Sogyal Rinpoche: Integrazione, la meditazione in azione. Ispirazione. Evoluzione, karma e rinascita. Alcune prove indicative della rinascita. La continuità della mente. Il karma. La creatività. La responsabilità. Le reincarnazioni in Tibet. I bardo e altre realtà. Incertezza e opportunità. Altre realtà. Vita e morte nel palmo della mano. Questa vita: il bardo naturale. La visione karmica. I sei reami. Le porte della percezione. La saggezza del non io. L’io sul sentiero spirituale. La guida saggia. I tre strumenti della saggezza. Dubbi sul sentiero.
Integrazione: la meditazione in azione
Mi sono reso conto che i praticanti spirituali moderni non sanno come integrare la pratica della meditazione con la vita quotidiana. Non lo ripeterò mai abbastanza: integrare meditazione e azione è la base, il punto e lo scopo della meditazione. È la violenza, lo stress, le richieste e le distrazioni della vita moderna rendono la necessità dell’integrazione ancora più urgente. Sento molti lamentarsi: “Medito da dodici anni ma non mi sembra di essere cambiato. Sono ancora lo stesso. Come mai?”. Perché c’è un baratro tra la loro pratica spirituale e la vita quotidiana. È come se vivessero in due mondi diversi, che non si ispirano a vicenda. Ricordo un insegnante dei miei anni scolastici in Tibet. Conosceva a menadito le regole grammaticali della lingua tibetana, ma non era in grado di scrivere una frase senza errori!
Come arrivare a questa integrazione, a permeare la vita quotidiana con il calmo umorismo e lo spazioso distacco della meditazione? La cosa essenziale è la pratica regolare, perché solo con una vera pratica incominceremo a gustare in modo continuativo la pace della nostra natura della mente, così da poterne mantenere l’esperienza nella vita quotidiana.
Dico sempre ai miei studenti di non uscire dalla meditazione troppo in fretta. Concedetevi qualche minuto perché la pace sperimentata nella seduta si infiltri nella vita. Come si esprimeva il mio maestro Dudjom Rinpoche: “Non balzate su e non correte via, ma mescolate la presenza mentale alla vita quotidiana. Comportatevi come un uomo che si è fratturato la testa, attentissimo a non farsi urtare da nessuno”.
Terminata la seduta, è importante non arrendersi immediatamente alla tendenza a solidificare il nostro modo di percepire le cose. Ritornando alle faccende quotidiane lasciate che la saggezza, la comprensione, la compassione, l’umorismo, la fluidità, la spaziosità e il senso di distacco portati dalla meditazione pervadano la vostra quotidianità. La meditazione risveglia la comprensione che la natura di ogni cosa è illusoria e simile a un sogno: mantenetela anche nel folto del samsara. Un grande maestro diceva: “Dopo la meditazione, bisogna diventare un figlio dell’illusione”.
Dudjom Rinpoche dava questo consiglio: “Sì, tutto è illusorio e simile a un sogno, ma anche così continuate a fare le cose con umorismo. Ad esempio: mentre camminate, camminate spensierati, senza impaccio o inutili solennità, verso lo spazio aperto della verità. Quando sedete, siate la roccaforte della verità. Mangiando, nutrite le vostre negatività e le vostri illusioni nella pancia della vacuità, dissolvendole nello spazio che abbraccia tutto. Quando andate al gabinetto, immaginate di liberarvi e sciacquar via tutti gli offuscamenti e i blocchi”.
Ciò che importa davvero non è tanto stare seduti quanto lo stato mentale che vi ritrovate dopo la seduta. È questo stato mentale calmo e centrato che dovete prolungare in tutto ciò che fate. C’è una storia zen che mi piace molto. Un discepolo chiede:
“Maestro, come riporti l’illuminazione nell’azione? Come pratichi nella vita quotidiana?”.
“Mangio e dormo”, rispose il maestro.
“Ma, maestro, tutti mangiano e dormono!”.
“Sì, ma non tutti mangiano quando mangiano e dormono quando dormono”.
Di qui viene il famoso detto zen: “Quando mangio, mangio; quando dormo, dormo”.
Mangiare quando mangiate e dormire quando dormite significa essere perfettamente presenti alle vostre azioni, senza che nessuna delle distrazioni prodotte dall’io vi impedisca di esserci. Questa è integrazione. Se davvero la volete, non dovete prendere la pratica solo di tanto in tanto come una medicina o una terapia, ma come se fosse il vostro sostentamento, il vostro cibo quotidiano. Ecco perché un modo eccellente per sviluppare l’integrazione è lavorarvi nell’ambito di un ritiro, lontani dal caos della vita cittadina. Troppo spesso molti si accostano alla meditazione attendendosi risultati straordinari: visioni, luci o miracoli sovrannaturali. Quando niente di tutto ciò accade, si sentono defraudati. Il vero miracolo della meditazione è più ordinario, e molto più utile. È una sottile trasformazione, non solo nella mente e nelle emozioni ma nello stesso corpo. È una guarigione. Medici e scienziati hanno constatato che se siete di buon umore tutte le cellule del corpo sono più gioiose, se invece siete immersi nella negatività le cellule possono diventare maligne. La salute è strettamente connessa con lo stato mentale e il modo di essere.
ISPIRAZIONE
Ho detto che la meditazione è la strada verso l’illuminazione e l’impegno più grande di questa vita. Ogni volta che parlo di meditazione ai miei studenti sottolineo la necessità di praticarla con ferma disciplina e devozione totale. Nello stesso tempo insisto sull’importanza di renderla il più possibile ispirata e ricca di creatività. In un certo senso la meditazione è un’arte, e dovete viverla con il fremito e la fertile inventiva dell’artista.
Mettetevi alla ricerca della pace con la stessa abilità con cui siete diventati nevrotici e competitivi. Ci sono molti modi per rendere gioioso l’approccio alla meditazione. Potete usare la vostra musica preferita per aprire il cuore e la mente. Potete raccogliere versi, citazioni o frammenti di insegnamenti che vi hanno colpito e tenerli a portata di mano per elevare il vostro spirito. A me sono sempre piaciute le thangka (pitture) tibetane, e traggo forza dalla loro bellezza. Cercate anche voi delle riproduzioni di quadri che evocano un senso di sacralità, e appendetele nella vostra stanza.
Ascoltate una cassetta di insegnamenti di un maestro, o di canti sacri. Potete trasformare il luogo in cui meditate in un paradiso molto semplice: con un fiore, un bastoncino d’incenso, una candela, una fotografia di un maestro illuminato, la statua di una divinità o di un buddha. Potete trasformare l’ambiente più ordinario in uno spazio intimo e sacro, dove venite ogni giorno a incontrare il vostro vero sé con la gioia e il lieto scambio di saluti di due vecchi amici che si ritrovano.
Se la meditazione ha difficoltà a prodursi nella vostra casa di città, siate inventivi, uscite nella natura. La natura è un’infallibile fonte di ispirazione. Calmate la mente facendo una passeggiata all’alba nel parco o contemplando la rugiada su una rosa in giardino. Stendetevi a terra, guardate il cielo sopra di voi e lasciate che la mente si espanda in quell’immensità. Lasciate che il cielo esterno risvegli il cielo interno della vostra mente.
Sedetevi sulla riva di un ruscello e fondete la vostra mente con la corrente, diventate uno con il rumore incessante dell’acqua. Sedete vicino a una cascata e lasciate che la sua risata risanante purifichi il vostro spirito.
Passeggiate sulla spiaggia con il vento che vi accarezza dolcemente il viso. Onorate la luce della luna e usatela per calmare la vostra mente. Sedete sulla sponda di un lago o in un giardino e, respirando tranquillamente, lasciate che la mente diventi silenziosa mentre la luna si leva lenta e maestosa nella notte senza nuvole.
Tutto può essere usato come invito alla meditazione. Un sorriso, un volto nella metropolitana, un piccolo fiore che spunta da una crepa nel marciapiede, una cascata di splendidi vestiti in una vetrina, il sole che illumina un vaso di fiori sul davanzale. Siate attenti a ogni segno di bellezza e di grazia.
Trasformate in offerta ogni istante di gioia, siate svegli in ogni momento “all’ininterrotto messaggio che dal silenzio si crea”.
A poco a poco diventerete padroni della vostra beatitudine, alchimisti della vostra gioia; avrete sotto mano ogni sorta di rimedi per elevare, allietare, illuminare e ispirare ogni respiro, ogni movimento. Chi è il grande praticante spirituale? Una persona che vive ininterrottamente alla presenza del suo vero sé, una persona che ha scoperto e che usa ininterrottamente le fonti della profonda ispirazione. Come scrive un autore inglese contemporaneo, Lewis Thompson: “Cristo, poeta insuperabile, visse la verità con tale passione che ogni suo gesto, a un tempo puro atto e perfetto simbolo, incarna il trascendente”.
Noi siamo qui proprio per incarnare il trascendente.
Evoluzione, karma e rinascita
Si tramanda che il Buddha, nella notte memorabile dell’illuminazione, attraversasse diversi livelli di risveglio. Nel primo, con mente “raccolta e purificata, senza macchia, libera da contaminazioni, resa morbida, duttile, centrata e imperturbabile”, rivolse l’attenzione al ricordo delle vite precedenti. Così descrive la sua esperienza:
Mi ricordai di molte diverse anteriori forme di esistenza, come di una vita, poi di due vite, poi di tre vite, poi di quattro vite, poi di cinque vite… dieci… cinquanta… cento… centomila, poi delle epoche durante diverse formazioni… e trasformazioni di mondi: ‘Là ero io, con tale nome, di tale gente, in tale stato, in tale ufficio, tale bene e male provando, in tale modo finendo la vita; di là trapassato, entrai di nuovo altrove in esistenza… di qua trapassato entrai io qui di nuovo in esistenza’. Così mi ricordai di molte diverse anteriori forme di esistenza, ognuna con i suoi caratteri, con i suoi distintivi… Questa conoscenza… era stata da me nella prima vigilia della notte… raggiunta.
Sin dall’alba della storia, la reincarnazione e la certezza nella vita dopo la morte hanno occupato un ruolo centrale in quasi tutte le religioni. La fede nella rinascita era conosciuta nei primi secoli del Cristianesimo e sopravviveva ancora in forme diverse in pieno Medio Evo. Origene, uno dei più autorevoli Padri della Chiesa, credeva nella “preesistenza delle anime” e nel III secolo scrisse: “Ogni anima viene in questo mondo rafforzata dalle vittorie o indebolita dalle sconfitte delle sue vite precedenti”. Anche se il Cristianesimo rifiutò in seguito la credenza nella reincarnazione, se ne trovano tracce nel Rinascimento, nei maggiori poeti romantici inglesi come Blake e Shelley, e abbastanza imprevedibilmente in Balzac. Sin dalla nascita dell’interesse per le religioni orientali, che risale alla fine del secolo scorso, un numero considerevole di occidentali ha accettato la dottrina induista e buddhista della rinascita. Il grande industriale e filantropo americano Henry Ford, scrive: Accettai la teoria della reincarnazione a ventisei anni. La religione non mi dava informazioni su questo punto. Neppure il lavoro era in grado di soddisfarmi completamente, perché il lavoro è inutile se non possiamo usare l’esperienza fatta in questa vita nella prossima. Quando scoprii la reincarnazione… il tempo non fu più limitato. Non fui più uno schiavo in balia dell’orologio… Vorrei comunicare agli altri la serenità che ci dà una visione più ampia della vita.
Un’indagine Gallup del 1982 rivelò che quasi un americano su quattro crede nella reincarnazione. È una percentuale sorprendente, se si considera il predominio della mentalità scientifica e materialista in quasi tutti gli aspetti della vita.
Eppure quasi tutti hanno ancora un’idea molto vaga della vita dopo la morte, e nessun’idea di come potrebbe essere. Quante persone mi hanno detto di non riuscire a credere in qualcosa di cui non ci sono prove! Ma questa è forse una prova della sua inesistenza? Come dice Voltaire: “Dopo tutto, non è più sorprendente nascere due volte che una volta sola”.
Mi chiedono anche: “Se siamo già vissuti, perché non lo ricordiamo?”. Ma perché il fatto di non ricordarlo dovrebbe significare che non siamo già vissuti? Pensate a com’erano vivide le esperienze dell’infanzia, del giorno prima o di un’ora fa nel momento in cui le vivevamo, e come ora il loro ricordo è quasi scomparso, come se non fossero mai accadute. Se non riusciamo a ricordare che cosa abbiamo fatto o pensato lunedì scorso, perché mai pretendere che sia una cosa facile, normale, ricordare ciò che abbiamo fatto in una vita precedente?
A volte, per provocare, rispondo: “Che cosa vi rende così sicuri che non ci sia una vita dopo la morte? Quali prove avete? Cosa accadrebbe se scopriste che c’è una vita dopo questa quando siete morti negandone l’esistenza? Che cosa fareste? Non vi state forse creando dei limiti con la convinzione che non esiste? Non è più sensato concedere all’ipotesi di un’altra vita il beneficio del dubbio, o almeno essere aperti alla possibilità, anche se non abbiamo nessuna ‘prova concreta’? E quale potrebbe essere la prova concreta della vita dopo la morte?”.
Poi invito a domandarsi: perché allora tutte le religioni credono in un’altra vita? Perché, nel corso dei secoli, centinaia di milioni di persone inclusi i maggiori filosofi, saggi e menti geniali dell’Asia, hanno fatto di questa fede un punto centrale della loro vita? Si sono ingannati tutti quanti?
Torniamo al problema della prova concreta. Il fatto di non aver mai sentito parlare del Tibet, o di non esserci stati, non significa che il Tibet non esiste. Prima della ‘scoperta’ dell’America, quanti europei sapevano della sua esistenza? La scoperta stessa fu a lungo messa in dubbio. Io credo che la nostra visione della vita, drammaticamente limitata, ci impedisca di accettare e di incominciare a riflettere seriamente sulla possibilità della rinascita.
Per fortuna, la cosa non finisce qui. Chi si avvia per un sentiero spirituale, ad esempio quello della meditazione, incomincia a scoprire aspetti della mente che prima non sospettava. Più la mente si apre alla sua natura straordinaria, vasta e finora insospettata, più incominciamo a cogliere una dimensione completamente diversa. Tutte le certezze sulla nostra identità e sulla nostra realtà iniziano a dissolversi, e la possibilità di altre vite oltre a questa diventa a dir poco probabile. Incominciamo a capire che tutto ciò che i maestri insegnano sulla vita e sulla morte, e sulla vita dopo la morte, è vero.
Alcune prove indicative della rinascita
C’è ormai un’ampia letteratura sulle testimonianze di persone che asseriscono di ricordare le vite precedenti. Se siete interessati a farvi una seria idea della rinascita, vi suggerisco di leggere questi libri con mente aperta ma critica.
Tra centinaia di casi di reincarnazione, uno soprattutto mi affascina. Il protagonista è un anziano signore del Norfolk, in Inghilterra, di nome Arthur Flowerdew, che dall’età di dodici anni scoprì di avere ricordi inspiegabili eppure vividi di una grande città nel deserto. Un’immagine ricorrente era quella di un tempio che sembrava tagliato nella roccia. Queste strane immagini gli ritornavano di continuo, specialmente mentre giocava sulla spiaggia vicino a casa con dei ciottoli rosa e arancioni. Crescendo, i particolari della città si fecero più precisi: poteva vedere gli edifici, le strade, dei soldati e l’accesso alla città attraverso una stretta gola.
Molti anni dopo, Arthur Flowerdew vide per caso alla televisione un documentario sull’antica città di Petra, in Giordania. Stupefatto, si trovò di fronte alla città che aveva avuto in mente per tanti anni. In seguito dichiarò che non aveva mai visto un libro su Petra. La sua esperienza divenne nota e una sua intervista della BBC destò l’interesse del governo giordano, che gli offrì un viaggio a Petra con una troupe della BBC per filmare le sue reazioni. Prima di allora, l’unico suo viaggio all’estero era stato in Francia. Prima di partire, Arthur Flowerdew venne messo in contatto con il massimo esperto mondiale e autore di un libro sull’antica città di Petra, che lo interrogò a fondo e fu sconcertato dall’esattezza delle risposte, che denotavano conoscenze possibili solo in un archeologo specializzato in quell’area. La BBC registrò una descrizione di Petra fatta da Flowerdew prima del viaggio, in modo da poterla confrontare con la realtà. Flowerdew si soffermò su tre particolari: una curiosa roccia a forma di vulcano nelle immediate vicinanze della città, un piccolo tempio in cui credeva di essere stato ucciso nel primo secolo a. C., e una strana costruzione ben nota agli archeologi, ma di cui non era stato identificato l’uso. L’esperto di Petra non conosceva una roccia come quella descritta, e dubitava della sua esistenza.
Per quanto riguarda il tempio, quando gli sottopose una fotografia dell’area, Flowerdew lo sorprese indicando il punto esatto in cui sorgeva. Quindi passò tranquillamente a descrivere l’uso della costruzione, a cui nessuno aveva pensato: ospitava il corpo di guardia di cui era stato soldato duemila anni prima. Un numero sorprendente di informazioni si rivelarono esatte. Mentre la spedizione si avvicinava a Petra, Flowerdew indicò la roccia di forma strana. Entrati nella città, si diresse senza esitazione e senza controllare la mappa verso l’edificio del corpo di guardia, e parlò diffusamente di come venivano esercitati i controlli. Poi si diresse al luogo in cui asseriva di essere stato ucciso da una lancia nemica nel primo secolo a. C. Indicò anche dove sorgevano altre costruzioni non ancora riportate alla luce, e il loro uso.
L’esperto e archeologo di Petra che accompagnava Flowerdew non riusciva a spiegarsi la sbalorditiva conoscenza della città da parte di quell’inglese qualunque. Disse:
Conosce una quantità di particolari, molti dei quali collimano con le scoperte archeologiche e le vicende storiche. Ci vorrebbe una mente molto diversa dalla sua per sostenere una rete di menzogne corrispondenti a quelli che asserisce essere i suoi ricordi, almeno per quelli che mi ha riferito. Non lo credo un imbroglione, e non lo credo capace di una frode di queste dimensioni.
C’è un’altra spiegazione alla straordinaria esperienza di Arthur Flowerdew, se non la rinascita? Potreste obiettare che avrebbe potuto leggere una quantità di libri su Petra o che forse riceveva una comunicazione telepatica, ma resta il fatto che molte sue informazioni erano sconosciute agli stessi esperti.
Ci sono poi casi affascinanti di bambini che ricordano spontaneamente i particolari di una vita precedente. Ian Stevenson, dell’Università della Virginia, ne ha raccolti molti. Un caso sorprendente fu portato all’attenzione del Dalai Lama, che inviò una commissione a interrogare la bambina in questione.
La bambina si chiamava Kamaljit Kour, ed era la figlia di un maestro di scuola di religione Sikh del Punjab, in India. Un giorno si stava recando con il padre alla fiera di un villaggio vicino, quando improvvisamente lo pregò di portarla in un altro villaggio a una certa distanza dal primo. Alla richiesta di spiegazioni del padre, Kamaljit rispose: “Non ho niente da fare qui, non è casa mia. Portami all’altro villaggio. Stavo andando in bicicletta con un compagno di scuola quando un autobus ci ha investiti. Il mio compagno morì sul colpo. Io venni ferita alla testa, alle orecchie e al naso. Mi soccorsero e mi stesero su una panchina davanti al palazzo di giustizia. Poi mi portarono all’ospedale. Perdevo molto sangue. Arrivarono i miei genitori e i parenti, e dato che all’ospedale non potevano curarmi decisero di portarmi ad Ambala. Quando i dottori dissero che non c’era niente da fare, chiesi ai miei genitori di portarmi a casa”. Il padre era sbalordito ma, dietro le insistenze della figlia, la condusse nel villaggio dove voleva andare. Pensava a un capriccio infantile.
Kamaljit riconobbe subito il villaggio e indicò il punto dov’era stata investita. Salirono su un risciò, e la bambina indicò la strada al conducente. Fece fermare quando arrivarono al gruppo di case in cui dichiarava di essere vissuta. La bambina e il padre stupefatto si diressero verso una casa e il padre, ancora incredulo, chiese ai vicini se c’era una famiglia così e cosà, a cui era morta una bambina. I vicini confermarono. Aggiunsero che la ragazza si chiamava Rishma e aveva sedici anni. Era morta mentre la riportavano a casa dall’ospedale, in macchina.
Il padre era molto scosso e voleva tornare indietro. Ma Kamaljit entrò con decisione nella casa, chiese di vedere la fotografia scolastica di Rishma e la osservò compiaciuta. Arrivarono il nonno e gli zii di Rishma. Kamaljit li riconobbe uno per uno e li chiamò per nome. Indicò quella che era la sua stanza, e fece vedere al padre tutta la casa. Poi chiese i suoi libri di scuola, i suoi due braccialetti d’argento, i suoi due nastrini e il nuovo vestito marrone. La zia confermò che erano tutte cose appartenute a Rishma.
Poi Kamaljit li condusse a casa dello zio, dove identificò altri oggetti. Il giorno dopo fece visita a tutti i parenti di Rishma e, quando arrivò l’autobus che li avrebbe riportati a casa, si rifiutò di partire dicendo che voleva restare. Suo padre infine la convinse a partire.
La famiglia incominciò a ricostruire la storia. Kamaljit Kour era nata dieci mesi dopo la morte di Rishma. Non aveva ancora incominciato la scuola ma spesso fingeva di leggere, e identificò tutti i suoi compagni nella foto scolastica di Rishma. Kamaljit aveva sempre chiesto abiti marroni, e i genitori scoprirono che a Rishma era stato regalato un vestito marrone di cui era molto orgogliosa, ma che non aveva avuto il tempo di indossare. L’ultima cosa che Kamaljit ricordava della sua vita precedente erano i fari dell’automobile che la portava a casa dall’ospedale. Probabilmente morì in quel momento.
Posso immaginare molti modi per togliere credito a questa storia. Potreste pensare che la famiglia di Kamaljit l’aveva spinta a dichiarare di essere la reincarnazione di Rishma per ragioni che non conosciamo. I familiari di Rishma erano sì ricchi agricoltori, ma anche i genitori di Kamaljit non erano poveri: la loro casa era tra le più belle del villaggio, con un cortile e un giardino. Ciò che incuriosisce, in tutta la storia, è che la famiglia di Kamaljit si sentiva a disagio per la faccenda e si preoccupava di ‘che cosa penseranno i vicini’. Ma ancora più significativo è il fatto che i parenti di Rishma, pur non conoscendo molto bene la loro religione e non sapendo neppure se la reincarnazione è accettata o no dai Sikh, erano convinti al di là di ogni dubbio che Kamaljit Kour fosse la loro Rishma.
A chi vuole studiare seriamente la possibilità della vita dopo la morte, suggerisco di leggere le testimonianze molto toccanti delle esperienze di pre-morte. Un numero impressionante di persone è uscito da queste esperienze con la certezza che la vita continua dopo la morte. Molti non avevano nessuna fede religiosa, né alcuna esperienza spirituale.
Ora, alla fine della mia vita, sono profondamente certo che c’è una vita dopo la morte, senz’ombra di dubbio, e non ho paura di morire. Affatto. Conosco persone che hanno così paura, ne sono così atterrite. Sorrido sempre tra me e me quando sento dubitare di una vita futura, o quando dicono: “Quando sei morto, sei finito”. E penso: “Non sanno”.
Quella che mi accadde fu l’esperienza più strana che abbia mai provato. Mi ha fatto capire che c’è una vita dopo la morte.
So che c’è una vita dopo la morte! Nessuno può scuotere la mia certezza. Non ho dubbi: c’è pace, e niente da temere. Non so cosa c’è al di là della mia esperienza, ma per me è stata sufficiente
Mi ha fornito la risposta a ciò che penso che tutti, prima o poi, si chiedano. Sì, c’è un’altra vita! Più bella di quanto possiamo immaginare Quando lo sapete, non si possono fare paragoni. Lo sapete e basta.
Gli studi rivelano che chi ha fatto un’esperienza di pre-morte è più aperto e incline ad accettare la reincarnazione.
E lo stupefacente talento per la musica o la matematica dimostrato da certi bambini prodigio, non sarà da attribuirsi alle capacità acquisite in altre vite? Pensate a Mozart, che componeva minuetti a cinque anni e sonate a otto! Se esiste un’altra vita, perché è così difficile ricordarla? Nel mito di Er, Platone dà una ‘spiegazione’ di questo vuoto di memoria. Era un soldato raccolto come morto dal campo di battaglia, che sperimentò una specie di esperienza di pre-morte. Mentre era ‘morto’ vide varie cose, e fu riportato in vita per “descrivere agli uomini il mondo dell’al di là”. Quelli che si preparavano a rinascere erano raccolti nella Pianura dell’Oblio, una piana arida, spoglia di alberi e piante, e dalla calura tremenda. “Al calare della sera” racconta Platone, “essi si accampavano sulla sponda del fiume Amelete [il fiume della dimenticanza], la cui acqua non può essere contenuta da vaso alcuno. E tutti erano obbligati a berne una certa misura, ma chi non era frenato dall’intelligenza ne beveva di più… Via via che uno beveva, si scordava di tutto”. Er, a cui fu vietato di bere, si risvegliò sulla pira funebre con il ricordo di tutto quello che aveva visto e udito.
C’è allora una legge universale che ci impedisce di ricordare dove e come abbiamo vissuto? O è forse la mole, la vastità e l’intensità delle esperienze che ha finito per cancellare ogni traccia delle esistenze passate? E quanto ci sarebbe utile, mi chiedo spesso, poterle ricordare? Chissà se non finirebbe per confonderci ancora di più…
LA CONTINUITA’ DELLA MENTE
Il principale argomento che il Buddhismo porta a ‘prova’ della rinascita si basa su una profonda conoscenza della continuità della mente. Da dove viene la coscienza? Non può certo nascere dal nulla. Un momento di coscienza non si può produrre senza il momento di coscienza immediatamente precedente. Il Dalai Lama spiega così questa complessa dinamica:
“La base su cui i buddisti accettano la rinascita è principalmente la continuità della coscienza. Prendiamo un esempio dal mondo materiale: noi riteniamo che tutti gli elementi che compongono l’universo, fino al livello microscopico, possono essere ricondotti a un’origine, un punto iniziale in cui tutti gli elementi della materia sono condensati in quelle che vengono chiamate ‘particelle spaziali’. A loro volta, queste particelle sono ilprodotto della disintegrazione di un precedente universo. È quindi in atto un ciclo in cui l’universo evolve e si disintegra, per poi tornare di nuovo in essere”.
La mente è molto simile a ciò. Il fatto che possediamo un qualcosa che chiamiamo ‘mente-coscienza’ è ovvio, dato che l’esperienza ne testimonia l’esistenza. È anche evidente, sempre sulla base dell’esperienza, che ciò che chiamiamo ‘mente-coscienza’ è soggetto a cambiamento in presenza di condizioni e circostanze diverse. Ci viene così rivelata la sua natura momentanea, la sua tendenza al cambiamento.
Altro fatto ovvio è che i livelli grossolani della ‘mente-coscienza’ sono strettamente correlati con le condizioni fisiologiche del corpo, e anzi ne dipendono. Ma ci deve essere una base, un’energia, una sorgente che mette in grado la mente, interagendo con le particelle materiali, di produrre esseri viventi dotati di coscienza.
Come il livello materiale, anche questo deve avere il suo continuum nel passato. Se ripercorriamo a ritroso la mente-coscienza scopriremo di spostare l’origine della continuità della mente, come quella dell’universo materiale, in una dimensione infinita. Essa, come possiamo vedere, è senza inizio. Perciò sono necessarie le rinascite che consentono l’esistenza del continuum mentale.
Il Buddhismo postula una causalità universale in cui tutto è soggetto a cambiamento e a cause e condizioni. Non c’è quindi spazio per un dio creatore, né per esseri autocreati: tutto sorge in conseguenza di cause e condizioni.
Quindi anche la mente, o coscienza, viene in essere in quanto prodotto dei suoi istanti precedenti.
Le cause e le condizioni di cui parliamo sono di due tipi: cause sostanziali, cioè la sostanza da cui tutto viene prodotto, e fattori co-agenti che contribuiscono al prodursi della causalità. Nel caso della mente e corpo, anche se interagiscono tra di loro, nessuno dei due può divenire la sostanza dell’altro… Mente e materia, benché interdipendenti, non possono essere cause sostanziali l’una dell’altra.
Questa è la base su cui il Buddhismo accetta la rinascita.
Molti pensano che la parola ‘reincarnazione’ implichi ‘qualcosa’ che si reincarna passando da una vita a un’altra. In realtà il Buddhismo non crede a un’entità immutabile e indipendente, quali un’anima o un io, che sopravvive alla morte del corpo. Noi riteniamo che ciò che causa la continuità tra le vite non sia un’entità, ma gli stati più sottili della coscienza. Come spiega il Dalai Lama: “Secondo l’insegnamento buddhista, il principio creatore è la coscienza. La coscienza ha molti livelli. Ciò che chiamiamo la più interna coscienza sottile, è sempre presente. La continuità di tale coscienza è qualcosa di permanente, come le particelle spaziali. Per quanto riguarda la materia, si tratta di particelle spaziali; per quanto riguarda la coscienza, si tratta della Chiara luce… La Chiara luce, che è una forma particolare di energia, crea il legame con la coscienza”.
Il modo di prodursi della rinascita è illustrato ottimamente in questo esempio:
Le esistenze di un ciclo di rinascite non sono come le perle di una collana legate da un filo, l’anima, che passa attraverso di esse, ma sono piuttosto simili a cubi messi uno sull’altro: ogni cubo è separato, ma sostiene quello superiore ed è legato a esso in modo funzionale. Tra i cubi non esiste identità, ma interdipendenza.
Nelle scritture buddiste questa interdipendenza è spiegata chiaramente. Il saggio buddhista Nagasena la illustra al re Milinda, dando famose risposte al re che lo interroga.
“Quando qualcuno rinasce, si tratta della stessa persona che è morta o di una persona diversa?”, chiede il re.
“Né la stessa né diversa”, risponde Nagasena. “Ma ora dimmi: se un uomo accendesse una lampada, avrebbe luce per tutta la notte?”.
“Sì”.
“La fiamma che brucia nella prima veglia della notte, è la stessa che brucia nella seconda veglia… nell’ultima veglia?”.
“No”.
“Significa allora che c’è una lampada nella prima veglia, un’altra lampada nella seconda e un’altra ancora nella terza?”.
“No, è a causa di quell’unica lampada che la luce splende tutta la notte”.
“La rinascita è uguale: un fenomeno si produce e un altro cessa, simultaneamente. Così, il primo momento di coscienza della nuova esistenza non è lo stesso dell’ultimo momento di coscienza dell’esistenza precedente, né è diverso”.
Il re chiede di fargli un altro esempio, e Nagasena paragona il processo al latte: la panna, il burro e il ghee che si fanno con il latte non sono la stessa cosa del latte, ma dipendono dal latte per la loro produzione.
Il re chiede ancora: ” Se non c’è un essere che passa da un corpo all’altro, non siamo liberi dalle azioni negative commesse nelle vite passate?”.
Nagasena fa questo esempio: un uomo ruba dei manghi. I manghi rubati non sono i manghi piantati dal proprietario: perché allora viene punito? Perché, spiega Nagasena, i manghi rubati hanno potuto crescere e maturare solo in virtù dei manghi piantati in precedenza. Così le azioni commesse in una vita, buone o cattive, producono risultati nella vita futura e noi non ne siamo liberi.
Il karma
Nella seconda parte della notte in cui il Buddha raggiunse l’illuminazione, egli conseguì anche un’altra conoscenza, complementare a quella delle proprie vite anteriori: la conoscenza del karma, della legge naturale di causa ed effetto.
“Con l’occhio celeste, rischiarato, sovrumano vidi gli esseri sparire e riapparire: volgari e nobili, belli e brutti, felici e infelici, riconobbi come gli esseri sempre secondo le azioni riappaiono”.
La verità, la forza che causa le rinascite è detta ‘karma’. In Occidente spesso lo si intende erroneamente come ‘fato’ o ‘predestinazione’, mentre va compreso come la legge infallibile di causa ed effetto che regge l’universo. La parola karma significa letteralmente ‘azione’, e comprende tanto il potere latente nelle azioni che i risultati dell’azione.
Ci sono molti karma: il karma internazionale, il karma nazionale, il karma di una città, il karma individuale. Tutti sono strettamente interrelati, e solo un essere illuminato li può vedere in tutta la loro complessità.
Cos’è il karma, in termini molto semplici? Significa che tutto ciò che facciamo (azioni, parole e pensieri) avrà un effetto. Ogni azione, anche la più piccola, è gravida di conseguenze. I maestri dicono che una goccia di veleno basta a causare la morte, e un seme minuscolo può diventare un albero gigantesco. Il Buddha dice: “Non sottovalutate nessuna azione negativa, anche la più piccola. Una scintilla, per quanto piccola, può dare fuoco a un covone di fieno alto come una montagna”. E: “Non sottovalutate nessuna azione positiva, anche la più piccola, pensando che non sia di beneficio. Anche gocce impalpabili d’acqua riempiranno alla fine un grande recipiente”. A differenza delle cose materiali, il karma non si deteriora e non diventa inattivo. Non può venire distrutto “né dal tempo, né dal fuoco e né dall’acqua”. La sua potenza non scomparirà se prima non viene a maturazione.
Anche se i risultati delle nostre azioni non sono ancora venuti a maturazione, lo faranno non appena si presenteranno le condizioni giuste. In genere dimentichiamo le nostre azioni, e per questo non riusciamo a vedere il collegamento tra i risultati e le loro cause. Immaginate un’aquila, diceva Jikmé Lingpa. Vola alta nel cielo. Non getta ombra. Niente ne rivela la presenza. Poi, all’improvviso, avvistata la preda, scende in picchiata e piomba al suolo. Solo a questo punto appare la sua ombra minacciosa.
Spesso i risultati delle nostre azioni sono posticipati, anche nelle vite future. Né possiamo identificare una causa precisa, perché un evento può essere un amalgama estremamente complesso di molti karma che giungono assieme a maturazione. Per questo crediamo che le cose accadano ‘per caso’, e quando tutto va bene parliamo di ‘fortuna’.
Ma che cosa se non il karma può dare una spiegazione soddisfacente alle grandi e straordinarie differenze tra gli uomini? Possiamo essere nati in condizioni simili, nello stesso paese, nella stessa famiglia, e avere un carattere completamente diverso. Ci succedono cose diverse; abbiamo talenti, propensioni e destini differenti.
Dice il Buddha: “Siete ciò che siete stati, e sarete ciò che fate ora”. Padmasambhava aggiunge: “Se volete conoscere le vite passate, guardate il vostro stato presente; se volete conoscere le vite future, guardate le vostre azioni presenti”.IL BUON CUORE
La natura della nostra prossima vita sarà dunque determinata dalla natura delle nostre azioni in questa vita. È importante non dimenticare mai che il risultato delle azioni non dipende dal loro grado ma dall’intenzione, o motivazione, che le stimola.
Al tempo del Buddha viveva una mendicante chiamata “Mi affido alla gioia”. Vedeva re, principi e gente comune fare offerte al Buddha e ai discepoli, e desiderava ardentemente poter fare la stessa cosa. Mendicò per l’intera giornata ricavandone un’unica moneta. Con essa si recò da un mercante per comprare dell’olio. Il mercante rispose che con così poco denaro non poteva comprare niente. Ma, udendo che la donna voleva fare un’offerta al Buddha, si commosse e le diede un po’ d’olio. La mendicante lo portò al monastero, lo versò in una lampada e la accese. La depose davanti al Buddha ed espresse questo desiderio: “Non ho altro da offrire che questa debole lampada. Ma, grazie a questa offerta, possa io in futuro ricevere la benedizione della lampada della saggezza. Possa io liberare tutti gli esseri dalle tenebre.
Possa io purificare i loro oscuramenti e condurli all’illuminazione”. Quella notte tutte le altre lampade bruciarono fino a spegnersi. All’alba, quando il discepolo Maudgalyayana passò a raccoglierle, la lampada della mendicante bruciava ancora. Vedendola accesa, piena d’olio e con lo stoppino intatto, Maudgalyayana pensò: “Non c’è motivo di tenerla accesa durante il giorno”, e cercò di spegnerla. Ma la lampada continuava ad ardere. Cercò di spegnere lo stoppino stringendolo tra le dita, ma non si spense. Provò a soffocare la fiamma con l’abito, ma ardeva sempre. Il Buddha, che aveva visto tutto, disse: “Maudgalyayana, vuoi spegnere quella lampada? Non puoi. Non riuscirai a spostarla e tanto meno a spegnerla. Se anche vi versassi sopra l’acqua di tutti i mari, non si spegnerebbe. L’acqua di tutti i fiumi e di tutti i laghi del mondo non la estinguerebbe. Perché? Perché questa lampada è stata offerta con devozione, con purezza di cuore e di mente. E la motivazione ha prodotto da essa un immenso beneficio”. Quando finì di parlare, la mendicante gli si avvicinò e il Buddha le profetizzò che in futuro sarebbe diventata un perfetto buddha, chiamato ‘Luce della lampada’.
È la nostra motivazione, buona o cattiva, che determina il frutto delle azioni. Shantideva dice: “Tutta la gioia di questo mondo deriva dal desiderare la felicità degli altri; tutta la sofferenza di questo mondo deriva dal desiderare la felicità di me stesso”.
Poiché la legge del karma è inevitabile e infallibile, ogni volta che danneggiamo gli altri danneggiamo noi stessi, e ogni volta che diamo felicità agli altri prepariamo la nostra felicità futura. Per questo dice il Dalai Lama: “Se dominate le motivazioni egoistiche (l’ira e così via) e sviluppate più gentilezza e compassione verso gli altri, ne ricaverete un maggior beneficio che in qualunque altro modo. Per questo dico a volte che l’egoista saggio pratica così. Gli egoisti stolti pensano sempre a se stessi, con risultati negativi. Gli egoisti saggi pensano agli altri, danno agli altri il massimo aiuto possibile, con il risultato che essi stessi ricevono benefici”.
La fede nella reincarnazione rivela che nell’universo c’è una giustizia, una bontà ultima. È proprio questa bontà che stiamo cercando di scoprire e di liberare. Con ogni azione positiva avanziamo verso di essa, con ogni azione negativa la oscuriamo e la ostacoliamo. E, se non riusciamo a esprimerla nella vita e nelle azioni, ci sentiamo tristi e frustrati.
Se quindi dovessimo trarre un unico messaggio dalla reincarnazione, è questo: sviluppate la bontà del cuore, che desidera che gli altri esseri trovino la felicità definitiva e che agisce per favorire questa felicità. Nutrite e praticate la gentilezza. Il Dalai Lama ha detto: “Non c’è bisogno di templi né di complicate filosofie. Il nostro cervello, il nostro cuore è un tempio; la gentilezza è la mia filosofia”.
La creatività
Il karma, quindi, non è né fatalistico né predeterminato. Il karma è la nostra capacità di creare e di cambiare. È creativo, perché possiamo decidere come e perché agire. Noi possiamo cambiare. Il futuro è nelle nostre mani, nelle mani del nostro cuore. Il Buddha ha detto: “Il karma crea ogni cosa, come un artista; il karma disegna figure, come una ballerina”.
Poiché tutto è impermanente, fluido e interdipendente, i nostri pensieri e le nostre azioni cambiano inevitabilmente il futuro. Non c’è nessuna situazione per quanto apparentemente terribile e senza speranza, come ad esempio una malattia terminale, che non possiamo utilizzare per evolvere. Non c’è crimine o crudeltà che un sincero rimorso e una vera pratica spirituale non siano in grado di purificare.
Milarepa è considerato il più grande yogi, poeta e santo tibetano. Ricordo il brivido che provavo da bambino mentre leggevo la storia della sua vita e guardavo avidamente le piccole illustrazioni nel testo scritto a mano. In gioventù Milarepa era stato uno stregone che, per vendetta, aveva ucciso e causato la disgrazia di tantissime persone servendosi della magia nera.
Eppure, grazie al rimorso, alle prove e alle fatiche che dovette sopportare sotto il suo grande maestro, Marpa, poté purificare tutte queste azioni negative. Infine raggiunse l’illuminazione, e la sua figura ha ispirato milioni di persone nel corso dei secoli.
In Tibet diciamo: “L’azione negativa ha una qualità positiva: può essere purificata”. C’è sempre una speranza. Anche gli assassini e i criminali più incalliti possono cambiare e superare le condizioni che li hanno indotti al crimine. La nostra condizione attuale, se la usiamo con saggezza e abilità, può essere d’ispirazione a liberarci dalla schiavitù della sofferenza.
Tutto ciò che ci accade riflette il nostro karma passato. Se lo sappiamo, se lo sappiamo davvero, qualunque sofferenza o difficoltà non la vedremo come un insuccesso o una catastrofe, né come una punizione Non ci incolperemo e non ci abbandoneremo all’odio verso noi stessi Vedremo invece il dolore che proviamo come il completamento degli effetti, la maturazione del nostro karma passato. I tibetani dicono che la sofferenza è una “ramazza che scopa via tutto il karma negativo”. Possiamo persino provare gratitudine, perché un karma sta giungendo alla fine. Sappiamo che la ‘buona sorte’, che è frutto del buon karma, passerà presto se non sapremo utilizzarla; e che la ‘cattiva sorte’, che è il risultato del karma negativo, ci può offrire una meravigliosa occasione per evolverci.
Per i tibetani il karma ha un significato vivo e reale nella vita di tutti i giorni. Vivono la realtà del karma e ne conoscono la verità, e questa è la base dell’etica buddhista. Sanno che si tratta di un processo naturale e giusto. Il karma ispira nei tibetani il senso della responsabilità personale in tutto ciò che fanno. Da ragazzo, la mia famiglia aveva un ottimo servo di nome A-pé Dorje, che mi amava moltissimo. Era un sant’uomo, che in tutta la vita non fece mai male agli altri. Ogni volta che, da bambino, facevo o dicevo qualcosa di dannoso, mi diceva con dolcezza: “Oh, questo non è giusto”, instillandomi così il senso profondo dell’onnipresenza del karma e l’abitudine quasi automatica di trasformare la mia reazione ogni volta che sorgeva un pensiero negativo.
È davvero tanto difficile vedere il karma in atto? Non ci basta considerare la nostra vita per vedere le conseguenze di molte nostre azioni? Se abbiamo addolorato o ferito qualcuno, il fatto non ci è rimbalzato contro? Non ne conserviamo un ricordo amaro, con una traccia di disgusto verso noi stessi?
Quel ricordo, quella traccia sono karma. Anche le abitudini e le paure sono dovute al karma: sono il risultato delle azioni, delle parole e dei pensieri del passato. Esaminando in piena consapevolezza le nostre azioni, vedremo che ripetono sempre lo stesso schema. Ogni comportamento negativo porta dolore e sofferenza, ogni comportamento positivo porta felicità.
LA RESPONSABILITA’
Sono rimasto molto colpito da come i resoconti delle esperienze di pre-morte confermino, in modo chiaro e sorprendente, la verità del karma. Uno dei denominatori comuni delle esperienze di pre-morte, che è stato un notevole stimolo alla riflessione, è la ‘panoramica retrospettiva della vita’. Sembra che chi ha vissuto questa esperienza non soltanto abbia rivisto nei minimi e vividi particolari gli eventi della sua vita, ma che abbia anche potuto vedere tutte le possibili implicazioni delle azioni compiute. Di fatto fa esperienza dell’intera gamma degli effetti prodotti dalle sue azioni sugli altri e delle emozioni che hanno suscitato, anche le più dolorose e sconvolgenti:
Ogni evento della mia vita mi passò davanti agli occhi. Mi vergognai di tante cose, perché ora ne avevo una percezione diversa… Non solo delle mie azioni, ma di come avevo influito sugli altri… Scoprii che neppure un pensiero va perduto.
La mia vita mi passò davanti… Riprovai tutte le emozioni provate durante la vita. Vedevo con i miei stessi occhi come le emozioni avessero influenzato la mia vita, e le ripercussioni della mia vita sugli altri…
Ero coloro a cui avevo fatto del male, ero coloro a cui avevo fatto del bene.
Fu un rivivere completamente ogni pensiero che avevo pensato, ogni parola detta, ogni azione fatta; più gli effetti dei miei pensieri, delle mie parole e delle mie azioni su tutte le persone appartenenti al mio ambiente o alla mia sfera d’influenza, persone conosciute e sconosciute… più gli effetti di ogni mio pensiero, parola e azione sulle piante, gli animali, il suolo, gli alberi, l’acqua, l’aria e il tempo.
Credo che queste testimonianze siano da prendersi seriamente. Ci possono aiutare a comprendere tutte le implicazioni delle nostre azioni, parole e pensieri, spingendoci a diventare sempre più responsabili. Ho notato che molte persone si sentono minacciate dalla realtà del karma, perché incominciano a intravedere che non c’è scampo a una legge naturale. Altri manifestano un totale disprezzo del karma, ma nel profondo nutrono seri dubbi sulla validità del loro rifiuto. Di giorno possono agire nel massimo spregio della morale, in quella che è una sicurezza artificiosa e incauta, ma nella solitudine della notte la loro mente è spesso pesante e angosciata.
Tanto l’Oriente che l’Occidente hanno sviluppato le proprie vie particolari per fuggire le responsabilità che derivano dalla comprensione del karma. Gli orientali usano il karma come scusa per non dare una mano agli altri, asserendo che la sofferenza altrui è ‘il loro karma’. I ‘liberi pensatori’ occidentali fanno il contrario. Gli occidentali che credono nel karma possono diventare esageratamente ‘sensibili’ e ‘cauti’, asserendo che aiutare qualcuno equivale a interferire in quello che gli altri devono ‘risolvere da sé’. Che sotterfugio, che tradimento della nostra umanità!
Forse, imparare ad aiutare è proprio il nostro karma. Conosco molte persone ricche. La loro ricchezza può distruggerle, se usata per alimentare la pigrizia e l’egoismo; oppure potrebbero approfittare della grande opportunità che il denaro offre per aiutare gli altri e quindi se stesse.
Non dimentichiamo mai che nelle azioni, nelle parole e nei pensieri operiamo sempre una scelta. È che, scegliendo, possiamo mettere fine alla sofferenza e alle sue cause, aiutando il nostro potenziale, la nostra natura di buddha, a risvegliarsi. Finché la natura di Buddha non sarà completamente risvegliata e, liberati dall’ignoranza, non ci saremo fusi con la mente immortale e illuminata, non ci sarà fine alla ruota di vita e morte. Per questo gli insegnamenti dicono che, se non prendiamo tutta la responsabilità su noi stessi in questa vita, la nostra sofferenza continuerà non solo per poche ma per migliaia di vite.
È questa comprensione rinsavente che fa considerare ai buddisti molto più importanti le vite future che non questa, perché sono molte le vite che ci aspettano. Questa visione a lungo termine governa tutta la vita. Sanno che sacrificare l’eternità per un’unica vita sarebbe come sperperare i risparmi di una vita intera in un’unica bevuta, ignorando scioccamente le conseguenze.
Ma, se osserviamo la legge del karma e risvegliamo in noi il buon cuore dell’amore e della compassione, se purifichiamo il flusso mentale e risvegliamo a poco a poco la saggezza della natura della mente, diventeremo veri esseri umani e, infine, illuminati.
Albert Einstein scrive: Un essere umano è parte di un tutto che chiamiamo ‘universo’, una parte limitata nel tempo e nello spazio. Sperimenta se stesso, i pensieri e le sensazioni come qualcosa di separato dal resto, in quella che è una specie di illusione ottica della coscienza. Questa illusione è una sorta di prigione che ci limita ai nostri desideri personali e all’affetto per le poche persone che ci sono più vicine. Il nostro compito è quello di liberarci da questa prigione allargando in cerchi concentrici la nostra compassione per abbracciare tutte le creature viventi e tutta la natura nella sua bellezza.
LE REINCARNAZIONI IN TIBET
I realizzati che padroneggiano la legge del karma possono scegliere di ritornare più volte in vita per aiutare gli altri. In Tibet la tradizione del riconoscimento delle reincarnazioni, o tulku, iniziò nel XIII secolo e continua ancora oggi. Morendo, un maestro realizzato può dare precise indicazioni del luogo in cui rinascerà. Un suo discepolo o un amico spirituale può avere una visione, o un sogno, che annuncia l’imminente rinascita. I discepoli possono anche ricorrere all’aiuto di un maestro noto per la capacità di riconoscere i tulku, il quale può avere una visione o un sogno da cui ricava precise indicazioni. Quando il bambino viene trovato, è questo maestro che ne autentica la reincarnazione.
Lo scopo di questa tradizione è accertarsi che la memoria di saggezza dei maestri realizzati non vada perduta. L’aspetto più importante di un incarnato è che, durante l’educazione che gli viene impartita, si risveglia la sua natura originaria, la memoria di saggezza che ha ereditato: questo è il vero segno della sua autenticità. Sua Santità il Dalai Lama racconta che, ancora giovanissimo, era in grado di capire senza troppa difficoltà aspetti della filosofia e degli insegnamenti buddhisti molto sottili e che richiedono solitamente anni di studio.
All’educazione dei tulku si dedica una grandissima cura. Ancor prima che inizia la sua formazione, ai genitori viene detto di trattare il bambino in modo speciale. In seguito, l’educazione è molto più intensa e severa di quella degli altri monaci, perché da un tulku ci si aspetta molto di più.
A volte ricordano le vite precedenti o manifestano notevoli capacità. Come dice il Dalai Lama: “È normale per i bambini reincarnati ricordare oggetti e persone delle loro vite precedenti. Alcuni sono in grado di recitare scritture prima ancora che gli vengano insegnate”.
Alcuni incarnati devono studiare e praticare meno degli altri, come accadde al mio maestro Jamyang Khyentse. Da giovane aveva un tutore estremamente esigente, con cui viveva in un eremo sulle montagne. Un mattino il tutore partì per un villaggio vicino dove doveva condurre i riti per un defunto. Prima di partire diede al mio maestro un libro intitolato La recitazione dei nomi di Manjusri. Era un testo molto complicato, di una cinquantina di pagine, che normalmente richiedeva mesi per essere mandato a memoria. Le sue parole di commiato furono: “Imparalo a memoria entro questa sera!”.
Il piccolo Khyentse era come tutti gli altri bambini e, appena il tutore se ne andò, si mise a giocare. Vedendolo giocare, i vicini incominciarono a preoccuparsi e lo supplicarono: “È meglio che ti metti a studiare, altrimenti le buscherai”. Conoscevano la severità e l’irosità del tutore. Ma il bambino non li ascoltò e continuò a giocare. Poco prima del tramonto, quando mancava poco al ritorno del tutore, il mio maestro lesse il testo un’unica volta. Quando il tutore lo interrogò, ripeté a memoria tutto il libro, parola per parola.
Nessun tutore dotato di buon senso avrebbe mai dato a un bambino un compito del genere, ma nel suo cuore sapeva che Khyentse era l’incarnazione di Manjushri, il Buddha della saggezza, e fu come se lo sollecitasse a ‘rivelarsi’. Il bambino, accettando senza proteste l’arduo compito, aveva ammesso implicitamente chi fosse. Più tardi, Khyentse scrisse nella propria autobiografia che il tutore, benché non volesse ammetterlo, ne era stato impressionato.
Che cos’è che continua in un tulku? Il tulku è la stessa persona di cui è la reincarnazione? Sì e no, contemporaneamente. La motivazione e la devozione ad aiutare tutti gli esseri è la stessa, ma non è la stessa persona. Ciò che continua di vita in vita è una benedizione, quello che i cristiani chiamano ‘grazia’. La trasmissione di questa benedizione, di questa grazia, è in accordo e perfettamente appropriata all’epoca storica. L’incarnazione appare nel modo più consono al karma degli uomini di una certa epoca, per poter essere di massimo aiuto.
Forse l’esempio più toccante della ricchezza, l’efficacia e la sottigliezza di questo sistema è Sua Santità il Dalai Lama. I buddhisti lo venerano come l’incarnazione di Avalokiteshvara, il Buddha della compassione infinita.
Allevato in Tibet come re divino, il Dalai Lama ricevette l’educazione tradizionale e i maggiori insegnamenti di tutti i lignaggi, diventando uno dei massimi maestri viventi della tradizione tibetana. Ciò nonostante, tutto il mondo lo conosce come una persona di grande immediatezza e semplicità, e di spirito molto pratico. Dimostra un profondo interesse per tutti gli aspetti della fisica moderna, della neurobiologia, della psicologia e della politica. La sua visione e il suo messaggio di responsabilità universale sono condivisi non solo dai buddhisti ma da persone di tutte le fedi in ogni parte del mondo. La sua dedizione alla non violenza durante quarant’anni di straziante lotta del popolo tibetano per l’indipendenza dalla Cina, gli fece conferire il Premio Nobel per la pace nel 1989. In quest’epoca di diffusa violenza, il suo esempio è stato di ispirazione al desiderio di libertà dei popoli di tutto il pianeta. È diventato uno dei massimi portavoce della difesa dell’ambiente, instancabilmente impegnato a risvegliare gli uomini ai pericoli di una filosofia egoista e materialista. È onorato da capi di stato e intellettuali, e conosco centinaia di persone comuni di ogni nazionalità la cui vita è stata trasformata dalla bellezza, dall’umorismo e dalla gioia della sua santa presenza. Credo che il Dalai Lama sia il volto del Buddha della compassione rivolto verso un’umanità in pericolo l’incarnazione di Avalokiteshvara non solo per i tibetani e i buddisti in genere, ma per il mondo intero che, come mai in passato, ha bisogno di compassione risanante e del suo esempio di totale impegno per la pace. Forse è una sorpresa per gli occidentali venire a sapere quanti grandi incarnati ci sono stati in Tibet, in maggioranza grandi maestri, studiosi, scrittori, mistici e santi che hanno contribuito all’insegnamento del
Buddhismo e alla società. Il loro ruolo è stato determinante nella storia del Tibet. Credo che il fenomeno della reincarnazione non sia limitato al solo Tibet, ma che possa manifestarsi in ogni nazione e in tutte le epoche. La storia è attraversata da figure di grande genio artistico, forza spirituale e visione umanitaria che hanno aiutato la specie umana a progredire. Penso a Gandhi, Einstein, Abramo Lincoln, Madre Teresa, Shakespeare, san Francesco, Beethoven, Michelangelo. Sentendo parlare di queste figure, i tibetani pensano immediatamente che si tratti di bodhisattva. Quando penso alla loro figura, alle loro opere e alla loro visione, sono commosso dalla maestosità dell’immenso processo evolutivo dei buddha e dei maestri, emanazioni per liberare gli esseri e migliorare il mondo.
I bardo e altre realtà
Bardo è una parola tibetana che significa semplicemente ‘transizione’, intervallo tra la fine di una situazione e l’inizio di un’altra. Bar significa ‘tra’, e do ‘sospeso’, ‘gettato’. La parola è diventata famosa grazie alla popolarità del Libro tibetano dei morti. Dalla sua prima traduzione in inglese, nel 1927, il libro ha suscitato un enorme interesse tra psicologi, scrittori e filosofi occidentali, e ha venduto milioni di copie.
Il titolo Libro tibetano dei morti fu coniato dal traduttore, lo studioso americano W. Y. Evans-Wentz, sulla falsariga del famoso (e dal titolo altrettanto erroneo) Libro egiziano dei morti. Il testo tibetano si intitola Bardo Todrol Chenmo, che significa la ‘Grande liberazione attraverso l’udire nel Bardo’. Gli insegnamenti del Bardo sono antichissimi, e fanno parte dei cosiddetti Tantra Dzogchen. Questi insegnamenti derivano da un lignaggio che, risalendo oltre i suoi maestri umani, giunge al Buddha Primordiale (chiamato in sanscrito Samantabhadra e in tibetano Kuntuzangpo), che rappresenta l’assoluta e nuda purezza primordiale simile al cielo della natura della nostra mente. Il Bardo Todrol Chenmo fa parte di un più ampio ciclo di insegnamenti trasmessi da Padmasambhava e rivelati nel XIV secolo dal mistico tibetano Karma Lingpa.
La Grande liberazione attraverso l’udire nel Bardo, o Libro tibetano dei morti, è un testo di conoscenze unico. È una sorta di guida o un documentario sugli stati del dopo morte, che un maestro o un amico spirituale legge a una persona mentre muore e dopo la morte. In Tibet si dice che vi sono ‘Cinque metodi per ottenere l’illuminazione senza meditazione’: Vedendo un grande maestro o un oggetto sacro, indossando immagini particolarmente benedette di mandala recanti mantra sacri, assaggiando nettari consacrati dai maestri mediante una speciale pratica intensiva, ricordando il trasferimento della coscienza (phowa) al momento della morte, e udendo alcuni profondi insegnamenti come la Grande liberazione attraverso l’udire nel Bardo.
Il Libro tibetano dei morti è destinato ai praticanti o a chi abbia familiarità con gli insegnamenti che vi sono contenuti. Per il lettore moderno è estremamente difficile da capire, e origina molte domande a cui non si può rispondere se non si ha una certa conoscenza della tradizione che l’ha prodotto. Questo è tanto più vero in quanto il testo non può essere capito né usato senza conoscere le istruzioni orali trasmesse da maestro a discepolo e che costituiscono la chiave per l’utilizzo pratico.
In queste pagine inserirò quindi gli insegnamenti, che gli occidentali conoscono grazie al Libro tibetano dei morti, in un contesto più vasto e completo.
I BARDO
La popolarità del Libro tibetano dei morti induce di solito ad associare la parola bardo alla morte. È vero che il termine, nel linguaggio corrente, è usato dai tibetani per indicare lo stato intermedio tra morte e rinascita, ma il suo significato è più ampio e più profondo. Forse proprio nell’insegnamento del bardo, più che in qualunque altro, possiamo vedere la profondità e la vastità della conoscenza dei Buddha riguardo alla vita e alla morte, e quanto siano in realtà inseparabili ciò che chiamiamo ‘vita’ e ‘morte’, se visti e compresi chiaramente dalla prospettiva dell’illuminazione.
Possiamo dividere l’esistenza in quattro realtà: la vita, il morire e la morte, il dopo morte, e la rinascita.
Sono i quattro bardo:
¨ il bardo ‘naturale’ di questa vita;
¨ il bardo ‘doloroso’ della morte;
¨ il bardo ‘luminoso’ della dharmata;
¨ il bardo ‘karmico’ del divenire.
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Il bardo naturale della vita abbraccia l’arco di esistenza tra la nascita e la morte. Dal nostro punto di vista può sembrare molto più di un semplice bardo, di una transizione. Ma, se riflettiamo, diverrà chiaro che, in paragone con l’enorme durata della nostra storia karmica, questa vita è in realtà relativamente breve. Gli insegnamenti sottolineano che il bardo di questa vita è l’unica, e quindi la migliore, occasione per prepararci alla morte, familiarizzandoci con l’insegnamento e rendendo stabile la pratica.
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Il bardo doloroso della morte abbraccia il periodo che va dall’inizio del processo del morire fino al termine della cosiddetta ‘respirazione interna’. A sua volta, esso culmina nel sorgere della natura della mente, la ‘Luminosità della base essenziale’, nel momento della morte.
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Il bardo luminoso della dharmata comprende l’esperienza, fatta nel dopo morte, della radiosità della natura della mente, la Luminosità o ‘Chiara luce’, che si manifesta come suono, colore e luce.
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Il bardo karmico del divenire è ciò che viene generalmente considerato il Bardo vero e proprio, lo stato intermedio che si protrae fino al momento della nuova rinascita.
Tutti i bardo sono intervalli, periodi in cui è presente con forza la possibilità del risveglio. Le opportunità di liberarsi si presentano continuamente e ininterrottamente durante tutta la vita e la morte, e gli insegnamenti del bardo sono la chiave, lo strumento che ci permette di scoprirle, riconoscerle e farne l’uso migliore.
INCERTEZZA E OPPORTUNITA’
Una caratteristica dei bardo è di essere periodi di grande incertezza. Prendiamo la nostra vita attuale. Più il mondo che ci circonda diventa turbolento, più la nostra vita si frammenta. Scollegati da noi stessi, non più in contatto con noi stessi, diventiamo ansiosi, frenetici e spesso paranoici. Una piccola crisi basta a far scoppiare il pallone delle strategie dietro cui ci nascondiamo. Un attimo di panico basta a rivelarci quanto tutto sia instabile e precario. Vivere nel mondo moderno vuol dire vivere in ciò che è manifestamente uno stato di bardo: non dobbiamo aspettare la morte per fare l’esperienza di un bardo.
Questa incertezza che pervade ogni cosa fin da ora si fa più intensa e ancora più accentuata dopo la morte, quando come dicono i maestri, sia la nostra chiarezza che la nostra confusione ‘si moltiplicano per sette’.
Se guardiamo sinceramente la vita ci rendiamo conto di vivere continuamente in uno stato di ‘suspense’ e di ambiguità. La mente oscilla senza posa tra confusione e chiarezza. Se ci fosse solo e sempre confusione, si potrebbe almeno tendere verso una qualche chiarezza. Ma l’aspetto più sconcertante della vita è che, nonostante tutta la nostra confusione, di tanto in tanto riusciamo a essere saggi! E questo ci rivela la natura del bardo: una perenne, snervante oscillazione tra chiarezza e confusione, smarrimento e comprensione, certezza e incertezza, equilibrio mentale e pazzia. Nella mente ordinaria, saggezza e confusione sorgono insieme o, come diciamo, sono ‘co-emergenti’.
Ciò significa che siamo continuamente di fronte a una scelta tra i due stati, e che tutto dipende da quale scegliamo.
Tale continua incertezza può farci sembrare tutto quanto desolato e quasi senza speranza ma, se guardate meglio, vedrete che, per sua stessa natura, crea intervalli, spazi in cui fioriscono in continuazione possibilità, opportunità di trasformazione, che è possibile cogliere e afferrare.
Poiché la vita non è nient’altro che una perpetua fluttuazione di nascita, morte e transizione, c’è in ogni momento l’esperienza del bardo che costituisce un aspetto fondamentale della nostra costituzione psicologica. Tuttavia non siamo consapevoli dei bardo e dei loro intervalli, perché la mente passa da una situazione ‘solida’ all’altra ignorando la transizione che ciò comporta. In realtà, come l’insegnamento ci aiuta a capire, ogni attimo di esperienza è un bardo, in quanto ogni pensiero e ogni emozione scaturisce dall’essenza della mente e in essa si dissolve di nuovo. Soprattutto in momenti di grande cambiamento e di forte transizione, dicono gli insegnamenti, ha la possibilità di manifestarsi la vera natura primordiale della mente, simile al cielo.
Facciamo un esempio. Tornate a casa dal lavoro e trovate la porta sfondata. Avete subito un furto. Entrate, e tutte le vostre cose sono sparite. Per un attimo, rimanete paralizzati dallo shock e la mente cerca freneticamente e disperatamente di ricreare ciò che non c’è più. Che colpo! Avete perso tutto. La mente, di solito inquieta e affaccendata, è stordita. Il pensiero si arresta. E nasce un’improvvisa, profonda calma, quasi un’esperienza di beatitudine. Niente più lotta, niente più sforzo: non servono più. Non vi resta che abbandonare tutto, non avete altra scelta.
L’attimo prima avevate coscienza di una grossa perdita, e l’attimo dopo vi scoprite in uno stato di profonda pace. Quando si verifica questa esperienza, non precipitatevi immediatamente a mettere riparo. Rimanete in questo stato di pace. Consentite il prodursi dell’intervallo. Se restate davvero in questo intervallo, osservando la mente, potrete cogliere un barlume della natura senza morte della mente illuminata.
Più sarà profonda la nostra sensibilità e più sarà acuta la nostra attenzione alle meravigliose possibilità di una totale comprensione offerte da tali intervalli e transizioni della vita, più saremo interiormente preparati al loro manifestarsi, in modo molto più potente e incontrollato, al momento della morte.
Ciò è di estrema importanza, poiché gli insegnamenti del bardo ci dicono che vi sono momenti in cui la mente è molto più libera del solito, momenti molto più potenti degli alta e che recano una carica e un’implicazione karmica molto più forte. Tra questi il momento supremo è la morte, perché allora il corpo viene abbandonato e ci viene offerta la più grande possibilità di liberazione. Per quanto consumata sia la nostra maestria spirituale, siamo sempre limitati dal corpo e dal suo karma. Ma, con la liberazione fisica della morte, c’è la più brillante opportunità di realizzare tutto ciò per cui ci siamo sforzati durante la pratica e la vita. Anche per un grande maestro di altissime realizzazioni, la liberazione definitiva, chiamata parinirvana, sorge soltanto al momento della morte. Per questo in Tibet non festeggiamo la nascita dei maestri ma il giorno della morte, il momento della loro illuminazione finale. Durante la mia infanzia, e in seguito, ho udito molti racconti di grandi praticanti, yogi e persone apparentemente ordinarie, che morirono in modo stupefacente e sensazionale. Solo in quell’ultimo istante rivelarono la profondità della propria realizzazione e il potere dell’insegnamento che incarnavano.
I Tantra Dzogchen, gli antichi insegnamenti da cui derivano le istruzioni relative al bardo, parlando di un uccello mitico, chiamato garuda, nato già adulto. L’immagine simboleggia la nostra natura primordiale, già perfetta in se stessa. Il pulcino garuda ha le penne perfettamente formate ancora dentro l’uovo, ma non può volare prima che questo sia stato covato. Solo quando il guscio si rompe, può uscirne e librarsi nel cielo. Così, ci dicono i maestri, la buddhità è nascosta dal corpo e, appena il corpo è abbandonato, si manifesta nel suo fulgore.
Il motivo per cui il momento della morte è un’opportunità tanto potente è questo: che la natura fondamentale della mente, la Luminosità fondamentale o Chiara luce, si manifesta naturalmente, in tutta la sua vastità e il suo splendore. Se in quell’attimo cruciale, continua l’insegnamento, sapremo riconoscerla, otterremo la liberazione.
Ma ciò non è possibile se non ci siamo familiarizzati in vita con la natura della mente attraverso la pratica spirituale. Ecco perché la nostra tradizione afferma, abbastanza sorprendentemente, che chi ha raggiunto la liberazione al momento della morte è considerato liberato in questa vita, non in uno degli stadi del bardo dopo la morte; perché proprio in questa vita è avvenuto e si è consolidato il riconoscimento essenziale della Chiara luce. È un punto fondamentale da comprendere.
ALTRE REALTA’
Ho detto che i bardo sono opportunità, ma che cosa esattamente nei bardo ci mette in grado di afferrare la possibilità che offrono? La risposta è semplice: i bardo sono tutti stati diversi, e realtà diverse, della mente. Nella pratica buddhista ci prepariamo con la meditazione a scoprire appunto i vari aspetti della mente interrelati tra loro, e a sviluppare la capacità di entrare abilmente nei diversi livelli di coscienza. C’è una precisa e distinta relazione tra gli stati del bardo e i livelli di coscienza che sperimentiamo nel ciclo di nascita e morte. Mentre passiamo da un bardo all’altro, sia in vita sia nella morte, si produce un corrispondente cambiamento di coscienza; un cambiamento che, con la pratica spirituale, possiamo conoscere sempre più intimamente e infine comprendere a fondo.
Poiché il processo che si dispiega nei bardo della morte è inciso nelle profondità della mente, esso si manifesta a livelli diversi anche durante la vita. C’è, ad esempio, una forte corrispondenza tra i gradi di sottigliezza della coscienza che attraversiamo nel sonno e nel sogno, e i tre bardo associati alla morte:
¨ Entrare nel sonno è simile al bardo del morire. Gli elementi e i processi mentali si dissolvono, e ci apriamo all’esperienza della Luminosità fondamentale.
¨ Sognare è affine al bardo del divenire, lo stato intermedio del ‘corpo mentale’, chiaroveggente ed estremamente mobile, che attraversa ogni sorta di esperienze. Nel sogno abbiamo un corpo simile, il corpo del sogno, che vive le esperienze della vita onirica
¨ Tra il bardo della morte e quello del divenire, c’è uno speciale stato di luminosità, o Chiara luce, chiamato, come ho già detto, ‘bardo della dharmata’. Si tratta di un’esperienza comune a tutti ma ben pochi sono in grado di notarla, per non parlare di viverla completamente, perché può essere riconosciuta solo da praticanti con molta esperienza. Il bardo della dharmata corrisponde al momento successivo all’addormentamento e precedente il sogno.
Naturalmente, i bardo della morte sono stati di coscienza molto più profondi di quelli del sonno e del sogno, momenti molto più potenti, ma i loro livelli relativi di sottigliezza corrispondono e rivelano le connessioni e i paralleli tra i vari livelli di coscienza. I maestri usano spesso il seguente paragone per illustrare la difficoltà di mantenere l’attenzione mentale negli stati di bardo. Quanti mantengono la consapevolezza del cambiamento di coscienza che si ha quando ci addormentiamo? O del momento, già nel sonno, precedente al sogno? Quanti sono consapevoli di sognare? Di qui potete immaginare l’estrema difficoltà di rimanere consapevoli nella tempesta dei bardo della morte.
Lo stato della mente durante il sonno e il sogno indica come sarà negli stati corrispondenti del bardo. Ad esempio, il modo in cui reagiamo ora ai sogni, agli incubi e alle difficoltà indica come potremo reagire nel dopo morte.
Ecco perché lo yoga del sonno e del sogno riveste una parte tanto importante nella preparazione alla morte. In esso il vero praticante cerca di mantenere una consapevolezza della natura della mente salda e ininterrotta sia di giorno sia di notte, utilizzando le diverse fasi del sonno e del sogno direttamente per imparare a conoscere e per familiarizzarsi con ciò che accadrà nei bardo della morte e del dopo morte.
Così abbiamo visto altri due bardo inclusi spesso entro il bardo naturale della vita: il bardo del sonno e del sogno, e il bardo della meditazione. La meditazione corrisponde alla pratica diurna, e lo yoga del sonno e del sogno alla pratica notturna. Nella tradizione a cui appartiene il Libro tibetano dei morti, questi due bardo vengono aggiunti ai quattro precedenti e formano la serie dei sei bardo.
VITA E MORTE NEL PALMO DELLA MANO
A ogni bardo corrisponde una serie specifica di istruzioni e di pratiche meditative, diretta ciascuna a quella realtà e a quel particolare stato mentale. Grazie a questa precisione, le pratiche spirituali connesse con ciascun bardo ci mettono in grado di usarlo al meglio e di usufruire di tutte le sue possibilità di liberazione. Il punto essenziale da capire rispetto ai bardo è che seguendo tali pratiche è possibile realizzare questi stati mentali mentre siamo ancora in questa vita. Possiamo farne effettivamente esperienza qui e ora.
Una tale padronanza delle diverse dimensioni della mente può essere di difficile comprensione per gli occidentali, ma non è assolutamente impossibile.
Kunu Lama Tenzin Gyaltsen era un maestro realizzato, originario della regione himalayana del nord dell’India. In giovane età conobbe nel Sikkim un lama che gli consigliò di andare in Tibet per continuarvi gli studi di Buddhismo. Così si recò nel Kham, nel Tibet orientale, dove ricevette insegnamenti dai maggiori lama tra cui il mio maestro Jamyang Khyentse. La sua conoscenza del sanscrito gli guadagnò il rispetto generale e gli aprì molte porte. I maestri erano favorevoli a dargli insegnamenti, nella speranza che li riportasse in India e li trasmettesse in una terra dove erano praticamente scomparsi.
Durante la permanenza in Tibet, Kunu Lama ottenne conoscenze e realizzazioni eccezionali.
Infine ritornò in India, dove visse come un asceta. Quando il mio maestro e io, dopo aver lasciato il Tibet, ci recammo in pellegrinaggio in India, lo cercammo dappertutto nella città di Benares. Alla fine lo trovammo in un tempio indù. Nessuno sapeva chi era, e tanto meno che fosse un buddhista. Meno ancora che fosse un maestro. Lo reputavano un santo yogi pacificato e gli facevano offerte di cibo. Ogni volta che penso a lui, mi dico: “Così dev’essere stato san Francesco d’Assisi”.
Quando incominciò l’esilio dei monaci e dei lama tibetani, Kunu Lama fu scelto per insegnare grammatica e sanscrito nella scuola fondata dal Dalai Lama. Lama molto colti studiarono con lui e lo consideravano un eccellente insegnante di lingua. Un giorno qualcuno gli pose una domanda sul Buddhismo. La sua risposta fu di immensa profondità. Altri gli posero domande e a tutto aveva una risposta. Infatti poteva dare qualunque insegnamento gli venisse richiesto. La sua reputazione crebbe e in breve si trovò a insegnare a membri delle varie tradizioni nell’insegnamento specifico di ciascuna.
Sua Santità il Dalai Lama lo nominò sua guida spirituale, riconoscendo in Kunu Lama la sua fonte di ispirazione per quanto riguardava gli insegnamenti e la pratica della compassione. Era infatti un vivente esempio di compassione. La fama non lo mutò assolutamente. Continuò a indossare i vecchi abiti di sempre e a vivere in una stanzetta. Se gli portavano un dono, lo regalava al visitatore successivo. Se cucinavano per lui, mangiava; altrimenti, non mangiava.
Un giorno, un maestro che conosco bene lo andò a trovare e gli pose alcune domande sui bardo. Era un grande studioso, molto addentro alla tradizione del Libro tibetano dei morti e con grande esperienza delle pratiche che vi sono connesse. Mi riferì le sue domande e di come aveva ascoltato incantato le risposte di Kunu Lama. Non aveva mai udito niente del genere. Kunu Lama descriveva i bardo con la stessa precisione e vividezza con cui si potrebbe indicare la direzione per Kensington High Street, Central Park o gli Champs Elysées. Era come se ci fosse stato realmente.
Parlava dei bardo per esperienza diretta, perché un praticante del suo calibro ha viaggiato attraverso tutte le dimensioni della realtà. Gli stati di bardo sono tutti contenuti nella mente, e per questo possono emergere e rivelarsi mediante le pratiche spirituali del bardo.
Sono insegnamenti che emanano dalla mente di saggezza dei buddha, che vedono la vita e la morte come se fossero nel palmo della mano.
Anche noi siamo Buddha. Se pratichiamo nel bardo di questa vita, e scendiamo sempre più in profondità nella natura della mente, otterremo la conoscenza degli stati di bardo, e la verità degli insegnamenti ci si rivelerà da se stessa. Ecco perché il bardo naturale di questa vita è di eccezionale importanza. È qui e ora che possiamo prepararci all’esperienza di tutti i bardo. Si tramanda che: “La preparazione suprema è ora, diventare illuminati in questa vita”.
Questa vita: il bardo naturale
Incominciamo con l’esaminare il primo dei quattro bardo: il bardo naturale di questa vita, con tutte le sue implicazioni. Poi, nell’ordine, considereremo gli altri tre. Il bardo naturale di questa vita abbraccia il periodo che va dalla nascita alla morte. I suoi insegnamenti ci spiegano perché questo bardo è un’opportunità così preziosa, cosa significa realmente essere umani, e qual è lo scopo più importante, e l’unico veramente essenziale, a cui possiamo destinare il dono dell’esistenza umana.
I maestri dicono che la mente ha una base fondamentale, chiamata la ‘base della mente ordinaria’. Longchenpa, grande maestro tibetano del XIV secolo, la descrive con queste parole: “È uno stato neutro di non illuminazione, che appartiene alla categoria della mente e degli eventi mentali e che è diventato il fondamento di tutto il karma e delle ‘tracce’ del samsara e del nirvana”. Agisce come un deposito in cui vengono immagazzinate, come dei semi, le impronte delle azioni passate generate da emozioni negative. Con il prodursi delle condizioni adatte, germinano e si manifestano in forma di eventi e situazioni vitali.
Potete immaginare la base della mente ordinaria come una banca in cui è depositato il karma sotto forma di impronte e di tendenze abituali. Un modello di pensiero abituale, sia positivo sia negativo, sarà innescato e stimolato con grande facilità, ripresentandosi infinite volte. Ripetendole, le inclinazioni e le abitudini diventano sempre più radicate e si riproducono, accrescendosi e rafforzandosi, anche mentre dormiamo. Ecco come determinano la nostra vita, la morte e la rinascita.
Spesso ci domandiamo: “Come sarò dopo la morte?”. La risposta è che comunque sia ora il nostro stato mentale, qualunque tipo di persona siamo ora, così saremo al momento della morte, se non cambiamo. Per questo è essenziale usare questa vita, finché ne abbiamo la possibilità, per purificare il flusso mentale e quindi la qualità di tutto il nostro essere.
LA VISIONE KARMICA
Come mai abbiamo questa esistenza umana? Gli esseri dotati di uno stesso karma hanno un’identica visione del mondo che li circonda, e questa visione comune viene indicata come ‘visione karmica’. La stretta connessione tra il karma e la forma di esistenza in cui ci veniamo a trovare spiega anche la manifestazione di forme differenti. Voi e io, per esempio, siamo esseri umani a causa del karma che abbiamo in comune.
Tuttavia, nel regno umano, ciascuno di noi ha il proprio karma individuale. Nasciamo in famiglie, città, nazioni diverse; veniamo allevati ed educati in modo diverso; veniamo a contatto con influenze e credenze diverse, e tutti questi condizionamenti includono quel karma. Ognuno di noi è una complessa somma di abitudini e azioni passate, che ci fanno vedere le cose esclusivamente in quell’unico modo possibile. Gli esseri umani sembrano simili ma percepiscono le cose in modo diversissimo, ognuno vive nel suo mondo unico e strettamente personale. Nelle parole di Kalu Rinpoche: Se cento persone si addormentano e sognano, ciascuna sperimenterà un mondo diverso nel suo sogno. Ogni sogno si può definire vero, ma sarebbe privo di senso volersi accertare che solo un sogno è quello reale mentre tutti gli altri sono falsi. C’è una realtà per ogni percettore a seconda dei modelli karmici che condizionano la sua percezione.
I sei reami
L’esistenza umana non è l’unica visione karmica possibile. Il Buddhismo conosce sei reami di esistenza: dei, semidei, uomini, animali, spiriti affamati e inferni, che si manifestano come prodotto delle sei principali emozioni negative: orgoglio, invidia, desiderio, ignoranza, avidità e ira. Esistono veramente questi reami? Può darsi benissimo che esistano al di là della possibilità percettiva propria alla nostra visione karmica. Non dimenticate mai: veliamo ciò che la nostra visione karmica ci fa vedere, e nient’altro. Nella nostra attuale percezione impura e non evoluta possiamo percepire soltanto questo universo, così come un insetto potrebbe percepire un nostro dito come un paesaggio completo in se stesso. Siamo talmente arroganti che siamo convinti che ‘bisogna vedere per credere’. I grandi insegnamenti buddisti parlano invece di innumerevoli mondi in dimensioni diverse (ci possono anche essere mondi uguali o simili al nostro), e gli astrofisici hanno teorizzato l’esistenza di universi paralleli. Come possiamo stabilire con certezza cosa c’è e cosa non c’è oltre i confini della nostra visione limitata?
Osservando il mondo che ci circonda e la nostra stessa mente, vediamo che i sei reami esistono davvero. Esistono nel modo in cui lasciamo inconsciamente che le emozioni negative proiettino e cristallizzino interi mondi attorno a noi, determinando le modalità, la forma, il sapore e il contesto della nostra esistenza al loro interno. Ed esistono anche internamente, nel nostro sistema psicologico, in forma di semi e predisposizioni delle vane emozioni negative, sempre pronte a germinare e crescere in relazione alle influenze che ricevono e al modo in cui decidiamo di vivere.
Vediamo come facciamo a proiettare e cristallizzare alcuni reami nel mondo in cui viviamo. Prendiamo la caratteristica principale del regno degli dei: assenza di sofferenza, immutabile bellezza ed estasi dei sensi. Immaginiamoli. Alti e biondi surfisti, allungati sulla spiaggia o in giardini inondati dal sole, in ascolto della musica preferita, intossicati da ogni tipo di stimolanti, di meditazione, yoga, salute fisica e miglioramento di sé, senza mai bisogno di lavorare con il cervello, mai costretti ad affrontare situazioni difficili o dolorose, mai consci della loro vera natura, così anestetizzati da non avere nessuna consapevolezza della loro reale situazione. Se il regno degli dèi vi fa pensare alla California e all’Australia, immaginate l’esistenza dei semidei come la competizione e la rivalità di Wall Street, o i ribollenti corridoi di Washington o Whitehall. E gli spiriti affamati? Sono quelle persone immensamente ricche ma mai soddisfatte che si gettano in operazioni economiche una dopo l’altra o trascinano nei tribunali estenuanti processi causati dalla loro avidità. Accendete il televisore, su un canale qualunque, e siete immediatamente dentro il mondo dei semidei e degli spiriti affamati.
Anche se la qualità della vita divina parrebbe superiore alla nostra, i maestri ci ricordano che la vita umana è infinitamente più preziosa. Perché? Perché gli uomini possiedono l’intelligenza e la consapevolezza che costituiscono il materiale grezzo dell’illuminazione, e perché la sofferenza che pervade il reame umano è lo sprone alla trasformazione spirituale. Dolori, angosce, perdite e l’eterna frustrazione sono qui per uno scopo realistico e sensazionale: risvegliarci, metterci in condizione e costringerci quasi a sfondare il ciclo del samsara per liberare il nostro splendore imprigionato.
Tutte le tradizioni spirituali sottolineano il carattere unico della condizione umana, fornita di un potenziale che non riusciamo neppure a immaginare. Perdendo l’occasione offertaci dalla vita umana per trasformarci, esse affermano, forse dovrà passare moltissimo tempo prima di averne un’altra. Immaginate una testuggine cieca che vaga in fondo a un oceano grande come l’universo. Alla superficie galleggia un anello di legno, sballottato dalle onde. Una volta ogni cent’anni la testuggine sale alla superficie. I buddisti dicono che le probabilità che infili casualmente la testa nell’anello sono maggiori delle probabilità di nascere in forma umana. Inoltre, tra quanti nascono in forma umana, pochi sono coloro che hanno la fortuna di incontrare gli insegnamenti. Tra questi, quelli che li prendono a cuore e li incarnano nel comportamento sono ancora più rari, come le ‘stelle in pieno giorno’.
Le porte della percezione
Come ho detto, il modo di percepire il mondo dipende totalmente dalla nostra visione karmica. I maestri danno un esempio tradizionale: sei tipi di esseri si incontrano sulla sponda di un fiume. L’uomo del gruppo vede il fiume come acqua, un liquido per lavarsi e per estinguere la sete; per l’animale, un pesce, il fiume è la casa; il dio lo vede come nettare che dona beatitudine; il semidio come un’arma, lo spirito affamato come pus e sangue putrido, e l’essere infernale come lava fusa. L’acqua è una sola, ma i modi di percepirla sono totalmente diversi e persino contraddittori.
La molteplicità delle percezioni rivela che tutte le visioni karmiche sono illusorie. Se infatti un’identica sostanza può essere percepita in modi tanto diversi, come può qualunque cosa avere un’unica realtà intrinseca? Inoltre spiega perché alcuni uomini vivono il mondo come un inferno e altri come un paradiso.
Gli insegnamenti ci dicono che ci sono essenzialmente tre visioni: la ‘visione impura, karmica’ degli esseri ordinari; la ‘visione dell’esperienza’, che si spalanca ai praticanti nella meditazione e che costituisce la via, il mezzo per la trascendenza; e la ‘visione pura’ degli esseri realizzati. Un realizzato, un buddha, percepisce il mondo come spontaneamente perfetto, un reame di una purezza totale e abbagliante. Avendo purificato le cause della visione karmica, vede tutto nella sua nuda, primordiale sacralità.
Tutto quel che vediamo intorno a noi viene percepito così perché, vita dopo vita, siamo andati continuamente solidificando il modo di esperire la realtà interna ed esterna, giungendo alla falsa idea che quel che vediamo abbia una realtà oggettiva. Progredendo nel cammino spirituale, impariamo a lavorare direttamente sulle nostre percezioni solidificate. Tutti i vecchi concetti sul mondo, la materia e noi stessi si purificano e si dissolvono. Si spalanca una visione, una percezione completamente nuova, che potremmo chiamare ‘paradisiaca’. Scrive William Blake: Se le porte della percezione fossero purificate tutto apparirebbe… com’è, infinito.
Non dimenticherò mai Dudjom Rinpoche che, in un momento di intimità, si piegò verso di me e mi disse, con la sua voce pacata, fioca e leggermente acuta: “Tu sai, vero, che tutte queste cose che ci circondano spariscono, semplicemente spariscono…”.
Ma, in quasi tutti noi, il karma e le emozioni negative oscurano la capacità di vedere la nostra natura intrinseca e la natura della realtà. Di conseguenza ci aggrappiamo alla felicità e alla sofferenza come se fossero reali e, agendo per ignoranza e con poca abilità, seminiamo i semi della prossima rinascita.
Le azioni ci legano al ciclo interminabile dell’esistenza mondana, alla ruota infinita di nascita e morte. Ogni momento, ogni azione è un rischio. Come viviamo ora può compromettere il nostro futuro.
Questo è il vero, più urgente motivo per prepararci ora ad affrontare la morte con saggezza, per trasformare il nostro futuro karmico, per salvarci dalla tragedia di ricadere continuamente nell’illusione e di ripetere la dolorosa ruota di nascita e morte. Questa vita è l’unico momento e l’unico luogo in cui prepararci, e possiamo prepararci veramente solo attraverso una pratica spirituale. Ecco l’inevitabile messaggio del bardo naturale di questa vita.
Come si esprime Padmasambhava: Ora che il bardo di questa vita sta sorgendo su di me abbandonerò la pigrizia, per cui la vita non ha tempo seguirò senza distrarmi il sentiero dell’ascoltare e dell’udire della riflessione e della contemplazione, e della meditazione Rendendo le percezioni e la mente il mio sentiero realizzerò i ‘tre kaya’: la mente illuminata. Ora che per una volta ho un corpo umano non c’è tempo sul sentiero per lasciar vagare la mente.
LA SAGGEZZA DEL NON IO
A volte mi chiedo cosa proverebbe l’abitante di un villaggio tibetano che si trovasse scagliato improvvisamente in una metropoli moderna con tutta la sua sofisticata tecnologia. Probabilmente penserebbe di essere morto e di trovarsi nello stato di bardo. Guarderebbe a bocca aperta gli aerei che volano sulla sua testa o qualcuno che parla al telefono con un amico all’altro capo del mondo. Penserebbe di essere testimone di una serie di miracoli. Ma tutto ciò è normalissimo per l’uomo moderno che ha ricevuto un’educazione occidentale, con una cultura scientifica che spiega passo per passo l’evoluzione di tutte queste cose.
Allo stesso modo il Buddhismo tibetano offre una cultura spirituale normale ed elementare, un’educazione spirituale completa che spiega il bardo naturale di questa vita e che vi fornisce il lessico fondamentale,
l’abbiccì della mente. Questa educazione si fonda sui ‘tre strumenti della saggezza’: la saggezza dell’ascoltare e dell’udire, la saggezza della contemplazione e della riflessione, e la saggezza della meditazione.
Attraverso di essi ci risvegliamo alla nostra vera natura, scopriamo e arriviamo a incarnare la gioia e la libertà di ciò che siamo realmente, di ciò che chiamiamo la ‘saggezza del non io’.
Immaginate di risvegliarvi in ospedale dopo un incidente stradale e di soffrire di amnesia totale. Esternamente, tutto è come prima. Avete la stessa faccia e lo stesso corpo, i sensi e la mente funzionano come sempre, ma non conservate il minimo ricordo di chi siete. Esattamente allo stesso modo non abbiamo memoria della nostra vera identità, della nostra vera natura.
Terrorizzati, ci guardiamo attorno freneticamente e improvvisiamo un’altra identità a cui ci aggrappiamo con la disperazione di chi sta precipitando in un abisso. Questa identità falsa e assunta erroneamente è l’io.
L’io è quindi l’assenza della reale conoscenza di chi siamo, assieme ai suoi effetti: un catastrofico aggrapparci a ogni costo a un insieme abborracciato e a un’immagine improvvisata di noi stessi, a un sé ciarlatanesco inevitabilmente camaleontico che continua a cambiare e che deve farlo proprio per mantenere viva la finzione della sua esistenza.
In tibetano ‘io’ si dice dak dzin, che significa ‘aggrapparsi a un sé’. L’io è descritto come atti continui dell’afferrarsi a una nozione illusoria di io e mio, sé e altri; con tutti i concetti, le idee, i desideri e le azioni che servono a sostenere questa falsa costruzione. Tale attaccamento è vano sin dall’inizio e condannato alla frustrazione, poiché non ha alcun fondamento, alcuna realtà. Ciò a cui ci afferriamo è, per sua natura, inafferrabile. Il bisogno stesso di aggrapparci, e di insistervi tanto, rivela che nel profondo dell’essere sappiamo bene che il sé non esiste. Da questa nascosta spaventosa conoscenza derivano tutte le paure e le insicurezze basilari.
Finché non l’avremo smascherato, l’io seguiterà a raggirarci come un losco uomo politico che ostenta promesse menzognere, o come un avvocato che inventa sempre nuove difese incentrate su abili menzogne, o come l’ospite di una trasmissione televisiva che non finisce più di parlare in un fiume di chiacchiere affabili e vuote che suonano convincenti senza dire assolutamente nulla.
Vite e vite di ignoranza ci hanno portati a identificare la totalità del nostro essere con l’io. Il suo trionfo più grande è l’allettarci a considerare i suoi interessi come i nostri, e a identificare la nostra sopravvivenza con la sua. È una crudele ironia, considerando che proprio l’io e i suoi attaccamenti sono alla radice di tutta la sofferenza. L’io è così convincente, e tanto a lungo ne siamo stati la marionetta, che il solo pensiero di trovarci senza io ci terrorizza. Essere senza di me, sussurra l’io, significa perdere l’opulento romanzo di avventure dell’uomo, ridursi a uno scialbo robot, a un vegetale senza cervello.
L’io gioca sicuro con la nostra paura di perdere il controllo, con la paura dell’ignoto. Forse ci diciamo: “Devo lasciar davvero perdere l’io, è una tale sofferenza…”, ma poi continuiamo: “Ma, se lo faccio, che cosa mi accadrà?”. Subdolo, l’io approva: “So di essere a volte una noia e, credimi, capisco che tu desideri che me ne vada. Ma è questo che vuoi davvero? Rifletti. Se me ne vado, che cosa sarà di te? Chi si prenderà cura di te? Chi ti proteggerà, chi veglierà su di te come ho fatto per tutti questi anni?”.
Anche se riusciamo a smascherare le sue menzogne, abbiamo troppa paura di abbandonarlo. Infatti, senza una vera conoscenza della natura della mente, della nostra vera identità, non abbiamo alternative. E di nuovo ci sottometteremo alle sue richieste con lo stesso triste disprezzo di sé dell’alcolista in cerca della bottiglia che sa che lo distrugge, o del drogato in cerca della dose pur sapendo che, dopo un breve momento di esaltazione, lo lascerà abbattuto e disperato.
L’IO SUL SENTIERO SPIRITUALE
Intraprendiamo un sentiero spirituale proprio per mettere fine alla strana tirannia dell’io. Ma le sue risorse sono infinite, e in ogni momento può sabotare e sviare il desiderio di liberarcene. La verità è semplice e gli insegnamenti sono chiarissimi. Ma quante volte ho visto, con grande tristezza, che appena ci toccano e ci stimolano l’io interviene a complicarli perché sa che lo minacciano.
All’inizio, quando il sentiero spirituale e le sue possibilità ci affascinano, l’io può addirittura incoraggiarci, dicendo: “Questo è davvero magnifico! La cosa giusta per te. È un insegnamento perfettamente ragionevole”.
Quando decidiamo di incominciare una pratica di meditazione o di partecipare a un ritiro, sempre l’io mormora: “Splendida idea! Vengo con te, così entrambi potremo imparare qualcosa”. Per tutta la luna di miele del nostro sviluppo spirituale l’io continua a incalzarci: “È bellissimo, sbalorditivo, stimolante…”.
Poi, quando arriviamo a quella che chiamo la ‘piatta quotidianità’ del sentiero spirituale, e quando gli insegnamenti cominciano a toccarci in profondità, siamo messi inevitabilmente a faccia a faccia con noi stessi. L’io viene svelato, punto sul vivo, e iniziano i problemi. È come se avessimo di fronte uno specchio da cui non possiamo distogliere lo sguardo. Lo specchio è perfettamente pulito, ma dentro c’è una brutta faccia che
ci guarda in cagnesco. È la nostra. Ci ribelliamo, perché ciò che vediamo non ci piace. Possiamo prendere rabbiosamente a pugni lo specchio e fracassarlo, con l’unico risultato che si frantumerà in centinaia di brutte facce identiche che continueranno a fissarci.
È il momento della rabbia, dell’amara protesta. Ma… dov’è il nostro io? Devotamente accanto a noi, per incitarci: “Hai perfettamente ragione. Tutto questo è una vergogna insopportabile. Non puoi tollerarlo”. Mentre gli diamo ascolto, affascinati, l’io lavora a fabbricare ogni sorta di dubbi e di emozioni folli, gettando altra legna sul fuoco: “Adesso ti rendi conto che non era l’insegnamento giusto per te? Quante volte te l’ho detto! Non vedi che non può essere questo il tuo maestro? Sei un occidentale intelligente, moderno e sofisticato, e tutti questi esotismi… zen, sufismo, meditazione, Buddhismo tibetano… appartengono alle culture orientali estranee. Quale bene potresti ricavare da una filosofia escogitata sull’Himalaya più di mille anni fa?”.
Mentre l’io ci guarda giulivo, restiamo sempre più invischiati nella sua rete. Imputerà il dolore, il senso di solitudine e le difficoltà che incontriamo nel processo di autoconoscenza all’insegnamento e persino all’insegnante: “Questi guru non si curano minimamente di come stai. Vogliono solo sfruttarti. Usano le parole ‘compassione’ e ‘devozione’ solo per averti in loro potere”.
L’io è talmente astuto da rigirare gli insegnamenti per i suoi scopi. Si dice infatti che il diavolo cita le scritture a suo solo vantaggio. La sua ultima arma è puntare ipocritamente il dito contro il maestro e i discepoli, dicendo: “Nessuno lì dentro vive secondo gli insegnamenti!”. Si erge a virtuoso giudice della condotta altrui: la posizione più scaltra per minare la fede, per erodere ogni devozione, ogni impegno al cambiamento spirituale.
Ma, per quanto l’io cerchi di sabotare il cammino spirituale, se continuate a seguirlo e vi impegnate profondamente nella pratica della meditazione, incomincerete pian piano a capire quanto siete stati ingannati dalle sue promesse, che sono false speranze e false paure. Pian piano incominciate a capire che la speranza e la paura sono nemici della pace mentale. Le speranze ingannano, lasciandovi vuoti e delusi. Le paure vi paralizzano nella stretta cella della vostra falsa identità. Inoltre, cominciate a vedere com’era totale il controllo dell’io sulla mente e, nello spazio di libertà spalancato dalla meditazione, quando siete momentaneamente liberi dall’attaccamento, avete un barlume della tonificante spaziosità della vostra vera natura. Capite che per anni l’io, come un pazzo artista della truffa, vi ha imbrogliato con piani, programmi e promesse irreali che vi hanno portato soltanto alla bancarotta interiore. Quando, nell’equanimità della meditazione, vedete tutto ciò senza atteggiamenti consolatori e senza desiderio di nascondere quello che avete scoperto, tutti i piani e gli stratagemmi diventano vuoti e incominciano a sgretolarsi.
Non è un processo soltanto distruttivo. Accanto alla comprensione netta, e a volte dolorosa, della fraudolenza e della virtuale criminalità dell’io, nostro e di tutti, cresce un senso di espansione interiore, la conoscenza diretta dell’assenza di io e dell’interdipendenza di tutte le cose, con in più quell’umore vivace e generoso che è il marchio di fabbrica della libertà.
Avendo imparato, attraverso la disciplina, a semplificare la vita, riducendo così le possibilità dell’io di sedurvi; avendo praticato la consapevolezza della meditazione, allentando così la presa dell’aggressività, dell’attaccamento e della negatività, la saggezza della comprensione intuitiva può sorgere pian piano. Nella chiarità della sua luce che illumina tutto, questa comprensione rapida e diretta vi rivela, direttamente e distintamente, sia i più sottili processi mentali sia la natura della realtà.
LA GUIDA SAGGIA
Dentro di voi vivono da sempre due persone. La prima è l’io: petulante, pretenzioso, isterico e calcolatore. La seconda è l’essere spirituale nascosto, la cui ferma voce di saggezza avete solo raramente udito e ascoltato. Più ascoltate gli insegnamenti, più li contemplate e li integrate
nella vita, più si risveglia e si rafforza la voce interiore, la saggezza innata del discernimento che nel Buddhismo viene chiamata ‘consapevolezza discriminante’. Incominciate a distinguere tra la sua guida e le insistenti e suadenti voci dell’io. Inizia a farsi strada in voi il ricordo della vostra vera natura, in tutto il suo splendore e certezza.
Vi accorgete di aver trovato in voi stessi la vostra saggia guida interiore. Poiché lei, o lui, vi conosce bene; poiché è voi stessi, può aiutarvi, con sempre più chiarezza e umorismo, a trattare con le difficoltà dei pensieri e delle emozioni. È una guida che può diventare una presenza costante, gioiosa, tenera e a volte burlona, che sa sempre che cos’è bene per voi e che vi aiuta a trovare sempre nuove strade per togliervi dalle ossessioni, dalle risposte automatiche e dalle emozioni confuse. Più la voce della coscienza discriminante si fa forte e chiara, più distinguete tra la sua verità e gli inganni dell’io, più imparate ad ascoltarla con discernimento e fiducia.
Più le darete ascolto, più riuscirete a trasformare da soli e con facilità gli stati d’animo negativi, vedendoli in trasparenza e magari ridendo all’assurdità dei drammi e alle ridicole illusioni che rappresentano. Vi scoprirete capaci di liberarvi sempre più in fretta dalle emozioni oscure che hanno sempre tiranneggiato la vostra vita. Questa capacità è il miracolo più grande. Un mistico tibetano, Terton Sogyal, diceva che non era per nulla impressionato da una persona capace di trasformare il pavimento in soffitto o il fuoco in acqua; ciò che realmente lo impressionava era vedere una persona capace di liberarsi anche da una sola emozione negativa.
A poco a poco, invece delle chiacchiere sgradevoli e dispersive con cui l’io vi ha infastidito per tutta la vita, comincerete a udire nella vostra mente le chiare istruzioni degli insegnamenti, che di attimo in attimo vi ispirano, avvertono, guidano e dirigono. Più li ascoltate, più ricevete guida. Seguendo la voce della saggia guida, la voce della consapevolezza discriminante, e lasciando che l’io faccia silenzio, sperimenterete la saggezza, la gioia e la beatitudine che voi siete in realtà. Comincia in voi una vita nuova, totalmente diversa da quella in cui indossavate la maschera dell’io. Quando la morte arriverà, avrete imparato a controllare le emozioni e i pensieri che negli stati successivi alla morte, i bardo, vi sarebbero parsi altrimenti come una schiacciante realtà.
Più fa effetto la cura contro l’amnesia riguardo alla vostra identità, più capite che la radice di tutta la sofferenza è il dak dzin, l’aggrapparsi a un sé. Finalmente vedrete il danno che ha provocato a voi e agli altri, e comprenderete che la cosa più nobile e saggia da fare è aver cura degli altri invece che di se stessi. Questo guarirà il vostro cuore, guarirà la mente e guarirà lo spirito.
È importante ricordare sempre che ‘non io’ non significa che prima c’era un io e che i buddhisti l’hanno fatto fuori. Al contrario, significa capire che non c’è assolutamente mai stato nessun io. Proprio per questo si chiama ‘non io’.
I TRE STRUMENTI DELLA SAGGEZZA
La scoperta della libertà rappresentata dalla saggezza del non io, ci dicono i maestri, passa per tre processi: ascolto, contemplazione e riflessione, meditazione. Essi ci consigliano di incominciare con l’ascoltare più e più volte gli insegnamenti spirituali. Ascoltiamo ciò che ci ricorda continuamente la nostra nascosta natura di saggezza. Siamo come quel malato di amnesia che giace in un letto di ospedale, mentre una persona che ci vuole bene ci sussurra all’orecchio il nostro nome, ci fa vedere le fotografie di familiari e vecchi amici nel tentativo di farci ricordare l’identità perduta. Ascoltando ripetutamente gli insegnamenti, alcuni passi, alcune intuizioni faranno vibrare una strana corda; incominceranno a farsi strada ricordi della nostra vera natura, si risveglierà lentamente una profonda sensazione di qualcosa di stranamente familiare.
Ascoltare è molto più difficile di quanto si pensi. Il vero ascolto, nel senso indicato dai maestri, significa abbandonare completamente noi stessi, le nozioni, i concetti, le idee e i pregiudizi di cui ci siamo riempiti la testa. Ascoltando realmente gli insegnamenti, i concetti, che sono il vero ostacolo, l’unica cosa che si frappone tra noi e la nostra vera natura, pian piano ma con fermezza vengono spazzati via.
Spesso ho tratto ispirazione, per quanto riguarda l’ascolto, da queste parole del maestro Zen, Suzuki Roshi: “Se la vostra mente è vuota, è sempre pronta per qualsiasi cosa; è aperta a tutto. Nella mente di principiante ci sono molte possibilità; in quella da esperto, poche”. La mente di principiante è una mente aperta, vuota, pronta. Se ascoltiamo con una mente di principiante, potremo davvero incominciare a udire. Ascoltare con mente silenziosa, il più possibile libera dallo strepito delle idee preconcette, dà alla verità degli insegnamenti la possibilità di entrare dentro di noi, così che il significato della vita e della morte diventa sempre più chiaro. Il mio maestro Dilgo Khyentse Rinpoche diceva: “Più ascolti, più odi; più odi, più la tua comprensione si approfondisce”.
A sua volta, la comprensione si approfondisce attraverso la contemplazione e la riflessione, che sono il secondo strumento di saggezza. Man mano che lo contempliamo, ciò che abbiamo udito incomincia a permeare di sé il nostro flusso mentale e a intridere la nostra esperienza interiore della vita. Più la contemplazione si dispiega e arricchisce ciò che abbiamo incominciato a comprendere intellettualmente, più la comprensione scende dalla testa al cuore. Allora ogni evento quotidiano riflette e conferma, sempre più distintamente e profondamente, le verità degli insegnamenti.
Il terzo strumento di saggezza è la meditazione. Ascoltati gli insegnamenti e riflettuto su di essi, mettiamo in pratica le intuizioni sviluppate e le applichiamo direttamente, attraverso la meditazione, alle necessità della vita quotidiana.
DUBBI SUL SENTIERO
Si dice che, nei tempi antichi, un maestro eccezionale poteva con un solo insegnamento far risvegliare uno studente eccezionale. Dudjom Rinpoche raccontava spesso la storia di un bandito indiano che, dopo molte scorrerie, capì quale tremenda sofferenza aveva causato. Desiderando espiare, si recò da un famoso maestro e gli disse: “Sono un peccatore, e ne sono tormentato. Come uscirne? Cosa posso fare?”. Il maestro lo considerò per bene, poi gli domandò cosa sapesse fare. “Niente”, rispose il bandito. “Niente?”, latrò il maestro. “Qualcosa devi pure saper fare!”. Il bandito rimase in silenzio per un po’, poi disse: “In realtà, una cosa la so fare: rubare”.
Il maestro ridacchiò: “Ottimo. Proprio quello che ti serve. Vai in un luogo tranquillo e deruba le tue percezioni, saccheggia le stelle e i pianeti nel cielo e dissolvili nel ventre della vacuità, nello spazio della natura della mente che comprende tutto”. In tre settimane il bandito realizzò la natura della mente e divenne uno dei più grandi santi dell’India.
Un tempo c’erano maestri straordinari e studenti ricettivi e risoluti come il nostro bandito che, praticando con devozione irremovibile un’unica istruzione, riuscivano a raggiungere la liberazione. Anche oggi, se ci dedichiamo a un metodo di saggezza molto potente e vi lavoriamo direttamente, c’è un’effettiva possibilità di diventare illuminati
Purtroppo la nostra mente è stipata e dominata dai dubbi. A volte penso che il dubbio sia un ostacolo all’evoluzione umana ancora più grande del desiderio e dell’attaccamento. La nostra società favorisce l’astuzia più che la saggezza, esalta gli aspetti più superficiali, rozzi e meno utili dell’intelligenza.
Siamo diventati così falsamente ‘sofisticati’ e nevrotici che prendiamo il dubbio per verità – mentre il dubbio, che non è che il disperato tentativo dell’io di difendere se stesso dalla saggezza, viene deificato e fatto coincidere con il frutto della vera conoscenza. Questa forma meschina di dubbio è il gretto dittatore del samsara, servito da uno stuolo di ‘esperti’ che non insegnano il dubbio disponibile e generoso che il Buddha richiede per provare e verificare la validità degli insegnamenti, ma il dubbio distruttivo che non lascia niente in cui credere e in cui sperare, niente su cui basare la vita.
L’educazione moderna ci indottrina spingendoci a glorificare il dubbio, e ha creato ciò che si potrebbe quasi chiamare una religione o una teologia del dubbio. Per dimostrare di essere intelligenti, dobbiamo affermare di dubitare di tutto, indicare sempre ciò che è sbagliato chiedendo raramente ciò che è buono o giusto, denigrare cinicamente tutti gli ideali spirituali ereditati e tutto ciò che viene fatto per bontà e innocenza
Altro è il dubbio a cui ci invita il Buddha, quello che “esamina l’oro; lo scalda, lo lima e lo sfrega per verificarne la purezza”. Ma, per questo dubbio che ci esporrebbe davvero alla verità se solo lo seguissimo fino alla fine, non abbiamo né l’intuizione, né il coraggio e né l’allenamento Siamo stati educati a una sterile dipendenza per la contraddizione che non ha fatto altro che derubarci di ogni vera apertura a qualsiasi verità più ampia e più nobilitante.
Invece dell’attuale dubbio nichilista, vorrei chiedervi di aderire a ciò che chiamo il ‘nobile dubbio’, che è parte integrante del cammino verso I illuminazione. Questo nostro mondo in pericolo di sopravvivenza non può permettersi di respingere l’ampia verità degli insegnamenti mistici Invece di dubitare degli insegnamenti, perché non dubitiamo di noi: della nostra ignoranza, della presunzione di sapere già tutto, degli attaccamenti, delle fughe, della passione per le sedicenti spiegazioni della realtà che non hanno niente di quella saggezza che suscita reverenza e che tutto abbraccia, la saggezza che ci trasmettono i maestri, i messaggeri della Realtà?
Il nobile dubbio ci sprona, ispira, verifica, ci rende sempre più autentici, ci rinvigorisce e ci attira sempre più nell’esaltante campo d’energia della verità. Ogni volta che sono in compagnia dei miei maestri, pongo ripetutamente le domande a cui ho bisogno di dare risposta. A volte non ottengo risposte precise, ma non per questo dubito di loro o degli insegnamenti. Ciò di cui dubito è la mia maturità spirituale o la mia capacità di udire realmente la verità in modo da poterla comprendere appieno Perciò insisto con le domande, finché ottengo una risposta chiara. Quando la risposta arriva, e risuona forte e pura nella mia mente, e il cuore risponde con un sobbalzo di gratitudine mentre la riconosce, nasce in me una certezza che la derisione di un mondo di dubbiosi non potrà mai distruggere.
Ricordo che, in una tersa notte di luna invernale viaggiavo in macchina con una mia studentessa. Andavamo da Parigi in Italia. Era una terapeuta che si era specializzata in molte tecniche diverse. Ciò che aveva capito, mi disse, era che più nozioni si hanno e più sono i dubbi. Più la verità tocca in profondità, e più sono sottili le scuse per dubitare. Quante volte, mi disse, aveva tentato di fuggire dagli insegnamenti! Ma infine aveva capito che non c’era nessun posto in cui andare, perché ciò da cui voleva fuggire era se stessa.
Le dissi che il dubbio non è una malattia ma un semplice sintomo della mancanza di ciò che, nella nostra tradizione, chiamiamo la ‘Visione’, cioè la comprensione della natura della mente e quindi della natura della realtà.
Quando la Visione è presente e completa non c’è possibilità della minima traccia di dubbio, perché allora vedremo la realtà con i suoi stessi occhi. Ma, continuai, finché non si è raggiunta l’illuminazione i dubbi sono inevitabili. Il dubbio è infatti un’attività connaturata alla mente non illuminata, e l’unico modo per affrontarlo sta nel non reprimerlo e non alimentarlo.
Affrontare i dubbi richiede una grande abilità, ma mi accorgo che pochi hanno idea di come utilizzarli. Ironicamente, in una cultura che adora il potere distruttivo del dubbio, quasi nessuno ha il coraggio di distruggere le pretese del dubbio, o, come si è espresso un maestro induista, aizzare i cani del dubbio contro il dubbio stesso, per smascherare il cinismo e scoprire da dove ha origine: dalla paura, dalla disperazione, dall’assenza di speranza e dal trito condizionamento. Se lo facessimo, il dubbio non sarebbe più un ostacolo ma una porta della comprensione. Ogni volta che il dubbio si presenta alla mente, il ricercatore lo accoglierebbe come un mezzo per penetrare più a fondo nella verità.
C’è una storia su un maestro zen che mi piace molto. Il maestro aveva uno studente pieno di fede ma ingenuo, che lo considerava un buddha vivente. Un giorno il maestro siede accidentalmente su uno spillo, grida: “Ahi!” e salta per aria. Lo studente perdette all’istante la fede e se ne andò, deluso perché il maestro non era pienamente illuminato. Se lo fosse stato, pensò, come avrebbe potuto balzare in aria e strillare a quel modo? Il maestro ne fu molto rattristato. “Poveretto”, disse. “Se solo avesse riconosciuto che in realtà non esistiamo né io, né lo spillo né il grido!”.
Non commettiamo, per impulsività, l’errore di quello studente. Non prendiamo i dubbi con troppa serietà, non lasciamoli crescere spropositatamente, non diventiamo fanatici e non dividiamo tutto in bianco o nero. Dobbiamo imparare a trasformare a poco a poco il coinvolgimento con il dubbio, emotivo e culturalmente condizionato, in un rapporto libero, compassionevole e ricco di umorismo. Significa dare tempo al dubbio e darlo anche a noi, per trovare risposte alle domande più vitali, più vere, genuine e utili, e non solo intellettuali o ‘filosofiche’. I dubbi non si sciolgono immediatamente. Ma, se siamo pazienti, si creerà in noi uno spazio in cui potremo esaminarli con attenzione e oggettivamente, per dipanarli, scioglierli e guarirli. Ciò che ci manca, soprattutto in questa cultura, è un giusto ambiente mentale spazioso e non frammentato che si può creare soltanto con una continua pratica meditativa, e in cui le intuizioni abbiano la possibilità di crescere e maturare.
Non abbiate fretta di risolvere tutti i dubbi e problemi. Come dicono i maestri: “Affrettati lentamente”. Consiglio sempre i miei studenti di non nutrire aspettative irragionevoli, perché la crescita spirituale richiede tempo. Se ci vogliono anni per imparare il giapponese o laurearsi in medicina, pretenderemmo di avere tutte le risposte, per non parlare dell’illuminazione, in poche settimane? Il cammino spirituale è un continuo apprendere e purificarsi. Sapere ciò, ci fa diventare umili. C’è un famoso detto tibetano: “Non confondere la comprensione con la realizzazione, e non confondere la realizzazione con la liberazione”. E Milarepa: “Senza nutrire speranze di realizzazione, pratica per tutta la vita”. Tra le cose che più apprezzo della tradizione a cui appartengo c’è la praticità, terra terra e molto sensata, che sa che i risultati migliori richiedono la più profonda pazienza e moltissimo tempo.
Fonte: Il libro tibetano del vivere e del morire. http://www.esonet.org/wp-content/uploads/2013/05/136069562-Il-Libro-Tibetano-del-Vivere-e-del-Morire-Sogyal-Rinpoche.pdf