7 La vita di Millarepa: Ascesi
Quando Milarepa giunse nelle vicinanze del suo paese, iniziò ad interrogare i pastori che incontrava, senza rivelare la propria identità, sulle sorti della casa e dei suoi abitanti.
Le notizie che raccoglieva non erano certo incoraggianti. Sembrava che sua madre fosse morta da tempo, e che sua sorella Peta avesse da tempo lasciato il paese per andare a mendicare, raminga . I pastori credevano che nella casa, oltre al cadavere della madre, ci fosse pure il demone del fratello, un mago nero che aveva distrutto il paese. Milarepa, sentendo quelle notizie, si rifugiò in una grotta a piangere. Nei panni di un lama, nessuno lo riconosceva, ma preferì aspettare il crepuscolo per ritornare in paese.
Man mano che si avvicinava, trovò che tutto era proprio come nel sogno. Il campo era invaso dalle erbacce, la casa era in rovina. Con il cuore in tumulto, Milarepa entrò. La casa doveva essere vuota da lungo tempo, abitata solo da uccelli e topi, i cui escrementi avevano ricoperto ogni cosa. I Sacri Testi erano stati rovinati dalla pioggia, e tutto aveva un aspetto di desolazione e di abbandono. Milarepa era pieno di tristezza. Facendosi coraggio, entrò in cucina. A terra, su una sorta di giaciglio formato da ceneri ed erbacce, biancheggiavano alcune ossa. Comprese subito che si trattava delle ossa della madre, e al pensiero che non l’avrebbe più rivista scoppiò in singhiozzi. Poi, sopraffatto dal pianto e dalla nostalgia struggente, cadde a terra svenuto.
Quando si riebbe, rammentò le istruzioni orali del suo maestro, ed entrò in uno stato di profonda meditazione. La sua coscienza si unì in un flusso continuo a quella di sua madre, poi immerse quest’ultima nella Saggezza Originaria dei Lama Illuminati della Tradizione Kadjupa. Entrando stabilmente nell’esperienza della “chiara luce”, vide che i suoi genitori erano finalmente liberi dalla sofferenza dell’esistenza condizionata.
Quando riemerse dal samadhi erano trascorsi sette giorni. Milarepa aveva avuto un’esperienza indimenticabile della Vacuità, che lo avrebbe segnato per sempre. Fece voto di passare il resto della sua vita a meditare sulle montagne, nel luogo indicatogli dal suo maestro, chiamato “ Dente di Cavallo
Roccia Bianca”. Prima però avrebbe fatto degli stupa funerari con le ossa della madre, impastandole con l’argilla.
Recando con sé i Sacri Testi e tenendo le ossa materne nella veste, Milarepa andò a cercare il suo antico maestro, quello che un tempo gli aveva insegnato a leggere. Il maestro era morto, fu il figlio a riceverlo. A lui consegnò le ossa della madre, affinché ne modellasse delle statuette votive, e gli offrì i Testi Sacri in dono. Poi rimase con lui alcuni giorni, per eseguire tutte le cerimonie funebri. Le statuette furono poste in uno stupa e consacrate.
Il figlio del maestro insistette affinché Milarepa rimanesse per una notte ospite nella sua casa. Infatti egli, al quale Milarepa aveva narrato la propria storia per intero, cercava di convincerlo a riappropriarsi della casa e del campo, e a prendere come moglie Dzesse, la sua promessa sposa. Ma Milarepa sapeva che non era quello il suo destino. Con pazienza, cercò di spiegare all’altro il cammino che aveva scelto e che avrebbe seguito con la massima determinazione. Egli nutriva l’unico grande desiderio di dedicarsi al dharma per il bene di tutti gli esseri senzienti. Solo così, infatti, sarebbe stato in grado di condurre tutte le creature alla Liberazione.
L’indomani Milarepa partì, portando con sé un po’ di provviste che il figlio del maestro gli aveva dato.
S’inerpicò per la montagna che si ergeva dietro la sua casa, in cerca di una bella grotta dove potersi dedicare interamente alla meditazione. Dopo qualche ora di cammino, la trovò. Il suo cuore era felice di trovarsi in mezzo alla natura, lontano dalla vita ordinaria, dalle preoccupazioni e dai discorsi della gente. Tutto quello che voleva era sprofondare la propria mente nel samadhi, dimorare nella “chiara luce”, fare l’esperienza della Vacuità. Il resto gli sembrava solo una perdita di tempo. Certo avrebbe dovuto mangiare e bere, ma in minime quantità, giusto per la sopravvivenza. Cercò di razionare le provviste, e i mesi passarono.
Milarepa, assorto nella meditazione, non si accorgeva dell’avvicendarsi dei giorni e delle notti, del mutare delle stagioni. Il suo corpo però s’indeboliva, e questo aveva un effetto nefasto sulla mente.
Pensò allora di scendere a valle, per mendicare un po’ di cibo.
C’erano degli accampamenti di pastori, ed egli iniziò a mendicare di tenda in tenda. Il suo corpo era smagrito, i capelli lunghi, attorcigliati in lunghe ciocche alla guisa degli asceti; la voce però era la stessa, melodiosa e dalla piacevole tonalità.
“Fate l’elemosina ad un povero asceta!” ripeteva davanti ad ogni tenda.
A un certo punto, dentro una tenda si levò un grido: “Miserabile! Demone di un uomo! Disgrazia dei tuoi parenti! Che ci fai qui?” la zia di Milarepa uscì dalla tenda urlando.
Abitava in quella comunità da alcuni anni, da quando aveva perso tutto, compresa la casa che era crollata. Aveva riconosciuto il nipote dalla voce e subito gli aizzò contro i cani, maledicendolo a gran voce e colpendolo con un bastone. Milarepa era denutrito, stremato dai digiuni e dal freddo, inciampò mentre fuggiva e cadde a terra in una pozza d’acqua. Egli si sentiva quasi sul punto di morire, e quella furente dalla collera continuava ad inveire. Allora da quel corpo dolente si levò un canto dolcissimo, che arrivava dritto al cuore.
L’asceta Milarepa cantava la sua triste vicenda, causata dalla cupidigia degli zii; la sciagura della madre, morta senza conforto, della sorella, mendicante raminga; cantava di come lui, desideroso di redimersi, avesse trovato un maestro e praticato il dharma; e di come, volendo dedicarsi solo alla meditazione, si fosse recato sulla montagna, a meditare. La fame lo aveva portato sin lì, ignaro di trovarvi sua zia, la quale fremente di rabbia lo aveva quasi ucciso; le chiedeva di placare la sua collera e di dargli del cibo per il suo ritiro.
La zia era esterrefatta. Il canto aveva placato il suo cuore, come attraverso un potere misterioso, fatto di dolcezza e di compassione. Rientrò nella tenda, piena di vergogna, e ne uscì con del cibo, un po’ di pane raffermo e del burro chiarificato, e li dette al nipote.
Milarepa continuò la sua questua; egli non conosceva nessuno, ma gli sembrava di essere conosciuto da tutti; i loro sguardi si fissavano sul suo viso; tutti gli dettero qualcosa.
Aveva intenzione di metter via un bel po’ di provviste, perciò continuò a mendicare in giro nella valle.
Temendo di incontrare anche lo zio paterno, l’asceta si avvicinava alle abitazioni con circospezione. Ma una volta gli capitò di bussare proprio alla sua porta. Nonostante il suo aspetto fosse molto mutato, lo zio lo riconobbe e iniziò a scagliare delle pietre in direzione del malcapitato.
“Disgraziato, hai causato la rovina di questo paese!” gridava,” presto, venite tutti, è lui, il demone distruttore!”.
La gente del posto accorse e tutti iniziarono a tirar pietre e frecce.
Milarepa allora pensò di minacciarli con la sua magia, e iniziò a chiamare a gran voce il suo demone.
Quelli, allora, terrorizzati, tennero fermo lo zio e gli chiesero scusa, dandogli pure un po’ di elemosina.
Milarepa se ne andò riflettendo sull’accaduto. La gente del luogo covava ancora della collera verso di lui, sarebbe stato meglio andarsene.
Quella notte però, in sogno, ebbe come il suggerimento che sarebbe stato favorevole fermarsi ancora alcuni giorni. Così rimase nella sua grotta.
Dopo qualche giorno, infatti, Dzesse, la sua antica fidanzata, avendo saputo del suo arrivo, andò a trovarlo, portandogli in dono del cibo e della birra. Quando lo vide così magro, emaciato, abbracciandolo scoppiò in lacrime. Poi gli raccontò della morte della madre, e della sventura della sorella, e piansero insieme.
“Perché non ti sei sposata” le chiese Milarepa “ dopo tutto questo tempo?”
“Nessuno mi ha voluta” rispose la donna, “avevano paura del tuo demone.
Ma anche se qualcuno si fosse fatto avanti non lo avrei accettato. Sono così felice che tu ora pratichi il dharma! E cosa ne farai della casa e del campo?”
Milarepa non voleva illuderla, per il suo bene desiderava essere chiaro circa i suoi propositi.
“Li darò a mia sorella, se mai la troverò. Per il momento, però, prendi pure il campo. Se poi venissi a sapere che ella non è più, li darò a te con gioia!” le disse.
“Tu non li vuoi? Cosa intendi fare della tua vita?” chiese dolcemente Dzesse.
“Non ho bisogno né della casa né del campo. Voglio vivere una vita da eremita, in una grotta, a meditare. Se mi servirà del cibo, lo cercherò come fanno gli animali, nella natura. Questo mondo è impermanente, ed io intendo rinunciarvi fin da ora. Non sono più un uomo, sono un asceta, un rinunciante.”
Le parole di Milarepa non lasciavano speranza alla povera Dzesse. Ella era ancora innamorata di lui, dopo tutto quel tempo. Anche se era ridotto male, quasi irriconoscibile, in lui sentiva la dolcezza del ragazzo che aveva amato, che avrebbe sposato, se le circostanze fossero state diverse.
“Ma che via è, la tua, per essere così diversa, anzi opposta, a quella degli altri monaci e praticanti del dharma? Perché ti comporti così?” Dzesse non si capacitava che egli volesse proprio rinunciare a tutto.
“Non seguo la via di coloro che fingono di praticare il dharma, ma in realtà si vestono dell’arroganza degli scopi mondani, inseguendo solo fama e ricchezze. Io seguo la via di tutti coloro che sono conformi allo scopo supremo”, rispose Milarepa.
“Non ho mai visto nessuno come te. Tutti i seguaci del dharma hanno questo aspetto orripilante?” disse ella per stuzzicarlo.
“Solo coloro che seguono la regola del Veicolo chiamato “l’abbandono degli otto dharma mondani”, rispose l’asceta.
“Stando a ciò che dici esistono due dharma, opposti tra loro. Quindi uno solo di questi è il dharma. Io però penso di preferire l’altro”, replicò Dzesse.
“A me non interessa il dharma professato dalle persone mondane. Voglio raggiungere la Liberazione in questa vita, per cui scelgo la via diretta, la via più veloce di tutte, quella della rinuncia. Segui il dharma anche tu, se puoi, se no prendi la casa e il campo e torna alla tua vita normale”, disse.
“Non ho bisogno né della casa né del campo, non li voglio, dalli pure a tua sorella. Anch’io voglio seguire il dharma, ma non come te”, rispose lei, poi lentamente riprese la via di casa.
La zia di Milarepa era venuta a sapere che il nipote non era per nulla interessato alla sue proprietà, per cui un giorno lo andò a trovare portandogli del cibo, un po’ di birra e delle spezie. Lo trovò nella sua grotta e gli disse: “Caro nipote, perdonami per l’altra sera. D’ora in avanti coltiverò il tuo campo e ti porterò da mangiare. Va bene?”
“Sia così” rispose l’asceta” che la zia coltivi pure il campo a patto che ogni mese mi porti un sacco di farina di orzo”.
Per un paio di mesi le cose andarono in questo modo, poi un giorno la zia si lamentò che gli abitanti del paese la sgridavano perché coltivava il campo dello stregone, temendo che prima o poi egli avrebbe nuovamente inviato i suoi demoni.
“Tu non invierai i tuoi demoni, vero?” chiese la zia.
“Certo che no” rispose Milarepa.
“Giuralo, allora, per la tranquillità della tua vecchia zia”, incalzò quella.
“Va bene”, rispose Milarepa, che non comprendeva quale fosse il suo fine, ma voleva accontentarla.
Milarepa meditava con assiduità, ma non era ancora riuscito a rendere stabile l’esperienza del calore interiore, e non sapeva cosa fare.
Una notte Marpa gli apparve in sogno, dicendogli: “Non ti scoraggiare, figlio, ara il campo duro ed aspro, ed esso si trasformerà”. Nel sogno Milarepa arava il campo guidato dal suo maestro, e in breve esso dette un ricco raccolto. L’asceta si svegliò pieno di felicità, pensando che il sogno conteneva un fausto presagio per il successo della sua meditazione. Era tutto assorto nei suoi pensieri, valutando se fosse per lui giunto il momento di recarsi al luogo indicatogli da Marpa, il Dente di Cavallo Roccia Bianca, quando vide arrivare la zia.
Ella ansimava per la gran fatica che aveva fatto: si era caricata tre sacchi di farina, una logora coperta di pelliccia, un vestito di ottimo cotone e dei buoni condimenti. Appena si fu ripresa, gli disse: “Eccoti il prezzo del campo. La gente del paese mi minaccia perché ti porto da mangiare. E’ meglio che tu fugga, altrimenti ti uccideranno. Se resti ci uccideranno entrambi”.
Milarepa sapeva che non era vero, ma era anche consapevole che senza la zia non avrebbe mai avuto modo di esercitare la pazienza, che è la qualità più alta, ed anzi senza di lei non si sarebbe mai avvicinato al dharma. Egli decise di donarle sia la casa che il campo, poi cantò un canto pieno di compassione e di rinuncia ai beni mondani. La zia se ne andò, felice che suo nipote fosse diventato così pio, e che le avesse donato i suoi unici beni.
Milarepa era in parte sollevato di essersi sbarazzato dei suoi possedimenti, in parte molto triste. Decise di lasciare quel luogo, fonte di ricordi, di angosce, abitato dai fantasmi del passato, per dirigersi verso il luogo santo rivelatogli dal suo maestro.
Il giorno seguente, di buon ora, Milarepa radunò le sue poche cose e partì. Il viaggio a piedi attraverso la natura incontaminata lo rasserenò e infuse nuovo ardore al suo proposito. Attraversò una serie di canyon brulli e selvaggi e arrivò a un piccolo torrente che sbucava impetuosamente in una minuscola gola. La strada proseguiva in una salita ripidissima attraverso un sentiero scavato nella roccia, al termine del quale si ergeva un grande masso naturale. L’asceta s’inerpicò con fatica fino a quel punto, fermandosi vicino alla enorme roccia che dava il nome al luogo, poi iniziò a guardarsi intorno alla ricerca di una grotta e, dopo poco, i suoi occhi individuarono un’apertura nella roccia. Si riposò un poco lasciandosi penetrare dall’atmosfera mistica del posto, che invitava alla preghiera e alla meditazione. Il silenzio era assoluto, rotto solo dal gorgoglio del torrente che arrivava dal fondo della valle. Milarepa entrò nella caverna, sistemò le sue cose e si fece un seggio per la meditazione srotolando a terra una stuoia.
Quindi fece voto solenne di non scendere più a valle ad elemosinare finché non avesse raggiunto lo stato nirvanico. Dentro di sé stava crescendo una determinazione così forte da far sì che nulla fosse più importante della realizzazione cui aspirava. Piuttosto che infrangere quel voto sarebbe morto, su questo si sentiva sicuro. Era sempre più consapevole che solo quello era lo scopo della sua vita, e per adempierlo doveva concentrare tutti i suoi sforzi in un’unica direzione, senza distrarsi.
Milarepa iniziò a meditare. I giorni passavano e il suo corpo s’indeboliva, la sua mente non riusciva ad entrare nello stato del calore spirituale. L’inverno avanzava e l’asceta soffriva il freddo. Si mise a pregare ardentemente il suo maestro, dal profondo del cuore. Quella notte, durante la meditazione, ebbe una visione: gioconde fanciulle lo attorniavano offrendogli del cibo consacrato e indicandogli il sacro cerchio del mandala. Esse gli consigliarono di praticare alcuni esercizi di yoga per controllare i soffi vitali del corpo. Dopo averlo istruito, scomparvero. Finalmente, attraverso quelle pratiche, il calore si manifestò accompagnato da un’intensa beatitudine.
A volte Milarepa aveva desiderio di uscire dalla grotta, ma si concentrava sul suo alto scopo e riusciva sempre a vincere quelle tentazioni.
In una di quelle occasioni, innalzò questo canto:
“Poiché temo la grande pioggia,
cerco una casa dove ripararmi,
La Vacuità è la mia casa
occuparmi di essa mi rende felice.
Poiché temo il freddo,
cerco di possedere delle vesti,
il Fuoco Interiore è il mio vestito,
in esso trovo sufficiente calore e ardore.
Poiché temo la povertà
cerco denaro all’esterno,
ma trovo pietre preziose dentro di me,
il Sé è il donatore.
Poiché temo la fame,
cerco il cibo e vado a mendicare,
il Samadhi è un buon cibo,
che mi sazia all’istante.
Poiché temo la sete,
cerco qualcosa da bere,
la Consapevolezza è un buon vino,
non ho nient’altro a cui pensare.
Poiché temo la solitudine,
cerco un amico dall’aspetto piacevole,
la Beatitudine del Vuoto è il migliore,
non sento più il bisogno di un caro amico.
Poiché temo di perdermi,
cerco un sentiero che non mi tradisca,
trovo la via breve del due-in-uno,
non ho più paura di sbagliare strada.
Consapevole che tutto ciò di cui aveva bisogno si trovava dentro di lui, Milarepa riprese a meditare con perseveranza e pazienza. La sua pratica spirituale crebbe in profondità ed intensità e trascorsero così alcuni anni.
Un giorno il cibo che aveva razionato con estrema parsimonia finì, ma l’asceta non voleva rompere il suo voto e scendere in un luogo abitato. Se non avesse mangiato, sarebbe morto molto presto. Decise allora di fare come le creature che vivono nella natura, e che da essa ricevono sostentamento; uscì all’aperto in cerca di qualcosa da mangiare. Davanti alla Roccia Bianca c’era una radura erbosa e soleggiata, dove crescevano rigogliose le ortiche. Quello divenne il suo unico cibo, e continuò a meditare.
Milarepa era diventato scheletrico, la sua pelle aveva assunto un colore verdastro, della stessa tonalità delle ortiche. Anche i capelli, attorcigliati in lunghe ciocche sul capo, baluginavano dello stesso colore. I vestiti che un tempo gli aveva portato la zia erano a brandelli, logorati dal continuo uso. L’asceta andava in giro quasi nudo, come suo unico abito quel calore che sapeva suscitare dentro di sé.
Un giorno che aveva particolarmente fame, si pose sul capo il rotolo scritto dal suo maestro, per trarne conforto. Era quasi sul punto di romperne il sigillo, quando qualcosa gli disse che non era ancora il momento. Ne trasse comunque beneficio, e il suo stomaco si sentì sazio nonostante fosse vuoto.
Era passato circa un anno, quando un giorno alcuni cacciatori si trovarono a passare vicino l’eremitaggio. Appena videro Milarepa fuggirono terrorizzati, pensando che fosse un demone. L’asceta disse loro di non avere timore, egli era solo un eremita. Quelli volevano le sue provviste e, non trovandone, iniziarono a colpirlo. Solo uno di loro prese le sue difese: “Lasciatelo stare, non vedete come è ridotto? “ poi si rivolse a Milarepa, pregandolo di pensare a lui nelle sue preghiere. Allora anche gli altri chiesero la sua protezione. Milarepa avrebbe potuto servirsi dei propri poteri per colpirli, ma non voleva causare del male ad alcuno.
Essi furono però puniti dal cielo. Tutti, tranne quello che l’aveva difeso, furono catturati e giustiziati come bracconieri.
Ormai non rimaneva più nulla del vestito, ed anche la coperta di pelliccia era a brandelli. L’asceta stava pensando di cucirsi un vestito con i sacchi di cotone vuoti, ma fu attraversato da un pensiero: “Se morissi stanotte, sarebbe meglio meditare che cucire”. Prese la tela dei sacchi e se la cinse intorno ai fianchi, sulle spalle, legandola con delle piccole funi. Depose ciò che restava della pelliccia sul suo giaciglio, e ritornò alle sue meditazioni.
Un giorno sopraggiunsero degli anziani cacciatori. Non appena lo scorsero si spaventarono a morte, prendendolo per uno spettro. Anche a costoro Milarepa spiegò che non c’era da aver paura, egli era un asceta meditante, ridotto in quello stato dalla mancanza di cibo.
Allora essi andarono a perlustrare la grotta e videro che diceva il vero. Avevano fatto una buona caccia, e far del bene a un sant’uomo era un’azione meritevole, per cui gli offrirono un bel po’ di carne e gli avanzi del loro pasto.
“Tieni, eremita, purificaci dai nostri peccati!” esclamarono.
Milarepa fu felice, quel buon cibo glielo mandava senz’altro il cielo, e finalmente si poteva nutrire a dovere.
Il corpo si rinvigorì ed anche la mente riacquistò lucidità e capacità di concentrazione; questa migliore condizione psicofisica influì positivamente sulla meditazione e Milarepa ebbe delle esperienze particolarmente intense della Vacuità, accompagnate da una sensazione di grande beatitudine, come mai in precedenza.
La carne dopo un po’ andò a male e si riempì di vermi. L’asceta pensò di mangiarla ugualmente dopo aver tolto i vermi, poi fu mosso a compassione verso quei piccoli animali e decise di lasciare loro il cibo.
Andò a raccogliere le ortiche e riprese la sua dieta abituale.
A circa un anno di distanza, alcuni cacciatori si trovarono a passare davanti alla grotta. Milarepa era assorto in meditazione, con il suo vestito fatto con i tre sacchi di cotone legati da una fune, i capelli avvolti intorno al capo, la pelle verdognola, il corpo logorato dall’ascesi.
Appena lo videro misero mano ai loro archi, pensando che fosse un demone. Milarepa sorrise, in fondo questi cacciatori erano gli unici esseri umani che vedeva da molti anni a questa parte, e non gli dispiaceva scambiare qualche parola con loro.
Essi lo riconobbero e gli chiesero qualcosa da mangiare. L’eremita disse: “Quello che mangio io non è cibo per voi, non credo che vi piacerebbe!”
Quelli insistevano, così egli disse loro di raccogliere delle ortiche e di metterle a cuocere nella sua pentola.
“Dacci un po’ di sale, qualche condimento” chiesero i cacciatori.
Milarepa scoppiò a ridere: “Sono molti anni che ne faccio a meno!” disse.
“Dacci della farina!” insistettero quelli.
“Io mangio solo ortiche, come condimento utilizzo le ortiche e come farina anche!” rispose l’asceta.
Allora i cacciatori ebbero un moto di ripulsa ed esclamarono: “Tu non sei un uomo! Anche la persona più miserabile ha di che coprirsi decentemente e del buon cibo! Un essere come te è veramente miserabile, ci fai pena!”
“Attenti a quello che dite, non fatevi ingannare dalle apparenze. Io ho avuto invece una grande fortuna in questa vita, quella di rinascere in un corpo che può ottenere la liberazione, grazie alle istruzioni orali ricevute dal mio maestro. Ho rinunciato al cibo, alle vesti e alla fama per dedicarmi interamente alla meditazione e realizzare così il fine supremo. Voi vi proclamate buddhisti, eppure vi stupite di vedere un asceta. Eppure non c’è nessuno più felice di me, mentre miserevoli sono quelli che accumulando azioni negative vita dopo vita si creano i propri inferni, e le cui menti, piene di agitazione, ansia e paura, sono fonte di indicibile sofferenza. Vorrei farvi comprendere l’importanza della meditazione per pacificare la vostra mente e porre fine alla sofferenza, perciò vi dono questo canto:
“Come pacificare la propria mente,
Il segreto sta nel lasciar andare,
Senza creare tensione, senza far nulla,
Come bimbi addormentati dovreste essere.
Come un calmo oceano senza onde,
Come una luminosa lampada senza vento,
Possa la vostra mente essere in pace.
Come cadaveri senza orgoglio,
Con fermezza tenetela a riposo.
Come un mare senza marea,
Libero da ogni forma di movimento.
Sapete come sorge il pensiero?
E’ come un sogno senza sostanza,
Come un vasto cielo senza sole,
Lune viste da molto lontano,
Come l’arcobaleno di Maya,
Non si riesce a trovare una origine certa.
Quando la luce della saggezza brilla,
Essa scompare, senza lasciare traccia.
Sapete come tener testa ai pensieri?
Provate a guardare le nuvole multiformi,
non sono certo separate dal cielo,
Provate a guardare le onde del mare,
non sono certo separate dal mare.
Colui che sa vagliare la consapevolezza,
Sa che la mente emerge dal respiro.
Colui che cerca i pensieri nascosti come ladri,
Impara ad osservare questa sottile birichina.
La natura della mente è come il cielo,
Colui che realizza che il suo corpo è il Tempio,
conosce la via e non sarà schivo.”
I cacciatori erano immersi in uno stato di beatitudine, causato dal canto di Milarepa, ma non erano certo pronti a condurre una vita da eremiti, per cui lo ringraziarono e se ne andarono.
Qualche tempo dopo, in occasione della festa delle statuette votive, questi stessi cacciatori cantarono all’unisono il canto di Milarepa.
Si trovava lì anche Peta, la quale stupita di udire un simile canto dalla bocca dei cacciatori, esclamò: “Chi è l’autore di quel canto? Deve essere un Buddha di sicuro!”
I cacciatori le risposero: “Questo canto è di tuo fratello, il quale è di sicuro un sant’uomo, ma è in fin di vita per la fame.”
Peta scoppiò in lacrime: “Non parlatemi di mio fratello, chi sa dove sarà ora, di certo non lo rivedrò mai più!” e piangeva calde lacrime.
Alla festa era venuta anche Dzesse, la quale, avendo sentito tutto, le si avvicinò dicendo: “Non ti crucciare, cara, lo rivedrai di sicuro perché lui è qui, anche io l’ho incontrato, una volta! Si trova a Dente di Cavallo Roccia Bianca!”
Peta si asciugò le lacrime, e un sorriso spuntò sulle sue labbra. Il suo amato fratello era vivo, anche se in condizioni precarie. Sembrava animata da un nuovo spirito, l’indomani partì di buon’ora, recando un bel po’ di provviste, un orcio pieno di birra frutto della sue elemosine, un po’ di farina e dei condimenti.
Arrivò sul posto che il sole era ormai alto. Il luogo era bello, un torrente lì vicino correva a valle, con un bel suono scrosciante, le belle radure erbose, il canto degli uccellini, la pace che si sentiva tutto intorno avevano un che di idilliaco e di sovrannaturale. Ma dov’era suo fratello? Peta iniziò a guardarsi intorno, scivolando con lo sguardo sulle piante, sulle rocce, sui fianchi della montagna, quando vide l’imboccatura della grotta.
Si avvicinò con cautela, timidamente, e si fermò sulla soglia. Il suo sguardo impiegò alcuni istanti ad abituarsi all’oscurità dopo la splendente luce del giorno, ma piano piano cominciò a distinguere i contorni di quello che sembrava essere tutto, meno che un uomo.
Il corpo magrissimo, emaciato dall’ascesi, mostrava tutti i segni delle ossa. La pelle aveva, come fosse possibile Peta non lo sapeva, uno strano colore verdastro, ed era tesa come una vecchia pergamena, quasi sul punto di staccarsi. Una fitta peluria irsuta di colore verde ricopriva tutto il corpo, ed i capelli, incolti da lungo tempo, avevano lo stesso colore; si erano radunati in ciocche lunghissime, spesse come un dito, che scendevano fino a terra.
L’essere, Peta non era ancora convinta che si trattasse di un uomo, tanto meno di suo fratello, era seduto immobile, probabilmente assorto in meditazione, gli occhi chiusi nelle orbite incavate.
Peta gli si avvicinò lentamente, trattenendo la paura. Da vicino, l’effetto era ancora più spaventoso, ed ella reprimeva l’impulso di fuggire, per scoprire l’identità del meditante.
“Chi sei? “ gli sussurrò all’orecchio, “ un uomo, oppure un demone?”
Milarepa aprì gli occhi.
“Sorella” disse, “sono io, non mi riconosci?”
Peta scoppiò a piangere dalla felicità, ovunque avrebbe riconosciuto la voce dolce e melodiosa del fratello, quella non era cambiata!
“Fratello, fratello!” ripeteva tra le lacrime, abbracciandolo. Poi, perse i sensi.
Quando riaprì gli occhi, aveva il capo poggiato sulle ginocchia ossute del fratello, il quale aveva una mano sulla sua fronte. Milarepa era felice e triste insieme nel rivederla, troppi ricordi gli ritornavano davanti. La loro infanzia felice, poi, la tragedia, le loro vite distrutte. Il dolore e l’odio della madre. Il suo
scheletro a terra nella loro vecchia casa, ormai distrutta. Tutte queste immagini gli scorrevano davanti, poi, con un sospiro, egli le fermò.
Peta doveva vedere le stesse cose, perché riprese a piangere e a singhiozzar, dicendo con voce rotta: “Nostra madre è morta di dolore, nel tormento della tua scomparsa! Nessuno dei nostri parenti venne ad assisterla, ed io dopo la sua morte per la disperazione fuggii, lasciando la casa dove non riuscivo più a stare. L’unica cosa che mi dava sollievo era vagare di luogo in luogo, mendicando, senza fissa dimora. Tante volte ti ho pensato, e cercato, chiedendomi che fine avessi fatto, ed ecco come ti ritrovo! Non sembri più neanche un uomo! Nessuno è più infelice e disgraziato di noi!”
Milarepa voleva consolarla, ma non sapeva come arrestare il fiume incontenibile del dolore troppo a lungo trattenuto. Egli cercò di spiegarle che, se si era sottoposto a quel regime disumano, a quella inenarrabile penitenza, a quella snervante rinuncia, vivendo da eremita in luogo sperduto e rendendo il suo corpo orribile a vedersi, l’aveva fatto per un buon motivo, quello di diventare un Buddha, e raggiungere quella felicità che non conosce fine. A questo proposito le intonò un canto sull’impermanenza:
“Per la mente che possiede la Visione sorge la Vacuità,
In ciò che è visibile neppure un atomo esiste,
Colui che vede e ciò che è visto si dissolvono nel nulla,
Questo modo di realizzare la visione è assai efficace.
Quando la meditazione è simile al flusso di un fiume luminoso,
Non c’è bisogno di rinchiuderla in sessioni e intervalli,
Colui che medita e l’oggetto meditato si dissolvono nel nulla,
Questo cuore della meditazione batte con un buon ritmo.
Quando il pensiero condizionato è svanito nello spazio,
Non più false apparenze, otto dharma, né speranza o paura,
Colui che agisce e azione compiuta si dissolvono nel nulla,
Questo modo di praticare la dottrina, è assai efficace.
Quando alla fine comprendi che che la mente è il corpo del dharma,
E agisci per il bene tuo e di tutte le creature,
Vincitore e vinto si dissolvono nel nulla,
Questa via di realizzazione è quella giusta.”
Peta era felice di ascoltare la voce melodiosa del fratello, le sue parole sagge e illuminate, ma non comprendeva perché ciò richiedesse una tale sofferenza. Con un sorriso gli porse il cibo e la birra, e finalmente il corpo e la mente dell’eremita si ritemprarono.
Quella notte Milarepa ebbe un’esperienza assai vivida della “chiara luce”, e la sua pratica divenne più profonda.
Il giorno successivo, però, il corpo di Milarepa soffrì a causa del cibo e delle bevande cui non era più abituato. La sua mente divenne instabile e l’esperienza meditativa ne soffrì.
Trascorsero alcuni giorni, poi Peta ritornò insieme a Dzesse, recando un bel po’ di provviste, cibi e bevande di ottima qualità che le due donne avevano preparato con amore. Si incontrarono all’aperto, vicino alla fonte dove Milarepa era andato ad attingere l’acqua. Dal momento che l’asceta andava in giro quasi nudo, esse videro il suo corpo e rimasero esterrefatte nel constatare il colore della sua pelle, che alla luce del sole sembrava ancora più verde. Si sedettero all’aperto, vergognandosi della sua nudità ma provando affetto e compassione per lui; sorridendo gli porsero il cibo che egli mangiò avidamente, poi Peta disse: “Fratello, io ti voglio bene, mi sforzo di comprendere la tua dottrina e il tuo modo di seguire gli insegnamenti del tuo maestro, ma tutto questo mi sembra andare oltre ciò che si può definire umano. Se tu almeno andassi ad elemosinare, potresti avere del cibo, dei vestiti con cui coprirti. Questa tua nudità è indecorosa. Se non vuoi andarci tu, andrò io per te, ma devi proprio farti un abito.”
Milarepa la guardò dritto negli occhi, e rispose: “Sorella, tu parli bene, ma se io morissi stanotte? Non sarebbe meglio meditare e adoperarsi per la propria liberazione, piuttosto che perder tempo con attività inutili? Io non ho tempo da perdere, se voglio realizzare il dharma mi devo concentrare solo su quello e non distrarmi con cibo, vesti o altro. Lo capisci questo?”
Peta non sapeva con quali argomenti controbattere le affermazioni del fratello. Possibile che quello fosse l’unico modo di praticare?
“L’unico modo per realizzare il dharma è quindi sottoporsi a questa inenarrabile sofferenza? Possibile che non ci sia un altra strada?” esclamò con enfasi.
“Peta, le mie sofferenze sono poca cosa in confronto a quelle patite dagli esseri nei tre stati inferiori di esistenza. Io sopporto qualche disagio, ma nella mia mente, nel mio cuore, sono felice ! So che questa via è giusta, perché mi sta portando verso la realizzazione del dharma e verso la liberazione in questa vita. Cosa potrebbe esserci di più meraviglioso, di più desiderabile? Io sono felice, di una felicità sconosciuta alla maggior parte delle persone, che conoscono solo sofferenza. Sono felice perché realizzo il mio scopo, il resto è di secondaria importanza”.
Così rispose Milarepa, cercando di perorare la sua causa e di far comprendere le proprie motivazioni alle due donne. Più andava avanti sul suo cammino, più si rendeva conto che le persone comuni non condividevano il suo modo di vedere le cose. Nel suo cuore, era convinto di essere nel giusto. Lo sapeva, non solo con la sua mente, ma con tutte le cellule del proprio corpo. Peta, dal canto suo, non era per nulla convinta, perciò replicò alle parole del fratello: “Sarà, ma io non sopporto di vederti morire di fame e di freddo su queste montagne impervie, solo. Andrò ad elemosinare per te e ti porterò qualcosa per farne di che coprirti. Potrai meditare lo stesso, con un vestito e con qualcosa nello stomaco, no?”
Rimasto solo, l’asceta mangiò con piacere quei cibi deliziosi, cui il suo palato, ed anche il suo stomaco, non erano più abituati. Il cibo aveva però l’effetto di rinsaldare i legami con il mondo materiale, provocando visioni e fantasmagorie nella mente e impedendogli di meditare. Milarepa ebbe un moto di disperazione, cosa ne sarebbe stato di lui, del suo alto proposito, se non riusciva a meditare? Non c’era forse ostacolo più grande di questo! Con grande determinazione ruppe allora il sigillo del rotolo contenente le istruzioni del suo maestro, che servivano proprio in momenti come quello e lesse i buoni consigli che esso conteneva. Le sagge parole di Marpa avevano il potere di rimuovere gli ostacoli che potevano insorgere sul sentiero spirituale, di riportare la fiducia in momenti di scoraggiamento, di trasformare le difficoltà in occasioni speciali per la pratica. In quel momento specifico consigliavano all’asceta di nutrirsi con del buon cibo.
Milarepa sorrise pensando al suo maestro e alla Madre che l’aveva tanto aiutato. Quale regalo più grande poteva far loro della propria auto- realizzazione. Si mise a meditare con entusiasmo , seguendo le istruzioni di Marpa, e attraverso esercizi di respirazione e di concentrazione sui punti vitali del corpo, sentì che qualcosa iniziava a sciogliersi dentro di sé: erano le nadi (canali sottili in cui fluisce l’energia vitale. N.d.A.) che, indurite dal cibo cattivo di cui si era nutrito per anni, iniziavano a sciogliersi, stimolate dagli alimenti genuini e deliziosi che Peta e Dzesse gli avevano portato.
La sua mente entrò con facilità nella “chiara luce” e, attraverso il potere della concentrazione, generò le qualità spirituali della visione superiore ed ebbe un abbagliante esperienza della Vacuità. Davanti alla sua coscienza scorreva splendente e nitido un flusso di immagini che erano la storia della sua vita, poi di tutte le sue vite anteriori.
In rapida successione vedeva innumerevoli mondi nascere e morire, attraverso un tempo che rasentava l’eternità.
Con la rapidità del lampo la sua mente era penetrata da una consapevolezza lucida e priva di errore capace di vagliare la realtà in un istante: ed ecco che tutte le coppie di opposti si dissolvevano nella Vacuità luminosa, senza inizio e senza fine. Nel dissolversi di ogni dualità Milarepa vide sorgere il suo corpo nirvanico, radiante come mille soli.
Pieno di felicità per la realizzazione raggiunta provava un’infinita gratitudine per Peta e Dzesse, che con il loro cibo ed il loro amore l’avevano nutrito e rinvigorito.
Dopo un canto di lode e di ringraziamento l’asceta riprese a meditare, con costanza e determinazione.
Poteri miracolosi iniziarono a manifestarsi, come conseguenza della libertà raggiunta rispetto alla manifestazione ed alle sue leggi. Nell’universo non esisteva per lui alcuna limitazione ed anzi poteva muoversi a piacimento nella dimensione fisica ed in quella sottile; che meravigliosa sensazione di estasi poter volare nel cielo, poter trasformare il proprio corpo a volontà in quello di tutte le creature possibili! Poteva essere tutto e tutto era lui. Terra, acqua, fuoco, aria non avevano alcun potere su di lui,anzi egli li comandava, poteva attraversarli secondo la sua volontà.
Di notte, nella dimensione sottile del sogno Milarepa visitava miriadi di mondi appartenenti agli aspetti più elevati o più infimi, si recava ad ascoltare la dottrina nelle terre pure dei Buddha per trasmetterla a sua volta alle creature le più disparate.
Di giorno volava nella sconfinata vastità del cielo, attraversava con leggerezza lo spazio inondato di luce, osservando dall’alto le valli sottostanti, i campi, i torrenti, le montagne.
Nella piena consapevolezza della sua realizzazione l’asceta gioiva di quella sconfinata libertà, di quei poteri sovrannaturali, e continuava a meditare con rinnovato ardore, pensando al benessere di tutte le creature.
Qualche giorno dopo la sua illuminazione Milarepa pensò: “Tutto questo è meraviglioso e costituisce un grande esempio per tutti gli esseri. Tutti saranno
incoraggiati da questa manifestazione dei poteri miracolosi conferiti dalla pratica e vorranno dedicarsi corpo e mente alla meditazione, abbandonando ogni attitudine mondana. La dottrina ne riceverà un impulso immenso, come avevano previsto Marpa e Damema nei loro sogni congiunti. Potrebbero però
sorgere per me impedimenti di natura mondana, se resto ancora in questo luogo. Tutti mi conoscono e mi hanno anche visto volare. È tempo per me di partire per il luogo sacro di Chu bar, come predisse il mio maestro e dove i miei figli spirituali mi attendono”.
Milarepa radunò le sue poche cose ed uscì dalla grotta, alla luce abbagliante del sole, quella luce che per lui risplendeva ovunque e sempre, all’interno come all’esterno. Assaporò i tiepidi raggi del sole, sentì il vento carezzargli la pelle, e sorrise.
Il suo sguardo si spinse lontano, oltre le sontuose montagne illuminate dai ghiacci eterni, in direzione di Chu bar, poi, lentamente, si incamminò.
Per lui, e per tutti coloro che lo avrebbero seguito, era iniziata una nuova era.
Epilogo
Milarepa visse tra le montangne himalayane circa quarant’anni. Dopo la sua illuminazione si recò a meditare nella grotta di Chu bar e da qui si recò negli altri luoghi sacri che il suo maestro Marpa gli aveva indicato, vivendo in moltissime grotte che diventeranno altrettanti luoghi sacri e favorevoli alla meditazione.
Durante questo periodo incontrò i suoi figli spirituali, secondo quanto era stato profetizzato dalle Dakini, le divinità femminili della scuola tantrica, tra i quali si possono annoverare venticinque discepoli realizzati; di essi possiamo distinguere otto figli spirituali, tredici discepoli intimi e quattro discepole.
Tutti costoro rinunciarono agli otto dharma mondani – e cioè guadagno e perdita, piacere e dolore, lode e biasimo, fama e diffamazione, – e fecero voto di meditare sulle montagne sottoponendosi, come il loro maestro, ad una dura ascesi.
Oltre a questi una folla inimmaginabile di persone ricevette gli insegnamenti, mettendo in pratica la dottrina ognuno secondo le proprie capacità.
La sorella Peta e Dzesse andarono a trovarlo a Chubar e anche in tutte le altre grotte dove l’asceta si recò a meditare.
La zia di Milarepa alla fine si pentì del proprio comportamento malvagio, e chiese e ottenne il perdono del nipote, il quale le spiegò la legge di causa effetto. La zia si convertì al dharma e divenne una praticante devota.
Milarepa non rivedrà più il suo maestro, Marpa, né l’amata Madre Dakmema. Ma si può supporre con certezza che nulla avrebbe potuto separare le loro anime, unite dalla pratica spirituale e dal vincolo del puro amore.
Quando Milarepa morì, in mezzo a quelle montagne che erano state la sua casa, attorniato dai suoi figli spirituali e da una moltitudine di devoti, nel cielo si manifestarono visioni celestiali e prodigi, e le stesse divinità vennero a rendere onore a quel singolare maestro, che non si arreso davanti a nulla, e il cui cuore era colmo di amore.
La fama di Milarepa si sparse ovunque, ed egli è considerato ancora oggi il più grande santo e poeta del Tibet, colui che con il suo esempio, la sua illuminazione e la dolcezza del suo canto ha toccato più di ogni altro il cuore umano.
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Fonte che si ringrazia devotamente per la sua grande gentilezza http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/buddhismo/magrini.pdf