Sogyal Rinpoche: L’aiuto a chi rimane. Una pratica del cuore. Invocazione. Richiesta di aiuto. Colmare il cuore di beatitudine. Aiutare i morti. Mantenere aperto il cuore. Imparare dal dolore. Le esperienze di pre morte: una scala per il paradiso? L’oscurità e il tunnel. La luce. Somiglianze col bardo del divenire. Uscita dal corpo. Osservare impotenti i propri cari. Forma perfetta, mobilità e chiaroveggenza. Incontro con altri. I vari reami. Visioni infernali. I Délok: l’esperienza di pre-morte tibetana. Il messaggio delle esperienze di pre-morte. Il significato delle esperienze di pre-morte. Il processo universale. La rivelazione dei bardo. Che cosa è quindi la morte secondo gli insegnamenti del bardo? Il processo nel sonno. Il processo nella vita di tutti i giorni.
L’aiuto a chi rimane.
In Tibet è naturale che parenti e amici si riuniscano in occasione di un decesso, e tutti contribuiscono a dare una mano. La comunità fornisce appoggio spirituale, psicologico e pratico. La famiglia non si sente mai abbandonata o in dubbio sul da farsi. Nella cultura tibetana tutti sanno che viene fatto tutto il possibile per il defunto, e ciò aiuta chi rimane ad affrontare, accettare e superare la morte dei propri cari.
Che differenza con la società attuale, in cui l’appoggio della comunità è quasi del tutto perduto! Penso spesso a quanto questo appoggio potrebbe evitare che il dolore del lutto sia così lungo e inutilmente difficile, come spesso succede.
I miei studenti che negli ospizi offrono assistenza ai familiari hanno riscontrato che una delle maggiori fonti d’angoscia per chi rimane è l’idea che nessuno, né loro stessi né altri, possano fare qualcosa per la persona cara. Al contrario, come ho spiegato fin qui, tutti possono fare molto.
Di grande aiuto per chi rimane è l’incoraggiamento a fare qualcosa per i propri morti: vivendo ancora più intensamente per il loro beneficio dopo che ci hanno lasciati, praticando per loro, e dando così alla loro morte un significato più profondo. In Tibet le famiglie fanno pellegrinaggi per il defunto, e in particolari momenti nei luoghi sacri lo ricordano e praticano per lui. I tibetani non dimenticano mai i defunti: portano offerte ai santuari per loro, fanno recitare preghiere per loro ai grandi raduni di preghiera, collaborano con donazioni ai progetti spirituali e, ogni volta che incontrano un maestro, gli chiedono di pregare per loro. La più grande consolazione per un tibetano è sapere che un maestro pratica per un familiare defunto.
Se una persona cara muore, non moriamo anche noi. Cerchiamo invece di vivere, dopo che ci ha lasciati, con fervore ancora più grande. O, almeno, facciamo in modo di soddisfare i suoi desideri e aspirazioni dando ad esempio in beneficenza parte dei suoi beni, o collaborando in suo nome a un progetto a cui teneva.
Spesso, in Tibet, i familiari ricevono lettere di condoglianze di questo tenore: “Tutte le cose sono impermanenti, tutte le cose muoiono. Lo sai bene. La morte di tua madre è stata un fatto naturale, è normale che gli anziani muoiano prima. Era malata e avanti in età, e non risentirà di dover abbandonare il suo corpo. Poiché ora la puoi aiutare celebrando pratiche e facendo buone azioni in sua memoria, sarà felice e sollevata. Perciò, non affliggerti”.
Se la perdita riguarda un figlio o qualcuno troppo giovane per morire, si dirà: “Il tuo bambino è morto, e sembra che sia crollato tutto il tuo mondo. Sembra crudele e illogico, lo so. Non posso spiegare la morte di tuo figlio, ma so che deve trattarsi del naturale effetto del suo karma. Credo e sono certo che la sua morte abbia purificato qualche debito karmico che né tu né io possiamo conoscere. Il tuo dolore è il mio. Ma fatti animo: ora tu e io lo possiamo aiutare con la pratica, le buone azioni e l’amore. Possiamo tenergli la mano e camminargli accanto, anche adesso, anche se non c’è più, e aiutarlo a trovare una nuova nascita che gli dia una vita più lunga”.
Oppure, in altri casi: “So che il tuo dolore è grande ma, quando senti la tentazione di lasciarti andare alla disperazione, pensa alla grande fortuna della tua cara di avere un maestro che pratica per lei. Pensa che in altre epoche e in altri luoghi manca questo aiuto spirituale ai defunti. Ogni volta che pensi a lei, ricorda quanti altri stanno oggi morendo nel mondo, soli, dimenticati, abbandonati, senza essere sostenuti da una visione spirituale. Pensa a quanti sono morti in Tibet negli anni terribili, disumani della rivoluzione culturale, quando era proibita ogni forma di pratica spirituale.
Ogni volta che la disperazione ti assale, ricorda che farti vincere porterà solo turbamento a chi ti ha lasciato. Il tuo dolore potrebbe persino impedirle di procedere lungo la via che forse ha imboccato verso una buona rinascita. Se ti lasci sopraffare dal dolore, ti priverai della possibilità di aiutarla. Più sei fermo, più è positiva la tua mente, e più aiuto le darai, più la metterai in grado di liberarsi”.
Quando sei triste, abbi il coraggio di dirti: “Qualunque sensazione sto provando, passerà. Se anche ritornerà, non potrà durare”. Se non cerchi di prolungarli, i sentimenti di perdita e di dolore si dissolveranno naturalmente e scompariranno.
Nel mondo attuale, che ignora la possibilità di portare aiuto ai morti e che non vuole affrontare la realtà della morte, sagge e serene riflessioni come queste sono molto difficili. Chi sperimenta una perdita per la prima volta può crollare sotto l’assalto di sentimenti di grande tristezza, rabbia, rifiuto, chiusura e colpa che scopriamo all’improvviso furoreggiare dentro di noi.
Aiutare chi ha appena subito una grave perdita richiede tutta la vostra pazienza e sensibilità. Dovete trascorrere del tempo con loro e lasciarli parlare, ascoltarli in silenzio e senza giudicare mentre rivedono le memorie più intime o riesaminano più e più volte i particolari della morte. La cosa più importante è che siate lì con loro mentre vivono forse la tristezza e il dolore più atroce della loro vita. Rendetevi disponibili in qualunque momento, anche quando sembra che non abbiano bisogno di voi. Carol, vedova da un anno, venne intervistata per una trasmissione televisiva sulla morte. “Esaminando a posteriori quest’ultimo anno” le chiesero, “che cosa pensi che ti abbia aiutato di più?”. “Tutti quelli che mi telefonavano e passavano a trovarmi, anche se dicevo di no”, rispose.
Le persone in lutto passano attraverso una sorta di morte. Esattamente come per il morente, devono sapere che la violenza delle loro emozioni è del tutto naturale. Devono inoltre sapere che l’esperienza del lutto può essere lunga e tortuosa, con ondate cicliche di dolore. Il trauma, il rifiuto e il torpore dei primi momenti lasceranno il posto a un’intensa e spesso disperata consapevolezza dell’immensità della perdita, che a sua volta si stabilizzerà in uno stato di ripresa e maggior equilibrio. Spiegate che si tratta di un modello naturale che si ripresenterà più volte, mese dopo mese, e che quell’insopportabile dolore e la paura di non essere più in grado di affrontare la vita come prima sono del tutto normali. Spiegate che, anche se ci vorrà un anno o due, sicuramente il dolore finirà e si trasformerà in accettazione.
Scrive Judy Tatelbaum: “Il dolore è una ferita che ha bisogno di attenzioni per guarire. Passare attraverso il dolore ed esaurirlo significa affrontare con apertura e sincerità i nostri sentimenti, esprimerli completamente, sopportarli e accettarli per tutto il tempo necessario alla guarigione della ferita. Abbiamo paura che, se lo riconosciamo, il dolore ci distrugga. In realtà, si dissolve quando viene sperimentato. Il dolore che dura per sempre è quello inespresso”.
Molto spesso, purtroppo, parenti e amici pretendono che la persona colpita da un lutto ‘ritorni alla normalità’ dopo pochi mesi, col risultato di aggravare il senso di smarrimento e di solitudine mentre il dolore è ancora vivo, e a volte si approfondisce.
In Tibet, come ho già detto, la comunità, gli amici e i parenti danno una mano nei quarantanove giorni successivi alla morte. Ognuno partecipa alle pratiche per dare aiuto al morto e collabora alle centinaia di cose da fare. I familiari si lasciano andare al loro dolore e piangono un po’, com’è naturale. Poi, quando tutti se ne sono andati, la casa sembra vuota. Eppure, in tanti modi sottili e commoventi, la confusione e la partecipazione di quei quarantanove giorni li hanno aiutati a superare una buona parte del lutto.
Nella nostra società è diverso, perché dobbiamo affrontare la perdita da soli. Il naturale dolore viene ingrandito in caso di morte improvvisa o di suicidio, che rafforzano la convinzione che chi resta non può far assolutamente niente per aiutare il defunto. Nel caso di una morte improvvisa è molto importante andare a vedere il corpo, altrimenti sarà difficile rendersi conto che la morte è stata reale. Se possibile, bisognerebbe sedere tranquillamente accanto al cadavere, dire ciò che sentiamo di voler dire, esprimere il nostro amore e dare l’estremo saluto.
Se invece non è possibile, collochiamo bene in vista una fotografia della persona defunta e usiamola per le fasi dell’addio, della conclusione del nostro rapporto e del lasciar andare. Consigliate a chi si trova ad affrontare una perdita improvvisa di fare così, perché aiuterà ad accettare la bruciante realtà di quella morte.
Insegnategli anche i metodi che ho descritto per portare aiuto ai defunti, metodi semplici che tutti possono mettere in atto invece di sedere disperati e rivivere in continuazione la perdita con frustrazione e auto recriminazione.
Nel caso di una morte improvvisa, i familiari possono spesso provare una rabbia selvaggia e sconosciuta nei confronti di quella che ritengono la causa della morte. Aiutateli a esprimerla perché, se rimane dentro, prima o poi li sprofonderà in uno stato di depressione cronica. Aiutateli a lasciar andare la rabbia per toccare la profondità del dolore che si nasconde dietro. In questo modo potranno incominciare il compito doloroso, ma alla fine risanante, di lasciar andare.
Altrettanto frequente è un forte senso di colpa, che si esprime nell’esame ossessivo degli errori commessi nei confronti del defunto mentre era in vita, o torturandosi nella ricerca di ciò che si poteva fare per evitarne la morte. Aiutateli a esprimere il senso di colpa, per quanto irrazionale e immotivato. Anche questo lentamente scemerà, subentrerà il perdono e si potrà riprendere a vivere.
Una pratica del cuore
Vorrei trasmettervi una pratica molto efficace in caso di profondi dolori. Il mio maestro Jamyang Khyentse la insegnava alle persone afflitte da gravi problemi emotivi, angoscia mentale o esaurimento nervoso, e vi posso assicurare per esperienza che porta enorme sollievo e conforto. La vita di un insegnante, in un mondo come questo, non è delle più facili. Da giovane attraversai molti momenti di crisi, durante i quali invocavo ogni volta Padmasambhava, come del resto faccio ancora, pensando a lui come identico a tutti i miei maestri. Ho quindi constatato personalmente il valore di trasformazione di questa pratica, e ho scoperto il motivo per cui i miei maestri dicevano che la pratica di Padmasambhava è la più efficace nei momenti di inquietudine: possiede infatti la forza di cui abbiamo bisogno per affrontare e sopravvivere alla caotica confusione dell’epoca attuale.
Ogni volta che vi sentite disperati, angosciati o depressi; ogni volta che vi sembra di non farcela più o avete il cuore spezzato, vi consiglio questa pratica. Le uniche condizioni per la sua efficacia sono di seguirla con tutte le vostre forze e di chiedere veramente aiuto di tutto cuore.
Anche se praticate la meditazione proverete ugualmente dolore e sofferenza emotiva. Dalle vite passate o dall’attuale potranno emergere cose difficili da affrontare. Forse scoprirete che non avete abbastanza saggezza e stabilità meditativa per fronteggiarle, e che la meditazione da sola non è sufficiente. Avete bisogno di ciò che chiamo una ‘pratica del cuore’. Mi rattrista sempre vedere che le persone non hanno una pratica come questa che le aiuti nei momenti di disperazione, perché essa vi farà scoprire che possedete qualcosa di enormemente prezioso, che si rivelerà una fonte di trasformazione e di energia e forza costanti.
Invocazione
Invocate nel cielo davanti a voi la presenza dell’essere illuminato da cui traete più ispirazione e consideratelo come l’incarnazione di tutti i Buddha, i bodhisattva e i maestri. Personalmente, come ho già detto, ricorro a Padmasambhava. Anche se non riuscite a vederne la figura, sentitene intensamente la presenza e invocate il suo infinito potere, la sua compassione e benedizione.
Richiesta di aiuto
Aprite il vostro cuore e invocatelo, o invocatela, dal profondo di tutto il dolore e la sofferenza che provate. Se avete voglia di piangere, non trattenetevi: lasciate che le lacrime scorrano e chiedete sinceramente aiuto. Siate certi che c’è qualcuno espressamente lì per voi, qualcuno che vi ascolta, che vi capisce con amore e compassione senza giudicarvi: il vostro amico più intimo. Invocatelo dal profondo dei vostro dolore recitando OM AH HUM VAJRA GURU PADMA SIDDHI HUM, il mantra che è usato da secoli e da migliaia di esseri come mezzo risanante di purificazione e protezione.
Colmare il cuore di beatitudine
Immaginate e sentite che il Buddha che state invocando vi risponde con tutto il suo amore, compassione, saggezza e potere, e che emana verso di voi sfolgoranti raggi di luce. Visualizzate la luce come un nettare che colma il vostro cuore e trasforma il vostro dolore in beatitudine.
Padmasambhava si manifesta a volte semplicemente seduto in meditazione, avvolto in lunghi abiti, irradiante un incantevole senso di calore e di piacevole benessere, con un amorevole sorriso sul volto. In questa emanazione è chiamato ‘Grande beatitudine’. Le mani posano tranquillamente in grembo e reggono una coppa ricavata da un teschio. La coppa è colma del nettare della Grande beatitudine, che vortica e sfavilla: la fonte di ogni guarigione.
Padmasambhava siede serenamente in un bocciolo di loto circondato da una scintillante aura di luce.
Sentitelo immensamente caldo e amorevole, un sole che spande beatitudine, benessere, pace e guarigione. Spalancategli il cuore, fate uscire tutto il vostro dolore, invocate aiuto. Recitate il suo mantra OM AH HUM VAJRA GURU PADMA SIDDHI HUM.
Ora immaginate che migliaia di raggi luminosi emanino dal suo corpo e dal suo cuore. Immaginate che il nettare della Grande Beatitudine trabocchi gioiosamente dal teschio che tiene in mano e scenda su di voi in una cascata di luce liquida, dorata e lenitiva. La luce penetra nel vostro cuore lo riempie e trasforma il vostro dolore in beatitudine.
Il flusso di nettare che emana dal Padmasambhava della Grande Beatitudine è una pratica meravigliosa che il mio maestro insegnava sempre, e non ha mai fallito nel darmi ispirazione e aiuto in momenti di vero bisogno.
Aiutare i morti
Facendo questa pratica più e più volte, recitando il mantra e colmando il vostro cuore di beatitudine, a poco a poco il dolore si dissolverà nella pace fiduciosa della natura della mente. Comprenderete con gioia che i Buddha non sono al di fuori di voi ma sempre in voi, inseparabili dalla natura della vostra mente. Con la loro benedizione, non hanno fatto altro che potenziarvi e nutrirvi di fiducia verso il Buddha dentro di voi.
Ora, provvisti del potere e della fiducia che la pratica vi ha dato, immaginate di inviare questa benedizione, la luce della compassione risanante degli esseri illuminati, a una persona cara defunta. È molto utile soprattutto in casi di morte traumatica, per trasformare l’intensa sofferenza in pace e beatitudine. Forse in passato vi sentivate disperati nel vostro dolore, impotenti ad aiutare la persona cara, ma ora, grazie a questa pratica, vi sentite consolati, incoraggiati e capaci di portarle aiuto.
Mantenere aperto il cuore
Non aspettatevi risultati immediati o miracolosi. La sofferenza svanirà dopo un certo periodo, forse più tardi di quanto speravate. Non nutrite nessuna aspettativa che ‘funzioni’ e che metta immediatamente e definitivamente fine al vostro dolore. Siate aperti alla sofferenza, come lo siete verso i Buddha e gli esseri illuminati durante la vostra pratica.
Forse incomincerete a provare una misteriosa gratitudine per il dolore, perché vi dà l’opportunità di attraversarlo e trasformarlo. Senza di esso, non avreste mai potuto scoprire che, nascosto in fondo alla sofferenza e alla sua stessa natura, c’è un tesoro di beatitudine. I momenti di dolore sono anche quelli di maggior apertura, e nella vulnerabilità potrete trovare la forza più grande.
Dite a voi stessi: “Non fuggirò da questa sofferenza. Voglio usarla nel modo migliore e più positivo, per diventare più compassionevole e più utile agli altri”. La sofferenza, dopo tutto, può insegnarci la compassione. La vostra sofferenza vi fa capire quella degli altri. E, se avete la possibilità di dare aiuto, è attraverso la vostra sofferenza che troverete la comprensione e la compassione per riuscirci.
Non chiudete fuori il dolore: accettatelo e rimanete invulnerabili. Qualunque sia il grado di disperazione, accettate il dolore per quello che è, perché in realtà sta cercando di farvi un regalo inestimabile: la possibilità di scoprire, mediante la pratica spirituale, ciò che si apre al di là del dolore. Scrive Rumi: Un dolore può essere il giardino della compassione”. Se mantenete aperto il vostro cuore in ogni circostanza, il dolore può diventare il vostro più potente alleato nella ricerca dell’amore e della saggezza.
Non sappiamo anche troppo bene che non serve a niente chiuderci al dolore e che tentare di proteggerci significa soltanto soffrire di più, rinunciando a imparare dalla sofferenza? Rilke scrive che il cuore protetto “mai espostosi alla perdita, innocente e sicuro, non conosce la tenerezza. Solo il cuore riconquistato può trovare appagamento: libero, grazie a ciò che ha abbandonato, di godere della propria padronanza”.
Imparare dal dolore
Quando la sofferenza vi sopraffà, cercate ispirazione nelle pratiche meditative. Uno dei metodi più potenti che conosco per lenire e dissolvere la sofferenza è l’immersione nella natura, soprattutto mettersi davanti a una cascata e lasciare che le lacrime scorrano e il dolore si sfoghi e vi purifichi come l’acqua che precipita. Oppure leggere pagine toccanti sull’impermanenza e il dolore, traendo conforto dalla loro saggezza.
Accettare e mettere fine al dolore è possibile. Molti applicano e trovano utile una variante del metodo spiegato per portare a termine le cose non concluse. È molto efficace, anche se la persona cara è morta da tempo.
Visualizzate nel cielo davanti e attorno a voi tutti i Buddha e gli esseri illuminati, che emanano raggi di luce compassionevole trasmettendo aiuto e benedizione. Alla loro presenza, sfogate il vostro dolore e dite tutto ciò che volete dire alla persona cara defunta, ciò che realmente avete nel cuore e nella mente.
Visualizzate il vostro caro mentre vi guarda con un amore e una comprensione infinitamente più grandi di quelli che vi manifestava in vita.
Sentite il suo desiderio di farvi sapere che vi ama e vi perdona qualunque dolore gli abbiate arrecato, il suo desiderio di chiedere e di ottenere il vostro perdono.
Aprite il vostro cuore e date sfogo a ogni sentimento di rabbia, a ogni ferita che vi portate dentro, e lasciateli andare completamente. Comunicate al defunto il vostro perdono, con tutto il cuore e la mente. Ditegli che lo perdonate, ditegli tutto il vostro rincrescimento per il dolore che gli avete causato.
Ora sentite, con tutto l’essere, il suo perdono e il suo amore che vengono verso di voi. Sentite nel profondo di essere degni di amore e di perdono, e sentite il vostro dolore dissolversi.
Al termine della pratica, domandatevi se ora siete davvero in grado di dirgli addio per sempre e lasciarlo veramente andare. Immaginate che il vostro caro si volti e si allontani, poi concludete con il phowa o un’altra pratica di aiuto ai defunti.
Questa pratica vi consente di esprimere ancora il vostro amore, di fare qualcosa per la persona cara, di portare a termine e risanare il vostro rapporto nel profondo del cuore.
Potete imparare molto dal dolore e dalla perdita, se ve lo consentite. Un lutto può costringervi a guardare in faccia la vostra vita, spingendovi a trovare uno scopo in essa anche se forse prima non ne avevate nessuno.
Ritrovandovi di colpo soli dopo la morte di una persona cara, potreste avere la sensazione di ricevere una nuova vita e che vi venga domandato: “Che cosa farai ora di questa vita? A quale scopo vuoi continuare a vivere?”
Una perdita, un lutto può farvi diventare acutamente consapevoli delle conseguenze di non aver dimostrato nella vita amore e comprensione, di non aver chiesto perdono, e ciò può rendervi molto più sensibili verso le persone care che restano. Dice Elisabeth Kubler-Ross: “Cerco di insegnare alla gente a vivere in modo da dire agli altri queste cose mentre possono ancora ascoltarle”. E Raymond Moody, dopo una vita di lavoro con le esperienze di pre-morte, scrive: “Ho incominciato a capire quanto tutti siamo vicini alla morte nella nostra vita quotidiana. Ora più che mai sono attento a comunicare alle persone che amo i miei sentimenti”.
Il consiglio che do di cuore a quanti sono immersi nel dolore e nella disperazione della perdita di una persona cara è pregare per ricevere aiuto, forza e grazia. Pregate di essere in grado di continuare a vivere e di scoprire il senso più pieno della nuova situazione in cui ora vi trovate.
Siate vulnerabili e ricettivi, siate coraggiosi, siate pazienti. Ma soprattutto guardate nella vostra vita per scoprire come condividere più profondamente, adesso, il vostro amore con gli altri.
Le esperienze di pre morte: una scala per il paradiso?
In Occidente ci sono ormai diventate familiari le esperienze di premorte riferite da persone sopravvissute a stati confinanti con la morte clinica. Esperienze simili sono state riportate da tutte le tradizioni mistiche e sciamaniche, dai maestri sufi, da scrittori e filosofi come Platone, papa Gregorio Magno, Tolstoj e Jung. L’esempio che preferisco è riportato dal Venerabile Beda, il grande storico inglese dell’VIII secolo.
In quei tempi avvenne in Britannia un miracolo memorabile simile a quelli dei tempi antichi. Infatti, perché gli uomini fossero incitati a risorgere dalla morte dell’anima, un tale, che era morto già da un po’ di tempo risuscitò alla vita del corpo e raccontò molte cose degne di memoria, che aveva visto; tra le quali ho ritenuto opportuno riassumerne qui alcune brevemente. Nella regione della Northumbria che si chiama Cuneningum, vi era un padre di famiglia che con i suoi viveva devotamente; egli fu colpito da una malattia che si accrebbe di giorno in giorno, portandolo agli estremi, finché egli morì nelle prime ore di una notte. Ma sul far del giorno improvvisamente tornò in vita e si rizzò a sedere, sì che tutti quelli che si erano raccolti in lacrime intorno al suo corpo, presi da grandissimo terrore, scapparono via; solo la moglie, che lo amava di più, benché tutta pallida e tremante, rimase là. Egli cercò di consolarla: “Non temere” disse, “perché sono veramente risuscitato dalla morte che mi aveva ghermito, e ho avuto il permesso di tornare a vivere di nuovo tra gli uomini, anche se da questo momento debbo vivere non secondo il solito modo di vita ma in maniera del tutto diversa”… Poco dopo, liberatosi dalle cure del mondo andò nel monastero di Mailros…
Il Venerabile Beda continua: Così narrava quello che aveva visto: “Era risplendente nell’aspetto e fulgido nella veste colui che mi guidava. Procedevamo in silenzio, in direzione, come mi sembrava, del punto in cui sorge il sole nel solstizio d’estate; e camminando giungemmo a una valle molto larga e profonda, di infinita grandezza…
“Senza indugio mi portò via dalle tenebre e mi condusse dove il cielo era illuminato da una luce serena; e condotto all’aperto, vidi davanti a me un grandissimo muro che sembrava non aver fine né in altezza né in lunghezza. Cominciai perciò a chiedermi meravigliato perché ci avvicinassimo al muro, dato che da nessuna parte si vedeva porta o finestra o scala. Ma quando fummo arrivati al muro, non so come ci trovammo sulla sua sommità Ed ecco che là c’era un campo larghissimo e bellissimo… La luce che pervadeva tutti quei luoghi era così intensa da superare lo splendore del giorno e anche i raggi del sole di mezzogiorno…
“[La guida disse:] ‘ora devi tornare di nuovo nel corpo e vivere tra gli uomini, se ti adopererai a sorvegliare le tue azioni con la massima cura e a conservare retto e semplice il tuo modo di agire e di parlare, riceverai anche tu dopo la morte un posto in mezzo a queste schiere felici di spiriti beati, che ora vedi. Io infatti, quando mi sono allontanato da te per un po’ di tempo, l’ho fatto proprio per conoscere che cosa sarà di te’. Dopo che mi disse questo, mi rincresceva molto tornare nel corpo, perché traevo gran diletto dalla dolcezza e dalla bellezza di quel luogo che scorgevo e insieme dalla compagnia di quelli che vedevo là. Non osavo chiedere niente alla mia guida, ma mentre ero in questi pensieri, non so come all’improvviso mi sono ritrovato a vivere tra gli uomini”.
La storia si conclude così: “Questo e tutto il resto che aveva visto quest’uomo di Dio lo riferiva non a tutti indiscriminatamente i perdigiorno che non hanno cura della propria vita, ma solo a coloro che… volevano ricavare dalle sue parole giovamento per la loro devozione”.
Gli strumenti della moderna tecnologia medica hanno aperto una dimensione nuova e affascinante alle esperienze di pre-morte, riportando in vita persone ‘morte’ in seguito a incidenti, infarti, malattie gravi, operazioni militari o combattimenti. Le esperienze di pre-morte sono prese a oggetto dalla ricerca scientifica e dalla speculazione filosofica. Secondo un’indagine Gallup del 1982, un numero notevole di americani (otto milioni, equivalenti a un ventesimo della popolazione) ha avuto almeno un’esperienza di pre-morte.
Benché nessuna esperienza sia uguale a un’altra, così come due persone non possono avere la stessa esperienza del bardo, si delinea una sequenza comune di fasi o ‘esperienza centrale’.
Si prova uno stato alterato di coscienza caratterizzato da pace e benessere, privo di dolore, sensazioni fisiche o paura.
Si odono ronzii o suoni scroscianti, e si viene separati dal corpo. Questo stadio è conosciuto come ‘esperienza extracorporea’. Il corpo è visto spesso dall’alto; vista e udito sono potenziati; la coscienza è limpida e attenta; si può persino attraversare i muri.
Si percepisce un’altra realtà, con la sensazione di immergersi nell’oscurità, fluttuare in uno spazio privo di dimensioni e spostarsi a grande velocità in un tunnel.
Si vede una luce, dapprima come un lontano puntino luminoso, e ci si sente attratti magneticamente verso di essa e avviluppati nella luce e nell’amore. È una luce accecante, di grande bellezza, e non ferisce gli occhi. Alcune persone riferiscono l’incontro con un ‘essere di luce’, una presenza luminosa e apparentemente onnisciente, che alcuni identificano con Dio o Cristo, e che si dimostra compassionevole e amorevole. Davanti a questa presenza, alcuni sperimentano la visione retrospettiva della loro vita con tutte le azioni, buone e cattive. Sono in comunicazione telepatica con la presenza e si percepiscono in una dimensione senza tempo e in genere colma di beatitudine, in cui le nozioni abituali di tempo e spazio sono abolite. Anche se l’esperienza dura uno o due minuti in tempo reale, può essere di grande ricchezza e complessità.
Alcuni vedono un mondo interiore di sovrannaturale bellezza, paesaggi ed edifici paradisiaci, con musiche celestiali e un profondo senso di unione. Pochissimi riferiscono invece terrificanti visioni infernali.
Infine si arriva a un punto oltre il quale non si può procedere. Alcuni incontrano parenti e amici defunti, e parlano con loro. Quindi decidono, spesso con riluttanza, o ricevono l’invito a ritornare nel corpo e a questa vita, o con un nuovo senso di missione e di servizio, o per proteggere e aver cura della famiglia, o semplicemente per portare a termine lo scopo della loro vita, rimasto interrotto.
L’aspetto principale delle esperienze di pre-morte, come dimostra abbondantemente la letteratura sull’argomento, è la completa trasformazione che spesso operano sulla vita, gli atteggiamenti, il lavoro e i rapporti personali. Anche se non si cancella la paura di soffrire e di morire, si perde però la paura della morte in quanto tale. Le persone uscite da queste esperienze sono più comprensive e amorevoli, si interessano ai valori spirituali, alla “via della saggezza”, e in genere a una spiritualità universale piuttosto che ai dogmi di una singola religione.
Come possiamo interpretare le esperienze di pre-morte? Alcuni occidentali che hanno letto il Libro tibetano dei morti le paragonano ai bardo della tradizione tibetana. A prima vista parrebbe un paragone seducente, ma c’è un parallelo anche tra i particolari delle due esperienze. Credo che occorrerebbe uno studio apposito, che va al di là degli scopi di questo libro, ma possiamo ugualmente esaminare alcune somiglianze e differenze.
L’oscurità e il tunnel
Ricorderete che la fase finale del processo di dissoluzione del bardo del morire termina quando l’esperienza nera del ‘Completo conseguimento’ si presenta come un ‘cielo vuoto avvolto in un’oscurità totale’. A questo punto, gli insegnamenti parlano di un momento di gioia e di beatitudine. Le esperienze di pre-morte parlano di muoversi ‘a velocità impressionante’, di ‘sentirsi privi di peso’ in uno spazio nero, ‘un’oscurità totale, serena e meravigliosa’, per poi scendere in un ‘lungo tunnel buio’.
Una donna riferisce a Kenneth Ring: “È come un vuoto, un nulla, ma c’è una tale pace, è così piacevole che continui il tuo cammino. È oscurità completa, non ci sono sensazioni e non si prova niente… una specie di tunnel buio. C’è solo un galleggiare, come fluttuare a mezz’aria”.
Un’altra donna racconta: “La prima cosa che ricordo fu un rumore fortissimo, tremendo… È difficile trovare le parole per descriverlo. La cosa più simile che mi viene in mente è il rumore di una bufera, un vento impetuoso che mi spingeva. Venni sospinta da un’area più vasta verso un piccolo punto”.
Un’altra donna riferisce a Margot Grey: “Mi trovai in quello che sembrava lo spazio vuoto. Era totalmente nero e mi sentivo sospinta verso un’apertura, come la fine di un tunnel. Lo sapevo perché alla fine potevo vedere una luce. Ero in posizione verticale e venivo trascinata verso l’apertura. Sapevo che non era un sogno, i sogni non sono così. Non credetti neppure una volta che si trattasse di un sogno”.
La luce
Al momento della morte, la Luminosità fondamentale o Chiara luce si manifesta in tutto il suo splendore. Il Libro tibetano dei morti dice: “Figlio/figlia di famiglia illuminata… il tuo Rigpa è inseparabile luminosità e vuoto, e si espande come una grande distesa di luce. Oltre nascita e morte infatti il Rigpa è il Buddha della Luce immutabile”.
Melvin Morse, specializzato nelle esperienze di pre-morte infantili, annota: “Quasi tutte le esperienze di pre-morte infantili (e circa un quarto di quelle adulte) hanno un elemento di luce. I bambini raccontano che la luce appare negli stadi finali dell’esperienza, dopo l’uscita dal corpo o il viaggio dentro un tunnel”.
Margot Grey riporta una delle esperienze di avvicinamento alla luce più significative: “Poi gradualmente incominci a capire che là in fondo, lontano, incalcolabilmente distante, arriverai alla fine del tunnel dove intravedi una luce bianca. È così lontana che riesco solo a paragonarla a guardare il cielo e a vedere un’unica stella lontanissima. Ma, visivamente, è come guardare in un tunnel la cui estremità è piena di luce. Ti concentri su quel puntino luminoso che ti attira e pregusti di arrivare alla luce.
Mentre ti avvicini a velocità incredibile, diventa sempre più grande. Tutta l’esperienza non durerà più di un minuto. Mentre ti avvicini alla luce brillante, non hai la sensazione che il tunnel finisca bruscamente ma piuttosto di immergerti nella luce. Ora il tunnel è dietro di te, e davanti hai una magnifica, splendida luce bianco azzurra. Lo splendore è intensissimo, più intenso di una luce che normalmente ti accecherebbe, ma non fa assolutamente male agli occhi”.
Molte esperienze di pre-morte descrivono il tipo di luce: “Il mio tipo di luce era… be’, non proprio una luce ma una totale e perfetta assenza di oscurità. In genere si pensa a una luce che splende sulle cose proiettando ombre, eccetera. Ma questa luce era assenza di oscurità, un concetto che ci è sconosciuto perché di solito la luce proietta un’ombra, a meno che non ci avvolga completamente. Ma questa luce era così totale che non c’era una luce da guardare, si era nella luce”.
Kenneth Ring raccoglie questa esperienza: “Non era brillante, ma una specie di lampada schermata. Ma la luce non era come quella diffusa da una lampada. Sai com’era? Come se qualcuno avesse messo uno schermo davanti al sole. Mi faceva sentire molta serenità. Non avevo più paura. Tutto si metteva per il meglio”. Una donna riferisce a Margot Grey: “La luce è più intensa di qualunque altra tu riesca a immaginare. Non ci sono parole per descriverla. Ero immensamente felice, non si può spiegare. C’era un senso di serenità, una sensazione meravigliosa. La luce è così intensa che normalmente ti accecherebbe, invece non fa assolutamente male agli occhi”.
Altri riferiscono non solo di vedere la luce ma di entrare direttamente nella luce, e parlano delle loro sensazioni: “Non avevo il senso di un’identità separata. Ero una cosa sola con la luce”.
Una donna che aveva subito due operazioni chirurgiche in due giorni dice: “Sentivo solo la mia essenza. Il tempo non aveva più valore e lo spazio era pieno di beatitudine. Ero immersa in una luce radiosa, dentro i colori dell’arcobaleno. Tutto era fusione. I suoni erano una cosa nuova, armoniosi, indescrivibili (solo adesso li chiamo musica)”.
Un uomo descrive con queste parole l’ingresso nella luce: La successione di eventi si verificò simultaneamente, ma per descriverli devo isolarli uno per uno. La sensazione era quella di un essere, più un’energia che una persona, un’intelligenza con cui era possibile comunicare. Riempiva lo spazio davanti a me. La presenza occupava tutto, e mi sentivo avvolto.
La comunicazione con la luce è immediata, le tue onde mentali sono lette per telepatia istantanea, senza problemi di lingua. Un pensiero confuso sarebbe impossibile da ricevere. Il primo messaggio che ricevetti fu: “Rilassati. Va tutto bene, è tutto perfetto, non hai niente da temere”. Mi sentii immediatamente e perfettamente a mio agio. Invece, quando un medico ti dice: “Non abbia paura, non le farò male”, in realtà te lo fa e non puoi credergli. Quella invece era la sensazione più splendida che avessi mai provato: puro amore assoluto. Ogni sensazione, ogni emozione è perfetta. Senti un calore che non ha niente a che fare con la temperatura. Tutto è vivido e limpido. Quello che la luce ti trasmette è una sensazione di puro, di vero amore. Non hai mai sperimentato una cosa del genere. Non è paragonabile all’amore di tua moglie, dei figli o al sesso. Anche tutte queste cose assieme non riuscirebbero a uguagliare la sensazione che la luce ti comunica.
Un quattordicenne che aveva rischiato di annegare dice: Arrivai alla sorgente della Luce e guardai dentro. Non so descrivere in termini umani la sensazione che mi procurò ciò che vidi. Era uno smisurato, infinito mondo di pace, di amore, di energia, di bellezza. Al suo paragone, la vita umana era una cosa insignificante. Eppure, esaltava l’importanza della vita proprio mentre presentava la morte come il mezzo per una vita diversa e migliore. Tutto era essere, tutto era bellezza, tutto era senso dell’esistere. Era l’energia dell’universo concentrata in un unico luogo.
Melvin Morse scrive pagine commoventi sulle esperienze di pre-morte infantili, e riporta le semplici parole con cui i bambini descrivono la luce. “Adesso ti dico un meraviglioso segreto: salivo una scala verso il paradiso”. “Volevo proprio andare da quella luce. Dimenticato il mio corpo, dimenticato tutto.
Volevo solo arrivare alla luce”. “C’era una luce bellissima che conteneva tutto ciò che è buono. Per una settimana, ho visto scintille di quella luce in ogni cosa”. “Quando uscii dal coma, aprii gli occhi nel letto dell’ospedale e vidi pezzetti di luce dappertutto. Vedevo come tutto nel mondo fosse a posto”.
Somiglianze col bardo del divenire
Nelle esperienze di pre-morte, la mente è momentaneamente liberata dal corpo e attraversa esperienze simili a quelle che sperimenta il corpo mentale nel bardo del divenire.
Uscita dal corpo
L’esperienza di pre-morte inizia spesso con una sensazione di uscita dal corpo: lo osserviamo dall’esterno e vediamo l’ambiente in cui si trova. Ciò coincide con quanto dice il Libro tibetano dei morti: “Ricordo che, quando l’effetto dell’anestesia finì, mi mossi e mi trovai fuori del corpo. Ero in alto sopra il letto e guardavo in basso il mio cadavere. Ero consapevole di essere una mente e degli occhi, ma non ricordo che avessi un corpo”.
Un uomo che aveva avuto un infarto disse a Kenneth Ring: “Mi sembrava di essere nello spazio, e solo la mente funzionava. Non provavo sensazioni fisiche, come se nello spazio ci fosse solo la mia mente. Non avevo altro che la mente. Senza peso, non avevo nient’altro”.
Osservare impotenti i propri cari
Ho descritto come, nel bardo del divenire, il defunto è in grado di vedere e sentire i suoi familiari, ma non può, a volte con un senso di frustrazione, comunicare con loro. Una donna riferì a Michael Sabom di guardare in basso la madre da un punto che poteva corrispondere al soffitto: “Il ricordo più grande era la tristezza di non poterle dire che stavo bene. Avevo la sensazione che fosse tutto a posto ma non sapevo come comunicargliela…”.
“Ricordo che li vedevo laggiù nella stanza… mia moglie, i miei due figli più grandi e il medico… Non capivo perché piangessero”.
Un’altra donna: “Ero seduta lassù e mi guardavo negli spasmi, e mia madre e la cameriera che gridavano e strillavano perché pensavano che fossi morta. Mi dispiaceva per loro… provavo una grande, grande tristezza. Ma io mi sentivo libera lassù e non c’era motivo di addolorarsi”.
Forma perfetta, mobilità e chiaroveggenza
Nel Libro tibetano dei morti, il corpo mentale del bardo del divenire viene descritto come un ‘corpo dell’età dell’oro’, dotato di mobilità e chiaroveggenza sovrannaturali. Anche nelle esperienze di pre-morte la sensazione è di avere una forma perfetta, come nel fiore della vita. “Galleggiavo, ed ero molto più giovane… Avevo l’impressione di vedermi in una sorta di riflesso in cui avevo vent’anni di meno”.
Si sperimenta una capacità di spostamento immediato, semplicemente con la forza del pensiero. Racconta un veterano del Vietnam: “Mi sembrava di potermi spostare istantaneamente in qualunque luogo volessi… Ero molto eccitato, con un senso di grande potere. Potevo fare ciò che volevo… È una realtà più reale di questa”.
“Ricordo che di colpo mi ritrovai sul campo di battaglia dove mi avevano dato per disperso… Era come materializzarsi di colpo in un posto, e bastava un attimo per arrivarci. Solo un battito di palpebre”.
Molte esperienze di pre-morte parlano di una chiaroveggenza onnisciente, “dall’inizio alla fine dei tempi”. Una donna riferì a Raymond Moody: “Di colpo, la comprensione totale di tutto ciò che era cominciato sin dall’inizio dei tempi e che sarebbe continuato per sempre… per un attimo conobbi i segreti di tutte le epoche, il significato dell’universo, delle stelle, della luna… di tutto”.
“Ci fu un momento, è impossibile descriverlo, ma era come se sapessi tutto… Per un attimo era come se la comunicazione non fosse più necessaria. Sentivo che potevo conoscere qualunque cosa avessi voluto”.
“Mi sentivo al centro stesso delle cose. Mi sentivo illuminato, purificato. Sentivo di poter capire tutto. Tutto quadrava, tutto aveva un senso, anche i momenti bui. Era come se i pezzi del puzzle fossero andati a posto.
Incontro con altri
Nel bardo del divenire il corpo mentale può incontrare altri esseri ugualmente nel bardo, e la capacità di parlare con altre persone morte è testimoniata anche nelle esperienze di pre-morte. Il veterano del Vietnam incontrato da Michael Sabom racconta che mentre guardava il suo corpo che giaceva in stato di incoscienza a terra…
…i tredici ragazzi che erano stati uccisi il giorno prima e che avevo infilato nei sacchi di plastica erano lì con me. Nel mese di maggio, la mia compagnia aveva avuto quarantadue morti. Anche questi quarantadue ragazzi erano lì con me. Non avevano la forma di un corpo umano, ma sapevo che erano lì. Sentivo la loro presenza. Comunicavamo senza parlarci.
Una donna il cui cuore si era fermato sotto anestesia per un’estrazione dentaria, disse: Mi ritrovai in un luogo bellissimo, l’erba era più verde dell’erba terrestre, come se avesse una luminescenza, un bagliore. Anche i colori non si possono descrivere, al confronto i nostri colori sono così scialbi… lì incontrai delle persone che sapevo che erano morte. Non ci dicemmo nemmeno una parola, ma era come se sapessi che cosa stavano pensando, e sapevo che sapevano che cosa stavo pensando io.
I vari reami
Nel bardo del divenire, oltre a visioni di altro genere, il corpo mentale percepisce visioni e segni dei vari reami. Anche una piccola percentuale delle esperienze di pre-morte riferisce visioni di mondi interiori, di paradisi, di città fatte di luce, di musiche celestiali. Una donna disse a Raymond Moody: In lontananza… vedevo una città. C’erano delle costruzioni, come case private. Erano chiare, luccicanti. La gente che vi abitava era felice. C’era dell’acqua spumeggiante, fontane… Una città di luce, penso che si possa dire così… Meraviglioso. Si sentiva una bellissima musica. Tutto era brillante, scintillante… Pensai che, se vi fossi entrata, non avrei più potuto tornare indietro…Mi venne detto così: se ci vai, non tornerai più indietro… ma toccava a me decidere. E un’altra, a Margot Grey: “Mi sembrava di trovarmi in un edificio o una costruzione, ma non ricordo la presenza di pareti. C’era solo questa splendida luce dorata che pervadeva tutto… Attorno a me c’era gente che camminava o girava in tondo. No, non camminavano: era come se si librassero. Non mi sentivo affatto estranea. Ricordo soprattutto la sensazione di unità, di essere parte di tutto ciò che mi circondava”.
Visioni infernali
Non tutte le descrizioni delle esperienze di pre-morte sono positive, come potremmo aspettarci da quel che abbiamo visto negli insegnamenti tibetani. Alcune persone riferiscono esperienze terrificanti di paura, panico, solitudine, desolazione e angoscia, che ricordano nettamente le descrizioni del bardo del divenire. Un intervistato disse a Margot Grey di sentirsi risucchiato in un “grande vortice buio simile a un gorgo”. In genere chi fa esperienze negative parla, come chi è avviato a rinascere in reami inferiori nel bardo del divenire, di movimento verso il basso invece che verso l’alto…
Mi muovevo dentro un fiume di rumore, un ininterrotto mormorio di voci umane… Mi sentii affondare nella corrente, diventarne parte e a poco a poco ne venni sommerso. Una grande paura si impossessò di me, come se sapessi che, se il rumore sempre più forte mi avesse sopraffatto, sarei stato perduto.
Guardavo dentro un abisso, pieno di foschia grigia e turbinante, con tutte quelle mani e quelle braccia che venivano fuori e cercavano di afferrarmi per trascinarmi dentro. Si udiva come un suono lamentoso, pieno di disperazione.
Alcuni sperimentano ciò che si può soltanto chiamare una visione infernale, freddo intenso e caldo insopportabile, gemiti dei dannati e versi di bestie feroci. Una donna disse a Margot Grey:
Ero in un luogo avvolto dalla nebbia. Sapevo di essere all’inferno. C’era una profonda fenditura da cui usciva del vapore, da cui mani e braccia si protendevano per afferrarmi… Ero terrorizzata che le mani potessero ghermirmi e trascinarmi nell’abisso con loro… Dall’altra parte avanzava verso di me un leone enorme, e gridai. Non avevo paura del leone, ma sapevo che poteva innervosirmi e farmi cadere dentro l’abisso mostruoso… Laggiù faceva molto caldo, e anche i vapori o il fumo erano molto caldi.
Un uomo sopravvissuto a un infarto disse: “Scendevo, scendevo sempre più nelle profondità della terra. C’era rabbia, e avvertivo un’orribile paura. Era tutto grigio. C’era un rumore tremendo, fatto di ringhi e di colpi come di animali selvaggi impazziti che digrignavano i denti”.
Raymond Moody riporta la testimonianza di molte persone che hanno visto esseri che sembravano imprigionati dall’incapacità ad abbandonare gli attaccamenti per il mondo materiale: beni, persone o abitudini. Una donna descrive così quella ‘gente sconcertata’:
Tenevano china quella che poteva sembrare la testa, con aria triste e afflitta. Si trascinavano come legati a una catena… con espressione affranta, ottusa, grigia. Sembrava che dovessero trascinarsi così per sempre, senza sapere dove andare, chi seguire, cosa aspettare.
Mentre passavo, non sollevarono neppure il capo per guardarmi. Sembravano pensare: “È finita. Cosa devo fare? Cos’è tutto questo?”. Solo quel comportamento totalmente affranto e disperato, senza sapere chi fossero, cosa dovevano fare, dove dovevano andare. Senza sapere niente.
Non stavano fermi ma erano in continuo movimento, senza una direzione definita. Andavano diritti per un po’, giravano a sinistra, facevano qualche passo, e giravano dall’altra parte. Niente di niente da fare. Cercavano, ma cosa stessero cercando io non so. Le esperienze di pre-morte parlano a volte di un confine, un limite; dell’arrivo a un punto di non ritorno. È su questo confine che si sceglie di tornare in vita, o si viene invitati a farlo dalla presenza luminosa.
Ovviamente gli insegnamenti tibetani del bardo non ne parlano perché descrivono lo svolgersi della morte reale. C’erano comunque, in Tibet, persone chiamate délok che avevano avuto esperienze simili a quelle di pre-morte, e i loro racconti sono sorprendentemente simili.
I Délok: l’esperienza di pre-morte tibetana
Un curioso fenomeno, poco noto in Occidente ma familiare ai tibetani, è rappresentato dai délok. Il termine tibetano délok significa ‘ritornato dalla morte’, e indica coloro che sono apparentemente ‘morti’ di qualche malattia e si sono trovati a viaggiare nel bardo. Visitano i reami infernali dove assistono al giudizio dei morti e alle sofferenze dell’inferno, e altre volte raggiungono i paradisi e i reami dei buddha. Possono essere accompagnati da una divinità, che li protegge e gli illustra ciò che sta avvenendo. Trascorsa una settimana, il délok viene rimandato al suo corpo con un messaggio, da parte del Signore della morte, che invita i vivi alla pratica spirituale e a un modo di vita benefico. Spesso i délok incontrano molte difficoltà a essere creduti, e per il resto della vita narrano continuamente le loro esperienze per condurre gli altri sul sentiero della saggezza. Le biografie dei délok più famosi sono state messe in forma scritta e sono cantate dai menestrelli girovaghi in tutto il Tibet.
I resoconti dei délok non corrispondono solo, come ci si potrebbe aspettare, al Libro tibetano dei morti ma anche alle esperienze di pre-morte.
Una famosa délok del secolo XVI, originaria della mia stessa regione del Tibet, fu Lingza Chokyi. La sua biografia narra come, senza rendersi conto di essere morta, si trovò fuori del corpo e vide nel proprio letto vestito con i suoi abiti, il cadavere di un maiale. Disperatamente tentò di comunicare con la famiglia mentre stavano facendo le pratiche e i preparativi per la sua morte, ma invano. Era furiosa perché nessuno si accorgeva di lei e non le portavano da mangiare. Quando i suoi bambini scoppiarono a piangere, si sentì sotto una ‘grandinata di sangue e pus’ che la fece soffrire tremendamente. Ci descrive anche la gioia provata alle pratiche fatte in suo beneficio e l’indicibile felicità provata quando si trovò in presenza del maestro che praticava per lei rimanendo nella natura della mente, e la sua mente divenne una con quella del maestro.
A un certo punto udì qualcuno che la chiamava. Pensando si trattasse del padre, lo seguì e giunse nel reame del bardo, che le apparve come un luogo geografico. Di lì, prosegue il racconto, iniziava un ponte che finiva nei reami infernali, dove il Signore della morte contava le buone e le cattive azioni. Incontrò molte persone che le raccontarono la propria storia, e un grande yogi che vi si trovava volontariamente per liberare gli esseri negli inferni.
Infine Lingza Chokyi fu rimandata nel mondo dei vivi: c’era stato uno sbaglio e non era ancora venuto il suo momento. Recando un messaggio del Signore della morte per i vivi, ritornò nel corpo e trascorse il resto della vita a narrare quello che aveva visto.
Il fenomeno dei délok non appartiene a un lontano passato, ne abbiamo infatti testimonianze in tempi molto recenti. Il délok abbandona il corpo per circa una settimana, incontra persone defunte, spesso sconosciute, che gli affidano un messaggio per i loro familiari ancora in vita con la preghiera di fare determinate pratiche a loro beneficio. Quindi ritorna nel corpo e trasmette il messaggio. In Tibet il fenomeno dei délok era una realtà accettata, e furono elaborati metodi complessi per accertarne la veridicità. La figlia di Dilgo Khyentse Rinpoche riferì a Francoise Pommaret, autrice di uno studio sui délok, che, mentre il délok faceva il suo viaggio, gli orifizi del corpo venivano otturati con burro e sulla faccia si spalmava una pasta fatta di farina d’orzo. Se il burro non si scioglieva e la maschera non si incrinava, era segno dell’autenticità del délok.
Oggi la tradizione dei délok è ancora viva nelle regioni himalayane del Tibet. I casi parlano di persone comuni, spesso donne, animate da grande fede e devozione che ‘muoiono’ per qualche ora in speciali ricorrenze del calendario tibetano. La loro funzione principale è di fungere da messaggeri tra i vivi e i morti.
Il messaggio delle esperienze di pre-morte
Come abbiamo visto ci sono notevoli somiglianze tra le esperienze di pre-morte e gli insegnamenti relativi al bardo, ma ci sono anche notevoli differenze. La più importante, ovviamente, è che chi attraversa un’esperienza di pre-morte non è morto, mentre gli insegnamenti descrivono ciò che avviene quando si muore, dopo l’effettiva morte fisica e quando si rinasce. Le differenze possono trovare spiegazione nel fatto che le esperienze di pre-morte non si spingono molto avanti nella morte, e in molti casi sono il risultato di una ‘morte’ durata non più di un minuto.
Alcuni pensano che le esperienze di pre-morte equivalgano agli stadi della dissoluzione del bardo del morire. Credo che sia ancora presto per fare raffronti precisi, soprattutto perché le esperienze di pre-morte, come dice il nome, costituiscono solo un ‘avvicinamento’ alla morte. Quando gli illustrai la natura delle esperienze di pre-morte, il mio maestro Dilgo Khyentse Rinpoche mi disse che appartengono al bardo naturale di questa vita, in quanto la coscienza lascia temporaneamente il corpo del ‘morto’ e vaga solo momentaneamente nei vari reami.
Dilgo Khyentse Rinpoche voleva far notare che è una morte clinica ancora all’interno del bardo naturale di questa vita. Forse si giunge sulla soglia dei bardo, ma non vi si entra veramente e non si fa veramente ritorno.
Qualunque esperienza rientra perciò ancora nel bardo naturale di questa vita.
E per quanto riguarda la luce? Ha qualche rapporto con il sorgere della Luminosità fondamentale? Può rappresentare i primi raggi che annunciano il sorgere del sole?
Qualunque sia il vero significato, sono sempre molto commosso dai resoconti che ho letto o udito, soprattutto dai cambiamenti di atteggiamento che ne derivano e che rispecchiano meravigliosamente la visione buddhista della vita. Ho già accennato a due di questi: la profonda trasformazione e il risveglio spirituale, e gli effetti della visione retrospettiva della vita. Quest’ultima è un fatto comune alle esperienze di pre-morte e dimostra con grande evidenza l’ineluttabilità del karma e i vigorosi effetti a largo raggio delle nostre azioni, parole e pensieri. Il messaggio principale che queste persone riportano dall’incontro con la morte, o con un ‘essere di luce’, è esattamente lo stesso messaggio del Buddha e degli insegnamenti del bardo: la cosa più importante, più essenziale della vita sono l’amore e la conoscenza, la compassione e la saggezza.
Queste esperienze ci fanno capire quel che ci dicono gli insegnamenti del bardo: che tanto la vita che la morte avvengono nella mente. La fiducia che molti traggono dalla loro esperienza riflette una più profonda comprensione della mente.
Troviamo altre somiglianze, altrettanto affascinanti, tra le esperienze di pre-morte, e i loro effetti, e certe esperienze mistiche e stati alterati di coscienza. Molte persone riportano fenomeni paranormali: precognizioni, visioni profetiche riguardo al futuro del pianeta, ‘anteprime’ di vita che risultano incredibilmente precise. Alcuni riferiscono esperienze che parrebbero associate all’energia della kundalini, altri si trovano in possesso di stupefacenti poteri di chiaroveggenza, altri ancora della capacità di guarire il corpo o la psiche.
Molte persone che sono arrivate vicino alla morte parlano, in modo eloquente e personale, della bellezza, amore, pace, beatitudine e saggezza di ciò che hanno sperimentato. Secondo me potrebbe trattarsi di una prima occhiata nella radiosità della natura della mente, e non sorprende che tali sguardi producano inevitabilmente una trasformazione spirituale. Tuttavia, come sottolinea Margot Grey: “Non abbiamo bisogno di arrivare vicino alla morte per sperimentare una realtà spirituale di ordine più alto”. Questa realtà spirituale superiore è presente qui e ora, in questa vita: basta scoprirla e accedervi.
Un avvertimento importante: non cullatevi, sulla base dei racconti delle esperienze di pre-morte, così ispiratrici, nella sicurezza che tutto ciò che serve per sperimentare quegli stati di pace e di beatitudine sia morire. Non è, e non potrebbe essere, così semplice.
Persone in preda a sofferenza e dolore insopportabili, udendo parlare delle esperienze di pre-morte, potrebbero essere tentate, ed è comprensibile, a farla finita dandosi la morte. Può sembrare una soluzione semplice, ma non prende in considerazione il fatto che qualunque esperienza fa parte della nostra vita. È impossibile scappare. Se fuggite, incontrerete di nuovo la vostra sofferenza in modo ancora più profondo.
Se da un lato è vero che la maggior parte delle esperienze di pre-morte esaminate sono positive, dall’altro ci si chiede se ciò riflette una reale minoranza di esperienze negative terrificanti, o se non rifletta piuttosto una resistenza a ricordarle o parlarne. Può darsi che non si voglia ricordare le esperienze più buie e terrificanti, o che non si possa ricordarle consciamente. Inoltre, ciò che le esperienze di pre-morte insegnano è l’importanza di trasformare la nostra vita adesso, mentre siamo vivi, perché sostengono che abbiamo “una missione più importante finché siamo qui”.
La trasformazione della nostra vita adesso è il punto centrale e più urgente. Non sarebbe tragico se il messaggio fondamentale delle esperienze di pre-morte (che la vita è sacra e va vissuta con sacralità di intensità e di scopi) andasse perduto confondendosi con una superficiale romanticizzazione della morte? E non sarebbe ancora più tragico se questo troppo superficiale ottimismo peggiorasse ulteriormente l’indifferenza per le responsabilità che abbiamo nei confronti di noi stessi e del mondo un’indifferenza che sta minacciando la sopravvivenza stessa del pianeta?
Il significato delle esperienze di pre-morte
È inevitabile che si sia fatto il tentativo di spiegare le esperienze di pre-morte in termini diversi da un’esperienza spirituale. La scienza riduzionistica cerca di spiegarle in termini fisiologici, neurologici, psicologici o di reazioni chimiche. Ma gli studiosi del campo, tra cui medici e scienziati, hanno smontato razionalmente questi tentativi di interpretazione, insistendo sul fatto che non spiegano la globalità delle esperienze di pre-morte. Nella conclusione del suo splendido studio, Melvin Morse scrive: “Le esperienze di pre-morte si presentano come un insieme di eventi, e non se ne può comprendere la globalità esaminandone i singoli elementi. Non si può capire la musica studiando semplicemente le frequenze che formano una nota, e non occorre una profonda conoscenza delle leggi dell’acustica per apprezzare Mozart. Le esperienze di pre-morte restano un mistero”.
E aggiunge: “Credo che la comprensione delle esperienze di pre-morte sia il primo passo per risanare la profonda frattura tra scienza e religione che si è prodotta trecento anni fa con Isaac Newton. Informare i medici, gli infermieri e noi stessi su quanto accade negli ultimi momenti di vita abbatterà i pregiudizi con cui siamo soliti pensare alla medicina e alla vita”. In altre parole, gli sviluppi della tecnologia medica forniscono automaticamente i mezzi per rivoluzionare la medicina. Sempre Melvin Morse scrive: “È un’ironia che sia stata proprio la tecnologia della medicina a portarci a un numero enorme di esperienze di pre-morte… Nel corso dei secoli ci sono sempre state simili esperienze, ma solo da una ventina d’anni disponiamo della tecnologia necessaria per rianimare i pazienti. Oggi ci parlano delle loro esperienze, perciò ascoltiamoli. Personalmente la ritengo una sfida alla nostra cultura… Ritengo che le esperienze di pre-morte siano un naturale fenomeno psicologico associato alla morte. Ho l’audacia di prevedere che la loro integrazione nella nostra cultura non solo aiuterà le persone in punto di morte, ma la società nella sua globalità. Vedo la medicina odierna come svuotata di spirito… Non c’è motivo per cui spirito e tecnologia non possano procedere insieme”.
Uno dei motivi che mi hanno indotto a scrivere questo libro è che condivido la speranza di Melvin Morse. La tecnologia e lo spirito possono e devono procedere insieme, se vogliamo sviluppare tutto il nostro potenziale umano.
Una scienza veramente rivolta all’uomo, veramente utile e completa, non avrà il coraggio di abbracciare ed esplorare il fenomeno della mistica, i fenomeni relativi alla morte e al morire così come vengono presentati dalle esperienze di pre-morte e dalle pagine di questo libro?
Scrive Bruce Greyson, uno dei principali studiosi di esperienze di premorte: “La scienza deve cercare di spiegare le esperienze di pre-morte, perché proprio qui è la chiave per la sua crescita… La storia ci insegna che la scienza sviluppa nuove metodologie solo quando cerca di spiegare fenomeni che sono al di là della nostra comprensione. Credo che le esperienze di pre-morte siano uno degli enigmi capaci di indurre gli scienziati a sviluppare una metodologia nuova che comprenda tutti gli strumenti di conoscenza, non solo la logica deduttiva dell’intelletto e l’osservazione empirica dei fatti fisici, ma anche l’esperienza diretta della mistica”.
Bruce Greyson è convinto che le esperienze di pre-morte abbiano uno scopo: “Basandomi sulla mia lunga osservazione delle esperienze di premorte, credo che servano a insegnarci ad aiutare gli altri”.
Kenneth Ring vi vede una possibilità e un significato ancora più straordinari. Si chiede perché tante persone facciano queste esperienze e arrivino a una trasformazione spirituale proprio nell’epoca attuale. Per anni uno dei più coraggiosi pionieri in questo campo, Kenneth Ring, è giunto a considerare le persone che hanno esperienze di pre-morte come ‘messaggeri di speranza’ che parlano di una realtà spirituale più nobile e più alta e ci invitano a cambiare subito e globalmente il nostro modo di vivere: a mettere fine alle guerre e alle divisioni tra i popoli e le religioni, a proteggere e salvare il nostro ambiente:
Credo… che l’umanità nel suo insieme stia cercando di risvegliarsi a una coscienza nuova e più ampia… e che le esperienze di pre-morte si possano considerare uno strumento evolutivo per indurre questa trasformazione, con gli anni, in milioni di persone.
Può darsi che ciò dipenda da ciascuno di noi, dal nostro coraggio di affrontare le implicazioni delle esperienze di pre-morte e degli insegnamenti del bardo, di trasformare noi stessi per trasformare il mondo che ci circonda e quindi, per passi graduali, il futuro dell’umanità.
Il processo universale
Sono passati quarant’anni dall’invasione del Tibet e il mondo è ancora all’oscuro di ciò che è accaduto; all’oscuro del terrore, della distruzione e del genocidio sistematico che il popolo tibetano ha subito e continua ancora a subire. Più di un milione di persone, su un totale di sei milioni, sono morti per mano dei cinesi. Le foreste tibetane, indispensabili all’ecologia del pianeta al pari di quelle amazzoniche, sono state abbattute, la fauna è stata massacrata nella sua quasi totalità; fiumi e altipiani sono stati contaminati con scorie nucleari; la maggior parte dei seimilacinquecento monasteri è stata sventrata o distrutta; il popolo tibetano rischia l’estinzione, e lo splendore della sua cultura in patria è stato quasi totalmente cancellato.
Sin dall’inizio dell’occupazione cinese, nel 1950, il Tibet subì atrocità terribili. Il primo bersaglio furono i maestri spirituali, i monaci e le monache, perché i comunisti cinesi miravano soprattutto a spezzare lo spirito dei tibetani cancellando ogni traccia della loro religione. Nel corso degli anni ho udito molte, molte storie di morti commoventi e straordinarie che, nelle circostanze più drammatiche, hanno testimoniato e offerto la dimostrazione definitiva della bellezza della verità che i cinesi cercavano furiosamente di distruggere.
Nella mia regione d’origine, la provincia del Kham, c’era un anziano khenpo, un abate, che aveva vissuto molti anni in ritiro tra le montagne. I cinesi annunciarono che sarebbe stato ‘punito’, il che significava la tortura e la morte, e inviarono al suo eremo un distaccamento di soldati per arrestarlo. Il khenpo, molto avanti negli anni, non era in grado di camminare, e i cinesi gli procurarono un vecchio cavallo malandato per il suo ultimo viaggio. Lo misero a forza sul cavallo, lo legarono alla sella e lo trascinarono verso il loro accampamento. Il khenpo incominciò a cantare. I cinesi non capivano le parole, ma i monaci arrestati con lui dissero in seguito che erano ‘canzoni dell’esperienza’, splendidi canti che scaturiscono spontaneamente dalla profondità e dalla gioia della realizzazione. Il drappello scendeva lentamente dalle montagne, i soldati in un grintoso silenzio e molti monaci singhiozzando, ma il khenpo continuò a cantare per tutta la strada.
Poco prima di arrivare al campo interruppe il canto e chiuse gli occhi, e il gruppo proseguì in silenzio. Quando varcarono l’ingresso del campo, si accorsero che il khenpo era morto. Aveva lasciato silenziosamente il corpo.
Che cosa lo rendeva tanto sereno in presenza della morte? Che cosa gli dava, anche in quei momenti, la gioia e la spensieratezza per poter cantare? Forse cantava qualcosa di simile a questi versi della “Immacolata radiosità”, il testamento del maestro Dzogchen del secolo XIV Longchenpa:
In un cielo notturno senza nubi la luna piena il ‘Signore delle stelle’, sta per sorgere.
Il volto di Padmasambhava, il mio compassionevole signore, mi attira a sé irraggiando il suo tenero benvenuto.
Il piacere che ho nella morte è molto, molto più grande
del piacere dei mercanti che ammassano grandi fortune sul mare, o di quello dei signori degli dei che vantano le vittorie in battaglia, o dei saggi che hanno raggiunto l’estasi del perfetto assorbimento.
Come il viaggiatore che si mette per via quando il tempo è giunto non rimarrò ancora in questo mondo e prenderò dimora
nella fortezza della grande beatitudine del senza morte. La mia vita è finita, il karma esaurito, consumato il beneficio delle preghiere, le cose mondane non attirano più, lo spettacolo della vita è finito.
In un istante riconoscerò l’essenza della manifestazione del mio essere nei puri, vasti reami degli stati del bardo. Tra breve sederò al mio posto nella base della perfezione primordiale.
Le ricchezze che ho trovato in me hanno reso felice la mente degli altri, ho usato la benedizione di questa vita per realizzare tutti i benefici dell’isola della liberazione.
Con voi per tutto questo tempo, miei nobili discepoli, la gioia di condividere la verità mi ha colmato e appagato.
Ora le connessioni tra di noi stanno finendo, sono un mendicante girovago che muore così come desidera.
Non siate tristi per me, ma pregate sempre.
Queste parole sono il discorso del mio cuore per aiutarvi: pensatele come una nuvola di boccioli di loto e voi, nella vostra devozione, come api che vi si immergono per suggerne la gioia trascendente.
Tramite il bene di queste parole possano gli esseri di tutti i reami del samsara, nella base della perfezione primordiale, ottenere il Nirvana.
Non c’è dubbio che siano parole di chi ha ottenuto la più alta realizzazione con tutto ciò che comporta: la gioia, l’assenza di paura, la libertà e la comprensione che costituiscono lo scopo degli insegnamenti e della vita umana. Penso a maestri come Longchenpa, e ai miei maestri Jamyang Khyentse, Dudjom Rinpoche e Dilgo Khyentse Rinpoche, e immagino gli esseri che hanno ottenuto le stesse grandi realizzazioni come aquile imponenti che si elevano al di sopra della vita e della morte vedendole per ciò che sono, nella loro misteriosa e complessa interrelazione.
Guardare con gli occhi di un’aquila, con la visione della realizzazione, significa vedere in basso un paesaggio in cui i confini immaginari tra la vita e la morte sfumano l’uno nell’altro e si dissolvono. Il fisico David Bohm descrive la realtà come “un tutto coesivo in costante movimento”. Ciò che i maestri vedono, direttamente e con totale comprensione, è il costante movimento e la totalità coesiva. Ciò che nella nostra ignoranza chiamiamo ‘vita’ e ciò che nella nostra ignoranza chiamiamo ‘morte’, non sono che aspetti di quella totalità e di quel movimento. Questa è l’ampia visione trasformatrice che ci rivelano gli insegnamenti del bardo e che i supremi maestri incarnano.
La rivelazione dei bardo
Vedere la morte attraverso occhi realizzati è vederla nel contesto della globalità, come un aspetto, e solo un aspetto, del movimento senza fine e senza inizio. La peculiarità e la forza degli insegnamenti del bardo sta nel fatto che, spiegandoci con estrema chiarezza il processo della morte, ci svelano il processo della vita nella sua realtà.
Rivediamo cosa accade a una persona che muore, nei tre momenti cruciali del processo:
-
Al culmine del processo del morire, dopo la dissoluzione degli elementi, dei sensi e degli stati mentali, si svela per un istante la natura fondamentale della mente, la Luminosità fondamentale.
-
Quindi la sua radiosità si manifesta e risplende fugacemente in forma di suoni, colori e luce.
-
La coscienza si risveglia ed entra nel bardo del divenire. Ritorna la mente ordinaria e assume una manifestazione (il corpo mentale) determinata dal karma e dalle abitudini passate che la spingono ad afferrarsi alle esperienze illusorie del bardo come se fossero solide e reali.
Che cosa è quindi la morte secondo gli insegnamenti del bardo?
Niente meno che le tre fasi del processo della graduale manifestazione della mente: dallo stato di assoluta purezza della natura essenziale della mente, alla luce e all’energia (la radiosità della natura della mente), fino alla progressiva cristallizzazione in una forma mentale. Ciò che si dispiega con tanta chiarezza nel bardo del morire, nel bardo della dharmata e nel bardo del divenire, indicano gli insegnamenti, è un processo tripartito: primo, un rivelarsi assoluto; secondo, la radiosità spontanea; e terzo, la cristallizzazione e la manifestazione.
Ma gli insegnamenti invitano a spingerci più in là. Ciò che in realtà ci dicono (e la ritengo una scoperta rivoluzionaria che, una volta compresa, cambia tutto il nostro modo di vedere) è che questo processo tripartito non avviene solo con la morte. Sta avvenendo ora, in questo preciso momento, in ogni momento; nella nostra mente, nei pensieri e nelle emozioni, e a ogni livello della nostra esperienza cosciente.
Gli insegnamenti ci offrono un altro modo per capirlo, attraverso l’esame di ciò che si rivela nei vari momenti del processo del morire e della morte. Gli insegnamenti parlano di tre livelli dell’essere chiamati in sanscrito kaya, che significa letteralmente ‘corpo’ ma indica in questo contesto tre dimensioni, tre campi o basi.
Vediamo quindi la tripartizione del processo da questa prospettiva:
-
La natura assoluta, che si rivela al momento della morte nella Luminosità fondamentale, è chiamata Dharmakaya. È la dimensione della realtà ‘vuota’ e incondizionata alla quale non hanno mai avuto accesso né illusione, né ignoranza e né qualunque tipo di concetto.
-
La radiosità intrinseca di luce ed energia che si manifesta spontaneamente nel bardo della dharmata è chiamata Sambhogakaya. È la dimensione del totale appagamento, il campo della perfetta beatitudine, della massima ricchezza al di là delle limitazioni dualistiche, oltre il tempo e lo spazio.
-
La cristallizzazione in una forma, che avviene nel bardo del divenire, è chiamata Nirmanakaya. È la dimensione della manifestazione infinita. Ricorderete che, esaminando la natura della mente, vi trovammo questi tre identici aspetti: la sua essenza vuota, simile al cielo; la sua natura luminosa e radiosa; e la sua energia libera, onnipervasiva e compassionevole, tutte simultaneamente presenti e interpenetrantisi nel Rigpa, che viene descritto così da Padmasambhava:
Nel Rigpa, i tre kaya sono inseparabili e completamente presenti in unicità. Poiché esso è vuoto e assolutamente non creato, è il Dharmakaya; poiché la sua luminosa chiarezza costituisce l’inerente trasparente radiosità della vacuità, è il Sambhogakaya; poiché la sua apparizione è priva di impedimenti e di ostacoli, è il Nirmanakaya.
Questi tre, presenti in totale unicità, ne costituiscono la reale essenza.
I tre kaya indicano infatti questi tre aspetti connaturati alla mente illuminata e le modalità ovviamente diverse della nostra percezione. La visione della maggior parte di noi è limitata e percepisce soltanto la dimensione Nirmanakaya della forma e della manifestazione. Il momento della morte è una lacuna, uno stato di oblio, proprio perché non abbiamo trovato né sviluppato la capacità per riconoscere il Dharmakaya quando si manifesta come Luminosità fondamentale. Per la stessa ragione non abbiamo speranze di riconoscere i campi Sambhogakaya che compaiono nel bardo della dharmata.
Avendo vissuto tutta la vita nel reame delle percezioni impure della manifestazione Nirmanakaya, al momento della morte ritorniamo rapidamente in quella dimensione. Ci risvegliamo, affannati e inconsapevoli, nel bardo del divenire in un corpo mentale, prendendo per solide e reali quelle che sono solo esperienze illusorie, così come facevamo in vita; e ci lasciamo automaticamente sospingere in una nuova rinascita dal karma passato.
Gli esseri realizzati hanno risvegliato invece una percezione totalmente diversa dalla nostra, una percezione purificata ed evoluta a tal punto che, pur dimorando ancora nel corpo umano, percepiscono la realtà in un modo totalmente purificato, nel quale gli si rivela limpidamente in tutta la sua dimensione illimitata. Per loro, come abbiamo visto, la morte non comporta paura né sorprese; anzi viene accolta come un’occasione di liberazione.
Il processo nel sonno
Le tre fasi che abbiamo visto succedersi negli stati di bardo dopo la morte possono essere percepite anche in vita, a livelli particolari di coscienza. Consideriamoli alla luce di quanto accade nel sonno e nel sogno
-
Quando ci addormentiamo vengono meno i sensi e gli strati più grossolani della coscienza, e si rivela per un istante brevissimo la natura assoluta della mente, che anche qui potremmo chiamare Luminosità fondamentale.
-
Quindi si instaura una dimensione di coscienza, paragonabile al bardo della dharmata, talmente sottile che in genere non ne siamo consapevoli. Quanti infatti sono consapevoli di dormire prima che incomincino i sogni?
-
La maggior parte di noi riacquista coscienza nello stadio successivo, quando la mente ridiventa attiva e ci ritroviamo in un mondo di sogni simile al bardo del divenire. Assumiamo un corpo di sogno e attraversiamo varie esperienze oniriche, influenzate e modellate in larga misura dalle abitudini e dalle azioni dello stato di veglia, che crediamo solide e reali senza sapere che stiamo sognando.
Il processo nei pensieri e nelle emozioni
Lo stesso identico processo è riconoscibile nei pensieri e nelle emozioni, e nel modo in cui sorgono.
-
Prima di ogni pensiero o emozione c’è lo stato primordiale di Rigpa, la Luminosità fondamentale, la natura assoluta della mente.
-
Entro il suo spazio incondizionato s’increspa un’energia basilare, la radiosità spontanea del Rigpa, che inizia a prodursi come base, potenziale e carburante dell’emotività non ancora differenziata.
-
Questa energia assume la forma di pensieri e di emozioni che, a loro volta, ci spingono all’azione e causano l’accumulo di karma.
Acquisendo familiarità con la meditazione, possiamo discernere il processo con lampante chiarezza:
-
Mentre i pensieri e le emozioni a poco a poco si placano e si dissolvono nella natura della mente, possiamo gettare un’occhiata fugace su di essa: è il Rigpa, lo stato primordiale.
-
Diventiamo consapevoli che, dalla calma e dall’immobilità della natura della mente, si dispiega un movimento, un’energia non differenziata: è la sua radiosità spontanea.
-
Se il sorgere di quell’energia viene afferrato, si cristallizza inevitabilmente in forme-pensiero che ci fanno ricadere nell’attività elucubrativa e concettuale.
Il processo nella vita di tutti i giorni
Dopo aver visto come agisce questo processo nel sonno e nel sogno, e nella stessa formazione dei pensieri e delle emozioni, osserviamolo al lavoro nell’esperienza della vita di tutti i giorni.
Il modo migliore è di esaminare da vicino un moto di gioia o di rabbia. Guardando accuratamente vediamo che c’è sempre uno spazio, un intervallo prima che l’emozione inizi a manifestarsi. Questo momento gravido di possibilità, prima che l’energia dell’emozione abbia la possibilità di manifestarsi, può rivelarsi un momento di pura consapevolezza originaria in cui, volendo, possiamo cogliere un barlume della vera natura della mente. Per un istante, l’incantesimo dell’ignoranza è spezzato. Siamo liberi dal bisogno o dalla possibilità stessa di afferrarci a qualcosa, e persino l’idea di ‘afferrarci’ diventa ridicola e assurda. Purtroppo, invece di accogliere la ‘vacuità’ di quell’intervallo, in cui potremmo trovare la gioia di essere liberi e sciolti da ogni idea, concetto o punto di riferimento, ci afferriamo alla dubbia sicurezza della familiare e rassicurante commedia delle nostre emozioni, ci lasciamo guidare dalle abitudini più radicate. In questo modo, l’energia intrinsecamente incondizionata che si produce dalla natura della mente si cristallizza in una forma definita, in un’emozione, e la sua purezza originaria viene colorata e distorta dalla nostra visione samsarica divenendo una fonte continua di distrazioni e illusioni.
Esaminando, come ho indicato, ogni aspetto della vita, scopriamo che riproduciamo ogni volta la sequenza degli stati del bardo, nel sonno e nel sogno, nei pensieri e nelle emozioni. Gli insegnamenti ci rivelano che proprio questo fatto (che attraversiamo più e più volte gli stati del bardo, tanto in vita come nella morte e nei vari livelli di coscienza) ci offre innumerevoli opportunità, ora e al momento della morte, di liberarci. Gli insegnamenti rivelano che la struttura stessa del processo può essere una possibilità di liberazione o il potenziale per continuare nella confusione. Ogni stadio del processo è nello stesso tempo un’occasione di liberazione o un’occasione di confusione.
Gli insegnamenti del bardo ci spalancano una porta, facendoci vedere come uscire dal ciclo incontrollato della morte e della rinascita, dalla ruota ripetitiva dell’ignoranza che gira una vita dopo l’altra. Ci spiegano che, in ogni momento dei bardo della vita e della morte, se riusciamo a riconoscere e mantenere una stabile consapevolezza della natura della mente, del Rigpa, o anche solo se sviluppiamo un certo controllo sulla mente, possiamo varcare la porta della liberazione. Il riconoscimento sarà diverso in dipendenza della fase del bardo in cui viene applicato, dal grado di familiarità con la natura della mente e dalla profondità di comprensione dei pensieri, delle emozioni e della mente stessa.
Gli insegnamenti del bardo ci dicono inoltre che ciò che avviene ora nella nostra mente è esattamente uguale a quello che avverrà negli stadi della morte, poiché essenzialmente non vi è differenza: vita e morte sono ‘un tutto coesivo in costante movimento’. Ecco perché uno dei maestri più realizzati del XVII secolo, Tsele Natsok Rangdrol, spiega la pratica essenziale in ciascuno dei bardo (di questa vita, del morire, della dharmata e del divenire) in termini della nostra attuale comprensione della natura dei pensieri e delle emozioni, della mente e delle percezioni:
Riconoscete l’infinita varietà delle apparenze come un sogno nient’altro che proiezioni della mente, illusorie e irreali.
Senza afferrarvi a niente, dimorate nella saggezza del Rigpa che trascende ogni concetto: ecco la pratica fondamentale del bardo di questa vita.
Presto morirete, e nulla allora vi sarà più d’aiuto Ciò che sperimenterete nella morte è solo il vostro pensiero concettuale.
Senza costruire pensieri, lasciateli dissolvere nell’ampia distesa dell’autoconsapevolezza del Rigpa:
ecco la pratica fondamentale del bardo del morire.
Ciò che si afferra ad apparizione e scomparsa considerandoli bene o male, è solo la vostra mente.
E questa mente stessa è la spontanea radiosità del Dharmakaya, appunto tutto ciò che sorge.
Non afferratevi a ciò che sorge, non costruitevi sopra dei concetti, non accettatelo e non rifiutatelo:
ecco la pratica fondamentale del bardo della dharmata.
Il samsara è la vostra mente, e anche il nirvana è la vostra mente. Tutte le gioie e i dolori, tutte le illusioni sono soltanto nella vostra mente.
Raggiungere il controllo della mente:
ecco la pratica fondamentale del bardo del divenire.
Ora siamo pronti per esaminare un bardo specifico più in profondità, vedendo come la nostra pratica meditativa, la comprensione dei pensieri e delle emozioni, e tutte le esperienze relative a quel bardo siano inestricabilmente interconnesse e si riflettano nella vita di tutti i giorni. Forse il bardo più adatto è quello della dharmata, dove la pura energia, che si trasformerà in seguito in emozioni, emerge spontaneamente come radiosità intrinseca alla natura della mente. Questo perché le emozioni sono l’interesse principale, quasi ossessivo, dell’umanità di quest’epoca. Comprendere la natura delle emozioni equivale a progredire di molto sulla via della liberazione
Lo scopo principale della meditazione è sviluppare la capacità di rimanere, senza distrarsi, nello stato del Rigpa e di realizzare, mediante questa Visione, che tutto ciò che sorge nella mente non è altro che la manifestazione dello stesso Rigpa, come il sole e i suoi raggi sono un fenomeno unico e indivisibile. Come abbiamo letto nei versi di Tsele Natsok Rangdrol sul bardo della dharmata: “Ciò che si afferra ad apparizione e scomparsa considerandoli bene o male, è solo la vostra mente. E questa mente stessa è la spontanea radiosità del Dharmakaya”.
Quando siete nello stato di Rigpa e nascono pensieri ed emozioni, riconosceteli precisamente per quello che sono e da dove scaturiscono. Tutto ciò che si presenta diviene la radiosità spontanea di quella saggezza. Se perdete la presenza della pura consapevolezza originaria del Rigpa, e non riuscite a riconoscere tutto ciò che sorge, questo diventerà separato da voi e andrà a formare ciò che chiamiamo ‘pensieri’ o ’emozioni’. Questo è il processo di creazione della dualità. Per evitarlo, e per evitare le sue conseguenze, Tsele Natsok Rangdrol dice: “Non afferratevi a ciò che sorge, non concettualizzatelo, non accettatelo e non rifiutatelo: ecco la pratica fondamentale del bardo della dharmata”.
Tale separazione tra voi e ciò che si produce nella vostra mente, e il dualismo che instaura, viene spettacolarmente amplificata nella morte. Questo spiega perché, se non c’è il riconoscimento della vera natura di ciò che sorge nella mente, i suoni, le luci e i raggi che si manifestano nel bardo della dharmata possono assumere la realtà oggettiva di sconcertanti fenomeni esterni che stanno accadendo a voi. In questa situazione, che altro potremmo fare se non fuggire dall’abbagliante splendore delle divinità pacifiche e irate per correre verso la luminescenza tenue, rassicurante e familiare dei sei reami?
Il riconoscimento cruciale nel bardo della dharmata è che tutto ciò che appare è il sorgere dell’energia di saggezza della vostra mente: i Buddha e le luci di saggezza non sono in alcun modo separati da voi, sono la vostra stessa energia di saggezza. Comprenderlo equivale a esperire la non dualità, ed entrarvi è la liberazione.
Le manifestazioni del bardo della dharmata dopo la morte e il sorgere di un’emozione nella vita quotidiana, sono un unico processo naturale. Il problema è se ne riconosciamo o no la vera natura. Se siamo in grado di riconoscere il sorgere di un’emozione per ciò che è davvero, cioè energia spontanea della natura della nostra mente, possiamo liberarci dagli effetti negativi e dai possibili pericoli dell’emozione, lasciando che si dissolva nella purezza primordiale dell’ampia distesa del Rigpa.
Questo riconoscimento, e la libertà che porta con sé, può essere solo il frutto di molti, molti anni di disciplinata pratica meditativa, perché richiede una lunga familiarità con il Rigpa, la natura della mente, e la sua stabilizzazione. Nient’altro è in grado di darci quella libertà calma e serena dalle nostre abitudini radicate e dai conflitti emotivi che tanto desideriamo. Anche se gli insegnamenti ci dicono che è una libertà difficile da ottenere, la sua sola possibilità è un’immensa sorgente di speranza e di ispirazione. È possibile comprendere totalmente i pensieri e le emozioni la mente e la sua natura, la vita e la morte; raggiungendo cioè la realizzazione. Come ho già detto, gli illuminati vedono la vita e la morte come se le avessero sul palmo della mano. Sanno infatti, come si esprime Tsele Natsok Rangdrol che: “Il samsara è la vostra mente, e anche il nirvana è la vostra mente. Tutte le gioie e i dolori, tutte le illusioni sono soltanto nella vostra mente”. Questa limpida comprensione, resa stabile dalla pratica intensa e integrata in ogni situazione, ogni pensiero, ogni emozione della loro realtà relativa, li ha resi liberi. Dudjom Rinpoche diceva: “Purificata la grande illusione, la tenebra del cuore, la fulgida luce del sole splende continuamente non offuscata”.
Fonte: Il libro tibetano del vivere e del morire. http://www.esonet.org/wp-content/uploads/2013/05/136069562-Il-Libro-Tibetano-del-Vivere-e-del-Morire-Sogyal-Rinpoche.pdf