegnasse questo testo forse ne avrebbe vergogna, ma con la predisposizione verso l’equanimità degli otto attributi mondani,[11] il vecchio Tempe Nyima ha scritto questo testo nella foresta degli innumerevoli uccelli.
06/27/2013, Giulia Castello
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zö sen: essere in grado di sopportare la sofferenza — autocontrollo, resistenza, pazienza,coraggio e stabilità.
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Il concetto di peccato nell’ideologia buddhista non esiste. La “Teoria di Causa ed Effetto”, infatti, si applica sul karma e quindi sull’azione volontaria, che prescinde l’idea di un Dio creatore, giudice dei mortali. Nelle religioni semitiche, il termine indica un atteggiamento sconsiderato e ritenuto, religiosamente, illecito.
Il peccato – in questo contesto – si riferisce alle azioni impure, che diventano ostacoli al fine di ottenere l’illuminazione.
Per evitare continue ripetizioni si è preferito tradurre il termine tibetano “sdig pa” con il lemma “peccato”. -
Alak Zencar Rinpoche: Si potrebbe dire: ma io non faccio nulla di male perché debba soffrire. È facile accrescere per il Karma, così come per un piccolo seme nella terra è facile dare tanti frutti. Il risultato di un’azione può moltiplicarsi numerose volte, poiché questa stessa darà origine a ulteriori conseguenze, come un albero genealogico.
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Qual è la differenza tra azioni negative, o peccati, (sdig pa) e negatività (mi dge ba)? ‘Negatività’ è un termine generale che denota l’immorale e vizioso. Le azioni negative hanno un valore più intenso perché, non solo si riferiscono ad azioni non virtuose, ma queste sono distruttive e creano dolore. Avere un pensiero poco virtuoso è un prodotto solo mentale, in generali i peccati si riferiscono ad azioni fisiche.
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gnyen sa: in tibetano indica luoghi misteriosi e inquietanti, dove le persone hanno timore di provocare qualsiasi tipo di disordine. Per esempio, sulla cima di un’alta montagna dove nessuno si permetterebbe di fare rumore per paura di offendere gli spiriti del luogo.
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I quattro estremi sono: è, non è, è e non è, né è né non è. Vedi Mipham Rinpoche, The Four Great Logical Arguments of the Middle Way.
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Ci si riferisce alla “sofferenza del cambiamento.” Quando una situazione piacevole ha fine, diventa fonte di sofferenza. Si consideri a d esempio il dispiacere causato dalla morte di un bambino. Questo perché si era così felici quando il bambino era in vita, che la sua morte provoca tale dolore.
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Nāgārjuna scrisse il Ratnavali, Ghirlanda di Gioielli, come consiglio per un suo amico, il quale era re e pieno di ricchezze. Nel testo il Maestro indirizza il re a sfruttare la sua situazione in favore del cammino verso il Dharma.
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Maitreya, Ornament of Mahayana Sutras (Mahāyānasūtrālaṅkāra). Il primo verso si riferisce alla saggezza, il secondo alla compassione.
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Gli otto attributi mondani sono:
– guadagno (rnyed pa)
– perdita (mi rnyed pa)
– gioia o felicità (bde ba)
– tristezza o sofferenza (mi bde ba)
– preghiera o venerazione (bstod pa)
http://www.lotsawahouse.org/it/tibetan-masters/dodrupchen-III/transforming-suffering-and-happiness