Sogyal Rinpoche: Ciò che non cambia. La natura della mente.
Ciò che non cambia.
L’impermanenza ci ha ormai svelato molte sue verità, ma conserva un ultimo tesoro, nascosto, insospettato e sconosciuto, eppure intimamente nostro.
Il poeta Rainer Maria Rilke dice che le nostre paure più profonde sono come draghi a guardia dei tesori più nascosti. La paura che l’impermanenza suscita in noi, la paura che niente sia reale e che niente duri, si rivela il nostro migliore amico. Infatti ci porta a chiederci: se tutto muore e cambia, che cos’è reale? C’è oltre le apparenze qualcosa di infinito e immensamente vasto, qualcosa entro cui avviene la danza del cambiamento e dell’impermanenza? C’è qualcosa a cui poterci appoggiare, che sopravvive a ciò che chiamiamo morte?
Lasciando che queste domande ci pervadano con un senso di urgenza, e riflettendovi, scopriremo a poco a poco che il nostro modo di vedere le cose cambierà profondamente. Con la contemplazione e la continua pratica del lasciar andare arriveremo a scoprire in noi stessi un ‘qualcosa’ impossibile da denominare, descrivere o razionalizzare; ‘qualcosa’ che, incominciamo a capire, è al di là di tutti i cambiamenti e le morti di questo mondo. I desideri restrittivi e le distrazioni a cui ci condannava l’ossessione di aggrapparci alla permanenza si dissolvono e si frangono.
Quando questo accade, abbiamo ripetuti e luminosi barlumi delle immense implicazioni della verità dell’impermanenza. È come aver passato tutta la vita su un aereo che vola tra nuvole e turbolenze, finché di colpo emerge nel cielo luminoso e sconfinato. Ispirati e tonificati da questa emersione in una nuova dimensione di libertà, scopriamo la profondità della pace, della gioia e della fiducia in noi stessi che ci riempie di meraviglia e genera a poco a poco la certezza che in noi c’è ‘qualcosa’ che niente può distruggere o alterare, qualcosa che non muore. Come scrisse Milarepa: “Per orrore della morte, presi la via delle montagne.
A lungo meditando sull’incertezza dell’ora della morte catturai la fortezza della natura della mente, priva di morte e priva di fine. Ora ogni paura della morte è fugata, svanita!”
A poco a poco diventiamo consapevoli della presenza calma e simile al cielo di ciò che Milarepa chiama la natura della mente priva di morte e priva di fine. Quando questa nuova consapevolezza comincia a divenire vivida e quasi ininterrotta, accade ciò che le Upanishad definiscono “una svolta nella sede della coscienza”: una rivelazione personale e assolutamente non concettuale di ciò che siamo, del perché siamo qui e di come dobbiamo agire. È una nuova vita, una nuova nascita, potremmo quasi dire una resurrezione.
Che mistero splendido e risanante che, dalla contemplazione costante e senza paura della verità del cambiamento e dell’impermanenza, gradualmente ci troviamo a faccia a faccia, colmi di gratitudine e di gioia, con la verità dell’immutevole, con la verità dell’imperitura natura infinita della mente!
La natura della mente
Confinati nella gabbia ristretta e tenebrosa, nella gabbia che abbiamo costruito noi stessi e che scambiamo per l’intero universo, davvero pochi di noi riescono persino a immaginare un’altra dimensione di realtà. Patrul Rinpoche racconta la storia di una vecchia rana che aveva passato tutta la vita in un fetido pozzo. Un giorno andò a trovarla una rana che viveva nel mare.
“Da dove vieni?”, chiese la rana del pozzo.
“Dal grande oceano”.
“Com’è grande questo tuo oceano?”.
“Immenso”.
“Più o meno come un quarto del mio pozzo?”.
“Più grande”.
“Come la metà?”. “Ancora più grande”.
“Grande… come tutto il pozzo?”.
“Non c’è confronto”.
“È impossibile! Devo vederlo con i miei occhi”.
Si misero in viaggio insieme. Quando la rana del pozzo vide l’oceano ne ebbe un colpo tale che la testa le volò in mille pezzi.
La maggior parte dei miei ricordi d’infanzia in Tibet è svanita, ma due vivranno per sempre in me: entrambi riguardano il momento in cui il mio maestro Jamyang Khyentse mi introdusse alla natura essenziale, originale e più intima della mia mente.
All’inizio ero reticente a rivelare queste mie esperienze personali, perché in Tibet esse non sono mai svelate, ma studenti e amici erano convinti che sarebbe stato di aiuto per gli altri, e mi supplicarono insistentemente perché ne scrivessi.
Il primo di quei due momenti risale ai miei sei o sette anni. Avvenne in quella stanza molto speciale dove viveva Jamyang Khyentse, di fronte a una grande statua della sua precedente incarnazione, Jamyang Khyentse Wangpo. Era una statua solenne che ispirava venerazione, specialmente quando la luce della lampada a olio ne illuminava tremolante i tratti del volto. Prima che potessi rendermene conto, il mio maestro fece una cosa stranissima: senza preavviso mi abbracciò e mi sollevò da terra. Poi mi diede un bacio formidabile sulla guancia. Per un lungo istante la mia mente scomparve e mi trovai avvolto in un’immensità di tenerezza, calore, fiducia e potere.
L’altro momento fu più formale. Avvenne in una caverna a Lhodrak Kharchu dove aveva meditato Padmasambhava, il grande santo e padre del Buddhismo tibetano. Era una tappa del nostro pellegrinaggio nel Tibet meridionale, e avevo sui nove anni. Il mio maestro mi aveva mandato a chiamare e mi aveva fatto sedere di fronte a sé. Eravamo noi due soli. Mi disse: “Ora ti introdurrò alla natura essenziale della mente”. Prese la campana e il piccolo tamburo, e cantò l’invocazione a tutti i maestri del lignaggio, dal Buddha Primordiale al suo maestro. Poi mi diede l’introduzione. Improvvisamente mi rivolse una domanda senza risposta: “Che cos’è la mente?”, e mi fissò intensamente negli occhi.
Ero stato colto di sorpresa. La mia mente andò in pezzi. Non rimanevano parole, nomi, pensieri… di fatto, non rimaneva nessuna mente.
Che cos’era accaduto in quell’istante sbalorditivo? I pensieri passati si erano dissolti, il futuro non era ancora nato, e il flusso dei miei pensieri fu troncato di colpo. In quel momento di puro sconcerto si aprì un varco, e in quell’apertura si allargava la nuda, immediata consapevolezza del presente, libera da qualunque attaccamento. Era semplice, nuda, essenziale. Una semplicità nuda ma radiosa di calore e di immensa compassione.
Quante cose potrei dirvi di quel momento! Evidentemente il mio maestro mi aveva fatto una domanda, ma sapevo che non si aspettava nessuna risposta. Prima ancora che potessi mettermi a caccia di una risposta, seppi che non ce n’erano. Stavo seduto, folgorato dallo stupore, mentre una profonda, luminosa certezza mai conosciuta prima zampillava dentro di me.
Il mio maestro mi aveva chiesto: “Che cos’è la mente?”, e in quell’istante era come se sentissi che tutti sapevano che non c’è una cosa come la mente, e io ero l’ultimo ad essermene accorto. Come sembrava ridicolo anche solo cercarla! L’introduzione del mio maestro aveva gettato in me un seme profondo. In seguito seppi che quella era l’introduzione adottata nel nostro lignaggio. Ignorarlo fece sì che la cosa accedesse in modo del tutto inaspettato, e quindi molto più stupefacente e potente.
Nella nostra tradizione diciamo che, per introdurre alla natura della mente, occorrono ‘tre cose autentiche’: la benedizione di un autentico maestro, la devozione di un autentico studente, e l’autentico lignaggio del metodo di introduzione.
Il Presidente degli Stati Uniti non può introdurvi alla natura della mente, e neppure vostro padre o vostra madre. Non importa quanto potere abbiano o quanto vi amino. Solo chi l’ha realizzata, e che trasmette la benedizione e l’esperienza del lignaggio, vi può introdurre a essa.
Voi, in quanto studenti, dovete trovare e nutrire continuamente l’apertura, l’ampiezza di visione, la volontà, l’entusiasmo e la venerazione che cambiano completamente l’atmosfera della vostra mente e vi rendono ricettivi all’introduzione. È questo che si intende per devozione. Senza di ciò, il maestro può dare l’introduzione ma lo studente non la riconoscerà.
L’introduzione alla natura della mente è possibile solo se maestro e studente entrano insieme nella stessa esperienza. Solo in questa unione di mente e cuore lo studente può realizzarla.
Anche il metodo è essenziale. Si tratta dell’identico metodo provato e verificato per migliaia di anni, e che ha permesso ai maestri del passato di ottenere la realizzazione.
Dandomi l’introduzione in modo tanto spontaneo, e a un’età tanto tenera, il mio maestro si comportò in maniera abbastanza inusuale. Di norma si fa più tardi, dopo che il discepolo ha completato le pratiche di meditazione preliminari e le purificazioni. Queste maturano il cuore e la mente dello studente, e lo aprono alla realizzazione diretta della verità. Nell’istante pieno di potere dell’introduzione, il maestro può dirigere la sua realizzazione della natura della mente, che viene chiamata la ‘mente di saggezza’ del maestro, nella mente dello studente, ora autenticamente ricettivo. Ciò che fa il maestro è nientemeno che introdurre lo studente a ciò che è veramente il Buddha, risvegliarlo cioè alla viva presenza interiore dell’illuminazione. In questa esperienza il Buddha, la natura della mente e la mente di saggezza del maestro sono fuse in un’unica cosa, e come un’unica cosa vengono rivelate. Allora, in una vampata di gratitudine, il discepolo riconosce oltre ogni ombra di dubbio che non c’è, non c’è mai stata e non ci potrà mai essere alcuna separazione: tra studente e maestro, tra la mente di saggezza del maestro e la natura della mente dello studente. Dudjom Rinpoche, nella sua famosa descrizione della realizzazione, scrive: “Poiché la pura consapevolezza dell’istante presente è il vero Buddha, nell’apertura e nell’appagamento trovai il Lama nel mio cuore”.
Realizzando che la mente naturale e senza fine è la vera natura del Lama, non servono più preghiere interessate, supplichevoli o avide, né proteste artificiose.
Semplicemente rilassandoci in questo stato naturale, aperto e non forzato, si ottiene la benedizione dell’autoliberazione senza scopo di tutto ciò che sorge.
Dal momento in cui riconoscete che la natura della vostra mente è identica a quella del maestro, non sarete mai più separati da lui. Il maestro è uno con la natura della vostra mente, sempre presente, così com’è. Vi ricordate di lama Tseten, alla cui morte assistetti da bambino? Anche se poteva avere il maestro fisicamente presente al suo letto di morte, disse: “Con il maestro, la distanza non esiste”.
Una volta riconosciuto, come lama Tseten, che il maestro e voi siete inseparabili, nasce un enorme senso di gratitudine, di reverenza e di omaggio. Dudjom Rinpoche lo chiama l’omaggio della Visione, una devozione che sgorga spontaneamente quando si ha la Visione della natura della mente.
Beneficiai di molti altri momenti di introduzione, sia durante gli insegnamenti che le iniziazioni, e in seguito ricevetti l’introduzione dagli altri miei maestri. Dopo la morte di Jamyang Khyentse, mi prese a benvolere Dudjom Rinpoche, a cui feci da interprete per molti anni. Si aprì così un’altra fase della mia vita.
Dudjom Rinpoche era uno dei più famosi maestri e mistici tibetani, studioso e autore di testi. Jamyang Khyentse parlava sempre dell’eccezionale figura di maestro di Dudjom Rinpoche, che considerava il rappresentante vivente di Padmasambhava nell’epoca attuale. Nutrivo un profondo rispetto nei suoi confronti, anche se non avevamo rapporti personali e non ne conoscevo l’insegnamento. Un giorno, dopo la morte del mio maestro, quando ero sui vent’anni, gli feci una visita di cortesia nella sua casa di Kalimpong, una stazione climatica dell’Himalaya.
Era in compagnia di una delle sue prime studentesse americane, a cui stava dando insegnamenti. La situazione era frustrante, perché non c’era un interprete in grado di tradurre in inglese gli insegnamenti sulla natura della mente. Vedendomi entrare, Dudjom Rinpoche esclamò: “Ah, sei qui. Ottimo! Puoi tradurre per lei?”. Sedetti e incominciai a tradurre. In poco più di un’ora Dudjom Rinpoche diede un insegnamento stupefacente, in cui incluse tutto. Ero così commosso e ispirato che mi vennero le lacrime agli occhi, e capii quello che intendeva Jamyang Khyentse.
Al termine dell’incontro chiesi a Dudjom Rinpoche di dare insegnamenti anche a me. Ogni pomeriggio mi recavo a casa sua, dove passavo molte ore. Era piccolo, dal volto bello e dolce, morbide mani e una presenza delicata, quasi femminile. Portava i capelli lunghi, legati in una crocchia come uno yogi. Gli occhi splendevano di un segreto divertimento. La sua voce sembrava la voce stessa della compassione, morbida e un po’ roca. Sedeva su un basso sedile coperto da un tappeto tibetano e io sedevo un po’ più in basso. Lo ricorderò sempre seduto lì, mentre l’ultimo sole entrava dalla finestra alle sue spalle.
Un giorno, mentre ricevevo insegnamenti e praticavo con lui, ebbi l’esperienza più sbalorditiva. Mi stava accadendo tutto ciò che avevo sentito negli insegnamenti: tutti gli oggetti materiali attorno a noi si stavano dissolvendo. Eccitatissimo, esclamai: “Rinpoche… Rinpoche… sta accadendo!”. Non dimenticherò mai la compassione sul suo volto mentre si piegava verso di me per venirmi in aiuto: “È tutto a posto, è tutto a posto… Non eccitarti. In fondo, non è né buono né cattivo…”. Meraviglia e beatitudine mi stavano trascinando via, ma Dudjom Rinpoche sapeva che, anche se le esperienze positive possono fungere da segnali lungo il sentiero della meditazione, rischiano di trasformarsi in trappole se vi entra l’attaccamento. Devono essere superate per arrivare a un terreno più profondo e più solido, e le sue sagge parole mi guidarono li.
Molte altre volte Dudjom Rinpoche avrebbe ispirato in me la realizzazione della natura della mente attraverso le parole degli insegnamenti che mi dava. Bastavano le sue parole per accendere bagliori di vera esperienza. Anno dopo anno, ogni giorno, mi diede insegnamenti sulla natura della mente chiamati istruzioni ‘per indicare’. Dal mio maestro Jamyang Khyentse avevo ricevuto il seme essenziale, ma Dudjom Rinpoche lo annaffiò e lo portò a fioritura. Quando incominciai a insegnare, fu lui il mio modello.
Fonte: Il libro tibetano del vivere e del morire. http://www.esonet.org/wp-content/uploads/2013/05/136069562-Il-Libro-Tibetano-del-Vivere-e-del-Morire-Sogyal-Rinpoche.pdf