Lama Denys Rinpoce: La meditazione
1. Introduzione: che cos’è la meditazione?
La meditazione in Occidente
Che cos’è la meditazione? La domanda è importante e la risposta non è semplice perché è complessa e comprende diversi livelli.
Se cercate “meditazione” nel vostro vocabolario, troverete che la meditazione è “una riflessione profonda”: potete meditare su un testo, un salmo, una massima; si tratta allora di una considerazione, una riflessione. Questo è un aspetto della meditazione: una meditazione intellettuale, una riflessione. Questo genere di meditazione-riflessione è il tipo classico di meditazione nel senso occidentale.
La meditazione nella tradizione del Buddha
Diversi tipi di meditazione
Nella tradizione del Buddha si possono trovare diversi tipi di “meditazioni”: la meditazione nel senso della riflessione come in Occidente (per esempio sull’ impermanenza); la meditazione analitica (per esempio sul non-sé) e la meditazione contemplativa. Detto ciò, nella tradizione del Buddha in senso generale, quello che intendiamo per “meditazione” appartiene piuttosto alla contemplazione e al non-mentale piuttosto che alla meditazione nel senso della riflessione.
Il secondo dei Tre Apprendistati
Nella tradizione del Buddha, la pratica è un apprendistato triplice: l’apprendistato della disciplina etica, l’apprendistato dell’esperienza profonda, la meditazione e l’apprendistato della comprensione della realtà. La meditazione è dunque il secondo apprendistato.
Un addestramento
Dal punto di vista dell’esperienza, la meditazione è un addestramento. La parola sanscrita “bhavana” (tibetano: gompa) significa letteralmente “addestramento”. La meditazione è un addestramento ad una qualità di essere, di presenza e di attenzione.
Il legame tra i tre apprendistati: disciplina, meditazione e comprensione
La meditazione è dunque una qualità di attenzione, di presenza, di vigilanza al presente. I tre elementi della via: disciplina, meditazione e comprensione hanno dei punti di sovrapposizione. Tra la disciplina e la meditazione c’è l’attenzione e la vigilanza. Non ci può essere disciplina senza attenzione, e l’attenzione, o presenza, è anche la base e il fondamento della meditazione. È l’attenzione che permette di vedere lucidamente la situazione. In questa lucidità si trova il discernimento che permette di fare la scelta giusta, quindi l’azione adeguata; la lucidità della vigilanza attenta e aconcettuale, che è anche il mezzo e il luogo della comprensione profonda della realtà.
2-I principi dello stato di presenza
La presenza dei sensi
Che cos’è lo stato di presenza, di vigilanza o attenzione? Di quali presenza si tratta? È la presenza dei sensi nel senso “di essenza”, ovvero essenziale, ed anche una presenza “dei sensi”, di sensorialità. La meditazione è l’apprendistato dell’esperienza sensoriale aperta, sgombra e rilassata. In inglese quest’esperienza si chiama “mindfulness”. In francese la si può tradurre con “piena attenzione”, “piena presenza” o anche “piena coscienza”. Essere pienamente presenti all’istante, nell’istante, facendo corpo con l’esperienza dell’istante. Si tratta di essere attenti, allerta ma senza contrazioni, senza fissazione o tensione: è un’attenzione senza tensione, una a-tensione.
La lucidità naturale
Questa attenzione non h niente a che vedere con un atteggiamento teso o contratto. Non è una “concentrazione”. La concentrazione è uno stato di tensione: ci si concentra, ci si focalizza, si entra in uno stato che, se si solidifica, ha la tendenza a diventare una chiusura claustrofobica e alla fine a far venire il mal di testa!
La presenza, l’attenzione, è qui la qualità naturale della lucidità. È la presenza lucida vissuta nel quotidiano. Non è qualcosa che bisogna produrre o costruire: l’attenzione, la lucidità, è la qualità naturale di ciò che siamo, ed è spontaneamente presente se non la disturbiamo, se non la ostacoliamo con la presa-fissazione che “io” sono.
Le distrazioni
Sorge allora la domanda: “ma che cosa impedisce a questa attenzione vigile di essere il nostro stato naturale?”.
In senso ampio sono le distrazioni, ovvero le prese-fissazione: tutto ciò che ci distrae e ci porta dentro le concezioni, ogni sorta di divagazione mentale e concettuale. Le distrazioni sono tutto ciò che ci farà abbandonare la realtà del presente, tutto ciò che ci esilia dalla terra pura del presente.
L’istante presente
L’attenzione è dunque l’esperienza naturale dell’istante presente. Scopriamo il presente imparando ad essere naturalmente l’esperienza. Questa qualità di esperienza si rivela, si scopre, quando non siamo posseduti dalla nostra agitazione mentale, dalle fabbricazioni concettuali. Quando non siamo posseduti da tutto questo, non partiamo continuamente in ogni sorta di mondo concettuale, mentale e fantasmatico. Si tratta dunque di imparare a “spossedere”, imparare la “non presa-fissazione”.
Attenzione e apertura
L’attenzione, la lucidità naturale è la natura dell’apertura. L’apertura si apre in un atteggiamento di riposo, quando si rilasciano le tensioni e le fissazioni mentali; è in questo senso che si suggerisce di intendere “attenzione” come “a-tensione”: niente tensione, dal momento che l’attenzione è in definitiva una qualità di presenza nella lucidità naturale libera dalle tensioni e dalle fissazioni.
3 – Śamatha–Vipaśyanā
Restare tranquilli
Non agitarsi più
Sviluppare questa “presenza-attenzione” è lo scopo della pratica di śamatha vipaśyanā. Śamatha è una parola sanscrita che in tibetano si traduce con “scine”, e che significa “restare tranquillo”. Noterete che qui non c’è l’idea di concentrazione ma piuttosto quella di restare tranquilli. Per restare tranquilli basta non agitarsi. Detto così può sembrare semplicistico, ma è comunque curioso constatare che spesso ci si agita molto per cercare di restare tranquilli. Le agitazioni che possono diventare forsennate, che hanno per scopo quello di restare tranquilli, vanno nel senso contrario di quello che ricerchiamo. Se cerchiamo in modo volontaristico e autoritario di padroneggiare la propria mente….. Buona fortuna!
Agitazione e sentimento di esistere
In questo contesto, il padrone e il padroneggiato, il padrone e colui che vorremmo rendere schiavo non sono diversi. Con la sua autorità ed il suo diktat, il padrone nutre la rivoluzione, nutre l’agitazione.
Śamatha consiste nell’imparare a restare tranquilli. È la cosa più semplice che c’è, dal momento che non c’è niente da fare, ma è allo stesso tempo molto difficile perché noi siamo di solito molto agitati. La nostra mente si agita costantemente. Noi siamo un agitazione, noi esistiamo nella nostra agitazione; questo implica che restare tranquilli significa la sensazione di esistere di meno. “Penso dunque sono”, pensando di meno noi siamo di meno!
Parliamo dunque della difficoltà che ci può essere nel restare tranquilli e del bisogno, che può diventare nevrotico o frenetico, di agitarsi. “Mi agito dunque sono”. È per questo che è difficile restare tranquilli. Restare tranquilli richiede all’ “io” di sacrificare qualcosa di se stesso. Possiamo parlare in termini di sacrificio o possiamo parlare in termini di esperienza di mancanza. Di fronte a questa mancanza o questo sacrificio, naturalmente, “io” sono riluttante e punto i piedi: è la difesa, il rifiuto, la resistenza dell’ego. La sua strategia è l’esperienza della noia.
La sospensione del pensiero discorsivo
Per potersi liberare di questa agitazione, la pratica della meditazione ci propone di imparare a sospendere, o a lasciare sospendersi, il pensiero, invece di seguire sempre i nostri pensieri e di rispondere ad essi. In effetti, il pensiero è un fenomeno curioso nel quale facciamo le domande e ci rispondiamo. È quello che si chiama il pensiero discorsivo: il discorso del pensiero nel quale ci si interroga e ci si risponde. Siamo allo stesso tempo quello che fa le domande e quello che risponde. Potremmo anche chiederci perché abbiamo bisogno di dirci quello che sappiamo già. In ogni caso, nella pratica della meditazione, in questo addestramento, impariamo a lasciare la nostra mente a riposo, nel suo stato naturale. Non è complicato, sì ma….. Se vi chiedo di lasciare la vostra mente a riposo, nel suo stato naturale, senza fare niente, quanto tempo la mente resta così a riposo, senza fare niente? Troverà qualcosa da fare, perché la sua propensione è di agitarsi sempre.
Nell’addestramento meditativo, impariamo a porci in una esperienza sensoriale unica, a fare l’esperienza di una sola cosa e di restare in questa esperienza sensoriale in un modo stabile. Si tratta di un esercizio fondamentale molto semplice. L’esperienza sensoriale che possiamo scegliere può essere una qualunque, può essere visiva, uditiva, cinestetica. Si può basare su qualunque senso; nondimeno in generale si utilizza come supporto sensoriale la respirazione.
Restare tranquilli con un supporto
Per imparare a restare tranquilli nella meditazione si procede per tappe e si impara all’inizio a fare di meno. Ci sediamo, ci diamo un supporto di attenzione e impariamo a restare tranquilli nell’esperienza di questo supporto nel quale si posa la nostra attenzione.
Ci sono molte possibilità, ma l’importante non è tanto il supporto quanto la presenza tranquilla, restare tranquilli nell’esperienza del supporto. I diversi supporti hanno delle qualità particolari, noi utilizziamo di solito il supporto senza forma della respirazione. L’attenzione alla respirazione, ed in modo particolare all’espirazione, pone l’attenzione unicamente sull’esperienza del respiro. Ci si lascia essere, completamente presenti all’espirazione. Ci si abbandona al respiro nella distensione, la dissoluzione e l’apertura, facendo un esercizio punteggiato: dei momenti di attenzione, dei momenti di lasciare andare, di attenzione e di apertura nell’espirazione e di sospensione, di abbandono tra le espirazione, ovvero durante l’inspirazione. Sono possibili altri supporti: le sensazioni fisiche specifiche, la sensazione globale del corpo, o la semplice esperienza globale presente. Si può anche iniziare dal corpo, poi il respiro, e alla fine l’esperienza globale della mente. Tutto ciò conduce a restare tranquilli, è la pratica di śamatha.
Vedere chiaramente
La comprensione della natura dell’esperienza
Quando c’è questo riposo tranquillo, con l’attenzione e la lucidità che lo abitano naturalmente, vediamo chiaramente. La lucidità dell’attenzione è una qualità di visione chiara. Questa visione chiara è quello che chiamiamo vipaśyanā (lhagtong in tibetano) che significa letteralmente “vedere chiaramente”. La visione di una chiarezza lucida, la comprensione della natura dell’esperienza, della situazione, dell’ambiente. Ha una qualità di discernimento, di intelligenza della realtà al di là dell’ego.
Restare tranquilli, base della visione chiara
Vipaśyanā, questa visione chiara, è dunque un risultato naturale della pratica di śamatha: quando c’è il riposo tranquillo, nella tranquillità, la lucidità porta una visione chiara, un’esperienza chiara e lucida.
4. La meditazione come esperienza giusta
Integrare l’esperienza nella vita
Nella meditazione seduta, impariamo a scoprire questa esperienza, ma l’esperienza non è confinata al cuscino. La pratica della meditazione seduta ha senso solo nella prospettiva dell’integrazione nella vita quotidiana dell’esperienza che scopriamo; è la meditazione in azione: imparare l’esperienza giusta, l’esperienza di apertura e di lucidità, la presenza, l’attenzione, la vigilanza in tutti gli aspetti della nostra vita.
Meditazione e non-meditazione
A volte si insegna che la meditazione essenziale è “non meditazione”, nel senso di una presenza aperta e lucida nella quale non c’è niente da meditare, da produrre, da fare mentalmente o concettualmente. Lo stato di non meditazione, di non attività, il non agire mentale è questa meditazione essenziale. È dunque il pensiero non pensato, il pensiero senza pensatore.
Vivere l’esperienza giusta nel presente
In questo contesto, “meditazione” significa dunque “esperienza giusta”. È importante insistere su questa nozione, perché permette di tagliar corto con ogni sorta di aberrazioni che circolano a volte intorno alla nozione di meditazione e che consistono a vederla come una specie di esercizio esotico o esoterico nel quale ci si taglierebbe fuori dalla realtà per entrare in degli stati di coscienza modificata, o anche in quello che si chiamano stati di trance. La meditazione deviata è la messa in opera di una specie di sopra condizionamenti che fanno vivere in uno stato artificiale, nel quale il contatto con l’ambiente circostante può anche essere perduto: si va altrove.
Molto lontana da questo tipo di stati, la meditazione va intesa come “vivere l’esperienza giusta nel presente”. È la presenza giusta, l’attenzione giusta, la vigilanza giusta. Quando abbiamo ben capito questo punto, si vede che la frontiera tra meditazione seduta e meditazione in azione, o tra esperienza seduta ed esperienza della vita quotidiana, diviene molto più tenue.
5. La fiducia nella meditazione
Avere fiducia nell’esperienza naturale
Un altro punto importante è la fiducia nella meditazione. Il vissuto giusto della piena presenza, l’esperienza giusta, si trovano nell’apertura, la lucidità e l’empatia senza limiti. Queste tre qualità fondamentali della nostra esperienza sono tre qualità del risveglio. Avendo fiducia in esse, abbiamo fiducia nel risveglio. La fiducia nella meditazione è la fiducia nello stato naturale della nostra esperienza, fiducia nel fatto che questo stato è buono, e che sperimentandolo così com’è naturalmente, realizziamo queste tre qualità fondamentali del risveglio. Questa forma di fiducia consiste a lasciare essere l’esperienza naturale, ad avere fiducia in questa esperienza, smettendo di manipolare, di fabbricare.
Niente eccessi: il non agire dell’ego
È necessario ricevere e mettere in pratica delle istruzioni, ma è importante che i rimedi non diventino delle ossessioni. La pratica giusta ha bisogno di una serie di aggiustamenti. Ad esempio, quando guidiamo sull’autostrada, per poter andare dritto diamo continuamente dei piccoli colpi di volante a destra o a sinistra, ma non si tratta di fare delle grandi voltate! È un intervento molto leggero e, al limite, meno si fa meglio è. La stessa cosa vale per la meditazione. Se facciamo delle grandi “girate di volante”: quando si vede dell’agitazione… un po’ di rimedio all’agitazione; quando vediamo del torpore… barra dritta, poi barra sinistra, eccetera. Questo eccesso di rimedi conduce ad una pratica caotica. L’atteggiamento ossessivo rispetto alla tecnica, che consiste a correggere sempre o a stimolare sempre è dello stesso ordine.
Quando l’equilibrio comincia ad installarsi, l’atteggiamento di fiducia consiste a lasciare che trovi il suo posto. La fiducia è poter lasciare essere. Poter restare tranquilli. È la fiducia che tutto ciò va già bene, la fiducia che nello stato naturale noi siamo già arrivati e che il meglio è nemico del bene. Spesso vorremmo spingere un pochettino, migliorare un po’. Ma un atteggiamento di speranza e di paura – speranza di migliorare e paura che non sia abbastanza buono – conduce ad un eccesso di intervento che diventa fonte di problemi. La fiducia può giocare a diversi livelli, ma sempre in direzione dell’abbandono. È la fiducia che abbandonando e lasciando perdere, lasciando essere così com’è fondamentalmente, andiamo nella direzione delle qualità del risveglio.
6. Conclusione
Continuità dei tre apprendistati
Abbiamo già parlato dell’importanza dell’attenzione nella disciplina quotidiana. C’è dunque una continuità tra meditazione, disciplina, vigilanza e presenza giusta, piena esperienza dell’istante. Come vedremo in seguito, c’è anche una continuità tra questa esperienza di presenza dell’istante e quella di istantaneità, di immediatezza che è il cuore della comprensione.
Una via di liberazione
La via della meditazione è una via di liberazione, una via di libertà, una via di felicità, una via d’armonia, una via di salute. Tutto questo e niente di meno! Liberazione da cosa? Dalle passioni e dalle illusioni.
Solitamente viviamo nel nostro mentale. Il mentale è generalmente considerato come proprio dell’umanità. Il mentale in sanscrito si dice “manas” e questo termine ha delle derivazioni linguistiche che hanno dato “man”: uomo. Lo ritroviamo anche nella parola “mentale”. L’uomo è un animale mentale. La sua facoltà per eccellenza è la sua capacità a mentalizzare. È quello che fa di noi i padroni del mondo, nel bene e nel male. Noi siamo nel nostro mentale. Va bene, ma se è la nostra forza, è anche la nostra debolezza. Vivendo in un mondo di rappresentazioni (c’è il presente e poi la ri-presentazione del presente) e di rappresentazioni in rappresentazioni di rappresentazioni eccetera…. siamo tagliati fuori dalla nostra natura, dalla natura. Siamo esiliati dalla realtà naturale ed è un grande problema.
Lo scopo della meditazione, la funzione del suo addestramento, è quello di liberarci dall’alienazione del mentale. Non si tratta di non avere più mentale, ma di non essere più illusionati e posseduti da esso. Fra l’altro questo permette alle capacità mentali di essere, alla fine, più agili.
Si tratta dunque di liberarsi dall’illusione del pensiero e del mentale. In Francia, il filosofo nazionale dice: “penso dunque sono”. È una frase che conosciamo tutti e che è interessante. “Penso dunque sono”, “sono perché penso”. Come praticanti della via del Buddha potremmo in un certo senso seguire volentieri Cartesio. “Sono perché penso”. Questo significa che il pensiero fa nascere, fa conoscere nel senso di “co-nascere”, il pensatore e ciò che è pensato. Il pensiero, o la concezione, fa nascere colui che concepisce ed il concetto. Nella concezione, c’è colui che concepisce e il concetto (il concepito), e nel pensiero c’è il pensatore e ciò che è pensato.
C’è qui qualcosa di molto profondo, di essenziale: la sensazione di esistere che sperimentiamo solitamente emerge dal nostro pensiero, dal nostro mentale. Se “sono perché penso”, una domanda pertinente sarebbe: “allora non sono quando non penso?”.
Domande e risposte
A volte si parla di “osservatore astratto”. Questo sembra diverso da “lasciare essere”.
R. L’osservatore astratto e il lasciar essere sono due espressioni diverse per la stessa esperienza. All’inizio, nella nostra esperienza abituale, c’è l’osservatore concreto che osserva quello che accade. L’osservatore astratto è l’osservatore leggero. All’inizio del cammino c’è un’osservazione dell’osservatore ma, invece di essere pesante e massiccia, è leggera. È quello che si intende con “vedere semplicemente”, osservare semplicemente piuttosto che vedere o osservare in modo pesante e complicato. Quello che rende pesante è l’intensità della fissazione, della presa/fissazione dell’osservatore. L’osservatore leggero, la visione leggera, semplice, l’osservatore astratto significa un’osservazione libera dalle fissazioni.
Nella meditazione nell’ambito Theravada, si parla di tagliare i pensieri alla radice, in modo da essere completamente fissati sull’oggetto della concentrazione.
R. La parola concentrazione è un problema di traduzione. In questi metodi, l’accento viene messo sull’assorbimento in un punto di riferimento unico. Si potrebbe tradurre con “attenzione ad una sola cosa”. Questa attenzione, se viene sviluppata profondamente fino all’esclusione di tutto l’ambiente, può condurre alla sparizione dell’ambiente. Alcuni stati meditativi sono delle specie di trance o degli stati di chiusura, di isolamento. Nell’approccio della nostra tradizione, mahāmudrā dzogchen, non è necessario coltivare questi stati di esclusione. È possibile sviluppare il riposo in una qualità di attenzione aperta. L’accento viene messo sull’attenzione pura piuttosto che sull’attenzione ad un oggetto, ad un punto di riferimento. Nondimeno i due approcci sono necessari e utili. Abbiamo bisogno all’inizio di un supporto, di un aiuto per rimanere tranquilli. Ad esempio prendiamo come supporto l’espirazione, ma nell’espirazione c’è dissoluzione e apertura, e, alla fine dell’espirazione, sospensione nell’aperto. Si associa l’appoggio sul supporto dell’ espirazione con il non-appoggio dell’attenzione pura nell’aperto.
Cosa fare quando un meditante è veramente scoraggiato e che lo strumento della meditazione perde il suo significato?
R. Questo avviene quando si dà un senso ristretto alla parola “meditazione”. Se la si intende come “esperienza giusta”, lavorare con la propria disperazione, vivere la propria disperazione è una forma di meditazione; volgersi verso ciò che c’è di sano è anche una forma di meditazione. In effetti, in senso lato, addestrarsi all’esperienza giusta è meditazione, anche se abbiamo la tendenza a limitare l’uso della parola a quello che facciamo seduti sul cuscino. Il lavoro o l’esperienza giusta della vita quotidiana con le sue speranze le sue paure, con le sue disperazioni e le sue sofferenze è, da questo punto di vista, la meditazione.
Dunque sarebbe bene che la persona che ha un problema continui a meditare?
R. La pratica è tanto più importante quando si è in una situazione difficile; è fonte di speranza, di vitalità, di rinnovamento, di trasformazione e di liberazione dal malessere e dalla sofferenza che sono all’origine della disperazione.
Si dice a volte che le emozioni ci chiudono, ho l’impressione che possono anche aprirci…
R. Nella pratica della meditazione si scopre la possibilità di sperimentare i pensieri e le emozioni senza essere qui. Il sé, lo sperimentatore, il testimone, impara a svanire, ad andare in vacanza… c’è allora un’astrazione dell’osservatore.
Concretamente, nella meditazione, ho difficoltà a sentire la differenza tra portare l’attenzione sul respiro e sentire l’ispirazione; non sento bene il tempo della pausa.
R. L’idea è di non attaccarsi alla respirazione. Non è necessario “censurare” l’ispirazione, avreste presto dei problemi! C’è la presenza nell’espirazione, poi, una volta che l’espirazione si è dissolta, si lascia essere e “inspira” naturalmente…. Poi l’espirazione successiva…
Nella cancellazione dell’io che avviene poco a poco nella meditazione, c’è un momento meraviglioso: “respira” senza che si faccia nulla. Trovo quest’esperienza molto confortante.
R. “Respira” senza bisogno di comandare. È lucido senza bisogno di produrre la lucidità. È aperto senza che ci sia bisogno di produrre l’apertura. La pratica della meditazione va nel senso dell’esperienza della scoperta dello stato fondamentale che è naturale, che non ha bisogno di essere prodotto.
Se faccio 20 minuti di meditazione al giorno, come saprò che questi minuti sono stati benefici o no?
R. Se va meglio è un buon segno! La buona pratica è come la buona tradizione: ci rende migliori, e la buona pratica è la pratica che fa in modo che vada bene, che vada meglio: più d’apertura, più d’attenzione, più presenza, più pazienza, più ricettività. Se siamo meno reattivi, passionali, agitati, sono dei buoni segni. Ma, per addestrarsi bene, è utile avere un addestratore, una persona qualificata e competente che ci accompagni nella pratica.
Da “Comprendere nell’esperienza” e dalla conferenza pubblica di Lama Denys Rinpoce “La meditazione al cuore della via”, Lione giugno 2012.bhgg c
1 i termini qui tradotti dal francese valgono anche per l’italiano. In italiano abbiamo un termine in più, che viene usato correntemente per tradurre mindfulness, ovvero “consapevolezza”.
2 Qui Rinpoce usa un soggetto neutro: “inspira” senza un soggetto, per sottolineare l’assenza dell’ “io” soggetto.