Denys Rinpoce: Etica e spiritualità universale
L’unità nella diversità
1. INTRODUZIONE
La tradizione universale
Quando parliamo di etica e di spiritualità universali non si tratta di esporre una nuova spiritualità ma piuttosto di mettere in evidenza il denominatore comune etico e spirituale che si trova in tutte le tradizioni autentiche. Questo denominatore comune è il luogo della loro unità, il cuore vivo che anima la diversità delle loro espressioni.
Questo fondo comune può essere definito “tradizione universale”, “insegnamento universale”, “dharma universale”, espressione della “philosophia perennis”. Dal momento che è presente in tutte le tradizioni sane, metterlo in evidenza permette di promuoverlo, in modo che tutti possano condividerlo in una comprensione comune.
Dal momento che tutte le tradizioni si stabiliscono sulla sapienza di questa base, si possono in seguito rispettare le particolarità delle vie che sono diverse dalla propria e anzi apprezzare la loro diversità come una ricchezza dell’umanità.
Unità nella diversità: molteplici espressioni per la stessa esperienza
Le diverse tradizioni sane o autentiche si esprimono nella diversità delle formulazioni che si originano dal contesto della loro epoca. Ma sono tutte l’espressione della stessa esperienza fondamentale che è quella della nostra natura. E’ la fonte dei valori umani fondamentali. Una stessa esperienza soggiace ad una diversità di espressioni. C’è un’unità di fondo nella diversità delle forme e delle espressioni. E’ quello che intendiamo con “unità nella diversità” delle tradizioni etiche e spirituali sane, le tradizioni d’armonia.
L’esperienza unisce, i concetti dividono
Quando due saggi (yogi) si incontrano, se non sono d’accordo è perché uno dei due non è saggio; se due teologi discutono e dibattono, se sono d’accordo è perché uno dei due non è un teologo! (Proverbio tibetano).
Le tradizioni sane e autentiche?
Quali sono i criteri di salute, di validità, o di autenticità di una tradizione? Che cos’è che rende una tradizione sana o malsana?
Non si tratta di considerare tutte le tradizioni equivalenti senza valutare l’impatto che hanno sui loro praticanti e il mondo in generale, secondo quello che trasmettono ed insegnano.
La risposta fondamentale che stiamo cercando non può venire dal giudizio di valore fondato su dei criteri ideologici, o su delle credenze che non saranno mai universali. Ci porremo invece in una prospettiva medica. Si tratta di effettuare una diagnosi che valuti la salute della tradizione che stiamo prendendo in considerazione. In generale notiamo che la salute è la forma che prende l’armonia in un organismo vivente. Un organismo vivente le cui funzioni operano armoniosamente , ovvero senza disfunzioni, si trova in uno stato di salute. E, come sa ognuno nella sua esperienza personale, la salute è uno stato di benessere e di felicità. Notiamo che, naturalmente, armonia, salute, benessere e felicità vanno insieme, così come i loro contrari: disarmonia, malattia, malessere e sofferenza.
Da questo punto di vista, una tradizione di armonia genera pace, felicità e benessere per tutti, al contrario di una tradizione di disarmonia. La dimensione sana di una tradizione è la sua capacità di sviluppare, coltivare la pace, l’armonia, la salute e tutte le virtù umane fondamentali.
Al contrario, la dimensione patogena, malsana o nociva di una tradizione è la sua capacità di alimentare odio e passioni, e proprio per questo essere una causa delle guerre, dei conflitti e delle lotte.
In sintesi, è sano tutto quello che è fattore di armonia e, di conseguenza, di felicità per se stessi e gli altri, ed è malsano o patogeno tutto quello che è fattore di disarmonia e di sofferenza per se stessi e gli altri. Detto in una formula: la tradizione migliore è quella che ci rende migliori.
Nessun sincretismo
Non si tratta di fondare una specie di nuova tradizione sincretistica secondo una procedura “New Age”, né di creare un patchwork o un’antologia di quello che c’è di più seducente nelle diverse tradizioni che esistono già.
L’approccio universalistico di unità nella diversità riconosce “lo stesso fondo sotto forme diverse”. Per quelli che sono già impegnati in un cammino spirituale, consiste in pratica a risvegliarsi ad una dimensione universale della propria tradizione e a constatare che in questa tutte le tradizioni di armonia, di salute e di pace si ricongiungono.
Per tutti quelli che non sono impegnati in un cammino spirituale presenta la possibilità di un cammino etico e spirituale, universale e aconfessionale, che non richiede di aderire ad una credenza quale che sia. La cosa più importante per ognuno è di riconoscere il denominatore comune: la dimensione universale dell’etica e della spiritualità e di praticarla pienamente nella tradizione, religiosa o no, che gli è più adatta, incoraggiando gli sta vicino a fare la stessa cosa. Quest’approccio permette ad ogni tradizione di sviluppare ciò che ha più profondo e di più fondamentale, e di riportare i suoi praticanti sull’essenziale.
2. TRADIZIONE, RELIGIONE, FILOSOFIA O SPIRITUALITÀ?
La parola “tradizione” viene qui intesa come termine generico che include i significati di “religione”, di “filosofia” ed anche di arte di vivere.
La pratica di una tradizione si riassume in due aspetti: la disciplina etica, pratica di una vita sana, e l’esperienza spirituale che comprende la conoscenza della realtà e la sua esperienza vissuta.
“Tradizione” piuttosto che “religione”.
Perché usare la parola “tradizione” piuttosto che la parola “religione”? Religione è un termine che è nato nell’ambito storico e geografico occidentale. Ed è difficilmente trasponibile al di fuori del contesto monoteista che l’ha originato. Estenderlo a tutte le forme di ricerca o di cammini fondamentali diventa rapidamente origine di una serie di assimilazioni che non sono corrette. Il problema è nel fatto che oggi “religione” è un termine fortemente connotato, che viene assimilato all’adesione ad un sistema di credenze e ad un certo formalismo.
Ad esempio, un praticante della via del Buddha si può trovare a disagio negli incontri inter-religiosi ai quali viene invitato quando viene assimilato ad un “credente”. Facciamo notare che in un contesto anglofono, gli incontri interreligiosi vengono organizzati spesso con il termine di “interfaith dialogue” che si può tradurre letteralmente con “dialogo tra le fedi”. In questa definizione la religione viene assimilata alla fede e, implicitamente, la religione consiste all’ adesione ad una credenza. È senza dubbio vero per i monoteisti, che hanno scelto questo termine nel quale sembrano riconoscersi, ma l’adesione ad una credenza non è certo un criterio adeguato per caratterizzare la via del Buddha e quelli che la praticano. Il problema viene dal presupposto che si trova nella nozione di religione e quindi nella nozione di interreligioso.
Sicuramente tutto dipende dal modo in cui definiamo la religione. Se per religione intendiamo “quello che ci riunisce all’assoluto”, alla nostra natura fondamentale ed essenziale (che è fra l’altro il significato della parola “yoga” ), allora la tradizione del Buddha è una religione. Il termine sanscrito “yoga” ha il significato di unione, di unificazione. Nella sua traduzione tibetana, rnal ma la ‘byor ba, il termine viene tradotto come “l’unione allo stato fondamentale della natura della mente”. La via del Buddha è dunque uno yoga spirituale, la forma ultima di yoga, l’unione alla mente pura, l’unione assoluta. Intesa in questo modo, la parola “religione” è un sinonimo di “yoga”, ma non è sicuramente l’accezione abituale di questo termine.
Sicuramente nella religione possiamo distinguere il cuore e l’involucro. Il cuore della religione sarebbe dunque la sua dimensione spirituale ed etica, e il suo involucro le credenze e il formalismo che la rivestono. Secondo questa distinzione, potremmo parlare di religione e di religiosità, associando l’etica e la spiritualità alla religione, e la tendenza al suo formalismo, alla religiosità. Questa presentazione ha il vantaggio di non ridurre la religione alla religiosità, ma ancora una volta non è questo l’uso abituale di questi termini.
Infine, sembra che la parola “religione” soffre, presso molti dei nostri contemporanei, di un’ aura e di un a priori sfavorevoli : “il mondo ha un’ indigestione di religioni ma è affamato di spiritualità” come è stato detto in occasione di un importante incontro interreligioso.
In sintesi, “tradizione”, termine che è strettamente associato alla nozione di trasmissione (che deriva dal latino tradere “trasmettere, rimettere, trasmettere oralmente o per iscritto”) definisce meglio la via del Buddha e tutte le trasmissioni etiche e spirituali non monoteiste. In un contesto generale impiegheremo dunque questo termine piuttosto che la parola “religione”.
Una “filosofia”?
Per quanto riguarda la filosofia si è soliti parlare di “tradizione filosofica” e il filosofo è, etimologicamente parlando, “amico della saggezza”, è un “ innamorato della bella saggezza”, intendendo dunque la filosofia come “l’amore della saggezza” ed anche per un buddhista amore e saggezza sono sinonimo della “tradizione del Buddha”.
Secondo questa prospettiva, potremmo anche parlare di “saggezza dell’amore”, associando la teoria o visione della saggezza all’azione o pratica d’amore: la saggezza dell’esperienza spirituale e l’amore di un’etica di compassione. L’amore o la compassione sono qui uno stato di apertura, di partecipazione pratica, di comunione non egotica e, in questa comunione, di azione fondamentalmente non violenta.
La filosofia intesa in questo modo si ricongiunge alla pratica etica e spirituale universale. Corrisponde ai due aspetti fondamentali della via del Buddha: la presenza di immediatezza e la grande compassione. Questa filosofia di vita sacra, operativa e trasformante è la tradizione del Buddha.
Nondimeno, nel contesto contemporaneo, la parola filosofia riflette i limiti dovuti al carattere umano e all’esperienza limitata dell’autore di tutti i processi filosofici. Il filosofo sfortunatamente non è sempre un saggio né una persona realizzata nel senso profondo. La sua visione e la pratica che ne deriva non hanno allora sempre la capacità di condurre alla realizzazione spirituale. La filosofia, nel senso comune moderno, è generalmente limitata dall’ego del filosofo e non permette la vera trascendenza dell’ego che è il cuore di una spiritualità autentica e completa. Inoltre, filosofia ha una connotazione intellettuale e speculativa che non è l’esperienza risvegliata, e dunque non useremo questo termine in un modo generale.
“Spiritualità”?
Infine, anche il termine di “spiritualità” è contestabile, perché fortemente connotato nei suoi riferimenti occidentali. Questo termine implica una dicotomia tra la mente, (spirito), e il corpo, tra la mente (spirito) e la materia. In Occidente gli spiritualisti dicono che tutto è spirito (mente) e i materialisti dicono che tutto in materia.
Spiritualismo o materialismo, da un punto di vista della via del Buddha sono due estremi fondamentalmente inadeguati. Dire che tutto è materia o che tutto è mente (spirito) in fondo non è così diverso; il processo cognitivo soggiacente è lo stesso, ovvero considerare un “tutto”, un substrato che in un caso viene etichettato come materia e nell’altro come spirito. Come se mettessimo sul “Grande Tutto” un’etichetta a volte rossa, a volte blu! Il problema di fondo è l’etichetta concettuale stessa, ovvero la presa-fissazione concettuale, l’operazione di designazione, di denominazione, di concezione: poco importa il colore dell’etichetta! La malattia è la presa-fissazione.
3. LA SPIRITUALITA’ UNIVERSALE?
Una via di trasformazione
La spiritualità, o cammino spirituale, si potrebbe definire semplicemente come ciò che rende la persona migliore, ciò che la apre, la risveglia agli altri, al mondo e a se stessa. Il cammino spirituale è quello che sviluppa in ogni persona i valori umani fondamentali come la compassione, l’altruismo, la benevolenza, la tolleranza o la saggezza. La pratica spirituale è quello che trasforma la persona, nel superamento dell’ego e dell’egoismo, delle illusioni e delle passioni che ne derivano. E’ un’”ascesi personale”, una trasformazione di sé nella realizzazione spirituale, è un lavoro con la materia prima di “ciò che sono”. In sintesi, è una via pratica di trasformazione e dissoluzione dei problemi passionali e delle illusioni, una pratica di realizzazione della natura essenziale e fondamentale, la nostra e quella della realtà.
Livello relativo e assoluto
Possiamo distinguere due livelli della pratica spirituale: il livello relativo e il livello assoluto. Il livello relativo è quello che ci rende migliori nello sviluppo dei valori umani fondamentali. Il livello assoluto è la realizzazione fondamentale, la realizzazione del fondo della mente-esperienza, della nostra natura fondamentale. I due sono collegati: il primo porta al secondo e la realizzazione del secondo contiene naturalmente il primo.
Intesa in questo modo, la spiritualità si riassume in “conosci te stesso” dell’imperativo socratico che rimanda all’invito del Buddha a realizzare la nostra natura fondamentale. La spiritualità è l’approccio pratico di questo invito, una ricerca della natura della mente e della realtà, una ricerca sperimentale.
La spiritualità intesa in questo modo si ricongiunge alla filosofia operativa . È una “spiritualità cognitiva” nel senso che conduce verso la natura della conoscenza, la natura dell’esperienza cognitiva che io sono e vivo: la conoscenza sperimentale, la comprensione, la realizzazione della natura della mente-esperienza. La realizzazione della natura della cognizione: “quello che sono e quello che è nell’esperienza che vivo”.
La spiritualità universale è naturale
Notiamo che questo processo spirituale cognitivo ha naturalmente un carattere universale e atemporale. L’esperienza che comprende, che realizza la natura della mente-esperienza è stata vissuta migliaia di anni fa, così come si può vivere al giorno d’oggi.
Il fondo dell’esperienza spirituale si situa prima delle rappresentazioni concettuali che la descrivono. È ciò che fa la sua universalità e che spiega il fatto che non è riducibile ad un approccio concettuale, religioso o filosofico che sia.
È anche evidente che se questa esperienza dell’assoluto è sempre la stessa nelle sue dimensioni universale e atemporale, i modi per dirla, per interpretarla, per concepirla, verbalizzarla ed insegnarla nelle sue diverse trasmissioni si sono molto evoluti e possono essere molto diversi tra di loro.
E’ qui che si trova l’intelligenza dell’unità immanente o trascendente delle tradizioni autentiche. Un’unità nella perfezione naturale onnipresente, risiede spontaneamente nella trascendenza della dualità creata dalla concezione.
Definita in questo modo, la pratica spirituale essenziale non dipende dall’adesione ad una religione, anche se la maggior parte delle religioni comprende questa dimensione spirituale. La pratica e l’esperienza spirituale, al loro livello relativo o assoluto , si trovano al cuore della religione ma non sono riducibili a questa. È in questo senso che possiamo parlare di una dimensione spirituale universale non religiosa ed affermare anche il dharma, essendo una spiritualità autentica e completa, non è una religione.
Una spiritualità al di là delle credenze
Sicuramente “l’esperienza assoluta” può sembrare una credenza per le persone che non l’hanno realizzata o che non ne hanno avuto uno scorcio nella propria vita. Perciò non si tratta di aderire a delle formule, ma piuttosto di liberarsi di queste sotto tutte le forme, nell’esperienza di un mentale silenzioso.
Lo stato di presenza assoluta o di immediatezza non duale va considerata come un’ipotesi in un processo sperimentale. L’ipotesi della realtà di questo stato merita la nostra attenzione perché è confermata dai più grandi mistici e ricercatori spirituali di tutte le tradizioni. Se stimiamo che quest’ipotesi è sufficientemente interessante per essere messa alla prova dell’esperienza, lo faremo seguendo le indicazioni di questi illustri precursori. Seguiremo le tappe del cammino con le loro discipline. Degli indizi ci potranno incoraggiare per proseguire la sperimentazione. Facciamo dunque un’ipotesi che testiamo attraverso la sperimentazione che la potrà validare o meno, come in un processo scientifico sperimentale. Il Buddha stesso disse: “non seguite il mio insegnamento per venerazione nei miei confronti. Se lo seguirete che sia per averlo messo alla prova dell’esperienza. Così come si testa l’oro sfregandolo o piegandolo, testate l’insegnamento e se lo seguite, che sia perché ne avete verificato la validità”.
La credenza non è essenziale per una vita spirituale ed anzi costituisce un ostacolo. Può essere utilizzata come un trampolino o come un aiuto preliminare, ma, in quello che essa ha di più profondo, la ricerca spirituale richiede alla fine di liberarsene. La credenza è una forma di fissazione mentale e tutte le fissazioni mentali sono alla fine degli ostacoli alla realizzazione ultima. La credenza può essere un metodo per accedere alla spiritualità o per incoraggiare i credenti ad impegnarsi in un’etica. È una via facile perché basta credere, ma è pericolosa. In effetti se la credenza non viene compresa come verità provvisoria e non viene superata, diventa un ostacolo alla realizzazione profonda. Al limite, la credenza assolutizzata chiude definitivamente e irrimediabilmente in una presa-fissazione mentale e un’illusione concettuale definitive.
Facciamo notare che la credenza, senza però includervi la fede e ancora meno la fiducia fondamentale, giustifica tutto quello al quale possiamo credere, per quanto stravagante possa essere. Inoltre, ogni dogma o credo è fondamentalmente una forma di fissazione mentale che consiste ad aderire ad una formulazione concettuale che è stata posta come verità. Questa adesione non ha altra giustificazione che la credenza che la autogiustifica. Questo tipo di fissazioni che si autogiustificano quando si applicano all’ultimo o all’assoluto, diventano una forma di alienazione molto grave, perché il loro funzionamento autoreferente fa sì che sia estremamente difficile, addirittura impossibile, uscirne, il che tende a rendere incurabili quelli che ci si attaccano.
Affinché non ci siano dei malintesi, bisogna distinguere la credenza così come ne abbiamo appena parlato dalla fiducia fondamentale che è invece esattamente quello che permette di lasciare andare le prese-fissazioni o appoggi. Di fatto, la fiducia fondamentale, che è l’aspetto essenziale della fede, è ciò che permette di lasciare andare le fissazioni passionali o concettuali, tra cui le credenze quali che siano.
Non si tratta nemmeno di assolutizzare la ragione: la ragione e la logica sono un mezzo di conoscenza valido a livello relativo. Per quanto riguarda l’ultimo, l’assoluto, come dice un vecchio adagio alchemico “chi ragiona risuona, bisogna che il tamburo sia distrutto”! L’ultimo è al di là di ogni ragione e di ogni concetto!
La vera trascendenza: al di là dei concetti
Una posizione filosofica tra le più profonde del dharma, il Madhyamaka, propone un’uscita dagli appoggi concettuali. Si tratta di un varco al di là di ogni appoggio, una trascendenza della concezione. Questa trascendenza è una liberazione dalla presa concettuale dualista, una liberazione dalla dualità soggetto-oggetto, osservatore-osservato. È la liberazione nell’esperienza o realizzazione della perfezione assoluta. Il Madhyamaka propone l’uscita dal processo di etichettamento, quali che siano il colore o il nome dell’etichetta: Assoluto, Dio, Allah, Cristo, Buddha o altro. Il Madhyamaka è un varco al di là dei nomi e delle forme, al di là della presa concettuale, una visione che trascende la conoscenza “rappresentazionista”.
Da un punto di vista pratico, la dissoluzione e lo svanire delle prese concettuali aprono all’esperienza di un substrato senza fondo, né nome, né forma, la Chiara luce che trascende tutti gli opposti. La mente si libera dalle rappresentazioni e si apre all’esperienza primordiale, la presenza eterna. Questa apertura è una varco nel fondo del fondo senza fondo, un’apertura alla presenza di immediatezza primordiale. Questo varco apre ad una esperienza al di là delle religioni e dei dogmi.
L’assoluto non è riducibile ad un nome, proprio o comune, né ad una formulazione concettuale quale che sia.
La non dualità: al di là di tutte le prese-fissazioni.
La liberazione dalla presa concettuale è anche la liberazione dalla dualità soggetto- oggetto, dall’illusione di un io e di un altro separati. Intendiamo con “assoluto” la realtà non dualista aconcettuale, che è qui prima della presa duale che genera l’impressione di una separazione tra soggetto osservatore e oggetto osservato. Questa esperienza di non dualità è ultima, assoluta, nel senso che in essa non c’è più qualcuno per andare al di là di qualche cosa d’altro.
L’assoluto non è trascendente, né immanente, e nemmeno le due cose, né l’assenza delle due. L’assoluto sfugge a tutte le determinazioni concettuali del mentale duale. “Assoluto” è dunque un nome convenzionale per designare il non appoggio, l’aldilà della concezione, l’intelligenza immediata, lo stato di presenza. L’esperienza dell’assoluto è quella di un’intelligenza aperta, senza centro ne periferia, il cui centro è ovunque e la periferia non è da nessuna parte. Al di là dell’ego, delle sue fissazioni, dei suoi blocchi e pulsioni passionali; è anche lo stato di non violenza fondamentale, di compassione assoluta.
Un’esperienza allo stesso tempo razionale e mistica.
La spiritualità che tende verso l’aldilà delle credenze, dei concetti e di ogni presa- fissazione è accessibile tramite la ragione e tramite l’esperienza immediata. È dunque allo stesso tempo razionale e mistica: il processo intellettuale che vi conduce segue la ragione e la logica, queste culminano nella comprensione dei loro limiti, per sfociare finalmente su una realtà inafferrabile.
È un’esperienza universale perché è precedente alle particolarità concettuali. È un’esperienza di non appoggio e di non presa concettuale. La si può dire mistica nel senso che è una partecipazione diretta, una presenza immediata di “istantaneità” nella quale si vive quello che noi siamo prima che la mente crei la presa-fissazione di un soggetto.
La vita sacra.
La spiritualità autentica è uno stato d’animo, una motivazione altruista non egoisti, la capacità di vivere la vita quotidiana con un atteggiamento di mutuo rispetto e di solidarietà. È un modo di essere, una qualità di vita, una partecipazione alla dimensione sacra della vita. La vita spirituale nasce dal nostro impegno nell’apprendimento di questa trasformazione interiore. Consiste a coltivare uno stato mentale che si vive in ogni momento, 24 ore su 24. La vita diventa allora pratica spirituale ed etica. È quello che chiamiamo “la vita sacra”, la vita nella sua dimensione sana. Qui intendiamo con sacro “quello che si vive alla presenza della smobilitazione dell’ego”, è un’esperienza che non dipende da un luogo, da una persona o da qualunque altra cosa, anche se l’ambiente, il contesto esterni possono aiutare, possono essere dei mezzi preziosi in alcune circostanze.
4. L’ETICA UNIVERSALE
Un’etica universale.
Un’etica o disciplina di portata universale non si può fondare che su quello che è comune a tutti gli umani, quello che unisce tutti, indipendentemente dalle considerazioni particolari. La dimensione universale dell’etica si basa dunque “nostro denominatore comune antropologico fondamentale”, ovvero sulla nostra natura fondamentale, che ènaturalmente comune a tutti gli umani, e questa natura peraltro non è differente dalla natura onnipresente.
Una prospettiva medica piuttosto che giuridica.
Le fonti dell’etica sono presentate in modi diversi nei diversi contesti religiosi o filosofici, ma quando si arriva alla questione delle basi dell’etica, una dimensione universale dell’etica sarà di ordine medico piuttosto che giuridico.
In effetti il giuridico non ha valore che nella sua propria giurisdizione. Inoltre esso implica un legislatore, una legge, degli argomenti di autorità, il fatto di conformarsi alla legge, di trasgredirla, un giudizio, l’innocenza o la colpevolezza, la punizione, una ricompensa con una mentalità di colpevolezza.
Ciò che è medico, al contrario, è naturalmente valido in tutti i campi della vita e delle sue esperienze sensoriali e mentali. Un’etica medica è un’etica di salute, di armonia: così come ci sono dei principi o delle regole di salute alimentare o di igiene, ci sono dei principi, delle regole di salute spirituale, psicologica o sociale che costituiscono l’etica.
Questi principi proteggono noi stessi e gli altri dai comportamenti patogeni e coltivano l’armonia della salute e dei suoi benefici: benessere e felicità per se stessi e per gli altri.
Il contesto medico della dimensione universale dell’etica è anche non confessionale. La sua validità non dipende dal riconoscere l’autorità di un legislatore particolare o l’adesione ad una credenza. Uno di quelli che ha esposto questa etica di salute è il Grande medico, uno dei titoli o epiteti di del Buddha. Le sue prescrizioni consistono nel coltivare i valori umani fondamentali, guarire dall’egoismo e coltivare l’altruismo.
Un’etica terapeutica.
– Una prospettiva di salute.
La dimensione universale dell’etica coltiva e sviluppa quello che è sano in una prospettiva medica di salute o di armonia. Una tale etica è differente da un’etica di tipo giuridico fondata su dei comandamenti utilizzati come degli argomenti di autorità, che alla fine giustificano le regole che originano. La dimensione globale dell’etica è un comportamento di non violenza. Per meglio comprenderla, partiamo dalla semplice constatazione che abbiamo tutti, chiunque noi siamo, una stessa motivazione: il benessere o la felicità.
– L’aspirazione alla felicità.
In una prospettiva universale, con il meno possibile di a priori e di presupposti, partiamo da quello che è comune a ogni forma di vita: ogni forma vivente tende a mantenere il suo stato di equilibrio, la sua coesione interna. È un modo per dire che cerca di mantenersi viva nel suo stato normale di salute. Questo stato si stabilisce nelle relazioni sane con l’ambiente circostante. Questa tendenza alla salute è anche una tendenza al bene, alla felicità.
Tutti noi, esseri umani, abbiamo dunque questa aspirazione ad essere felici. Siamo tutti, in modi diversi, impegnati nella ricerca della felicità. Se andate in un qualunque posto del mondo e chiedete a chiunque, vi esprimeranno questa stessa aspirazione alla felicità. Se consideriamo la questione da un punto di vista giuridico, si può dire che abbiamo tutti lo stesso diritto alla felicità!
Ci sono qui le basi dei diritti e doveri fondamentali dell’umano e anche oltre l’umano, perché questa aspirazione alla felicità, che è comune a tutti i viventi, al di là della specie umana, perché dovrebbe, se la si intende come un diritto, fermarsi agli umani?
In particolare, in primo luogo, possiamo considerare i nostri cugini, i grandi primati, il cui patrimonio genetico è quasi simile al nostro. Dimostrano delle capacità tali che la frontiera con l’umano non è più chiaramente stabilita. Possiamo includere poi gli animali in generale e infine ogni forma di vita.
Notiamo qui che un comportamento etico nei confronti di tutti i viventi significa il rispetto di ogni vita, e l’adozione di comportamenti di non violenza che evitino di provocare tutte le sofferenze che si possono evitare.
Nella nostra aspirazione comune alla felicità l’altro è il nostro simile: abbiamo tutti la stessa motivazione e, in essa, siamo identici. In questa aspirazione comune, l’altro è un altro me stesso. È come me e siamo tutti uguali, io sono un altro voi stesso e voi siete un altro me stesso, lo possiamo dire in tutte le variazioni possibili. Abbiamo la stessa aspirazione al benessere e alla felicità.
È molto importante entrare autenticamente in questa comprensione: l’altro è un altro me stesso. Nella nostra aspirazione fondamentale, io sono come l’altro e l’altro è come me. Questa comprensione, questa esperienza che riconosce l’altro, chiunque esso sia, come il proprio simile, è un atteggiamento profondamente rispettoso dell’altro e attento al suo benessere, un sentimento di benevolenza e di compassione altruista.
Inoltre, siamo tutti, in tanti modi, interdipendenti. Dipendiamo tutti gli uni dagli altri e la nostra felicità, il nostro benessere, dipende dall’altro, dagli altri. Questo è vero in molti modi. L’uomo è un animale sociale e questa interdipendenza è evidente nella struttura sociale. Guardate tutto quello che utilizziamo, tutto quello che abbiamo, per non dire tutto quello che consumiamo al giorno d’oggi,:lo dobbiamo a degli altri. Il nostro cibo, i nostri abiti, la nostra abitazione eccetera. Siamo interdipendenti che sia a livello sociale, economico, ecologico o biologico. Dipendiamo dagli altri, io dipendo da chi è altro da quello che sono; quello che sono è fatto grazie agli altri, il mio io è fatto di altro da me. È la comprensione dell’interdipendenza: il mio io è fatto di elementi altri che da me, e questo è vero in molti modi. Questa comprensione dell’interdipendenza contribuisce a un atteggiamento di benevolenza e di bontà generale.
Inter-essere e solidarietà.
Un sentimento accresciuto della responsabilità nasce dalla comprensione dell’altro come un altro me stesso ed alla comprensione dell’interdipendenza. Questo sentimento ci risveglia alla nostra capacità a fare il nostro bene realizzando quello degli altri. Siamo dunque responsabili della nostra felicità, realizzando quella degli altri. E dunque, da questo punto di vista, realizzare la nostra felicità facendo quella degli altri è dell’altruismo e allo stesso tempo il modo più intelligente di essere egoista!
Nella comprensione dell’interdipendenza c’è una dimensione di responsabilità generale, una responsabilità allo stesso tempo individuale e universale.
La regola d’oro.
Partendo da questa aspirazione alla felicità che ci accomuna ed è legittima, l’etica consiste semplicemente nei comportamenti e nelle attività nelle quali noi agiamo non facendo agli altri la violenza, l’infelicità, il dolore o la sofferenza cui noi stessi non vorremmo essere vittima. Non infliggere agli altri quello che noi stessi non vorremmo subire.
È quello che definiamo la regola d’oro dell’etica universale: “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, è semplicemente così. Questa regola d’oro si incontra in tutte le tradizioni filosofiche, umanistiche e religiose, è il fondamento della dimensione universale dell’etica. È il denominatore comune di ogni buona etica, ovvero di ogni etica di bontà e benevolenza, di ogni etica di salute, di pace e armonia.
La regola d’oro è un principio di non violenza, di compassione. Per non violenza intendiamo la non violenza delle pulsioni dell’ego che sarebbe pronto a fare il proprio bene a detrimento di quello degli altri. È un atteggiamento di non aggressività, di non violenza dell’ego passionale. È la smobilitazione della violenza delle passioni come la collera, l’odio, l’avidità o la possessività che distruggono o prendono a dispetto degli altri. L’etica della regola d’oro è possibile nella e tramite l’amore o la compassione, intendendo con “amore-compassione” una qualità di partecipazione alla realtà dell’altro e, grazie a questa partecipazione, una qualità di non violenza. Nell’empatia che mi fa rende partecipe dell’altro nella sua realtà, non gli farei la violenza che non vorrei subire.
Un’etica al di là delle credenze.
In questa prospettiva, l’etica non è qualcosa di religioso e parleremo naturalmente di una etica non confessionale che non è fondata su dei presupposti ideologici, dei dogmi o delle credenze quali che siano. Partire dal fatto che aspiriamo tutti alla felicità non è una credenza ma una constatazione empirica e primordiale. Questa etica insegna ad essere buoni, ad essere altruisti, è una disciplina di bontà e di benevolenza. Questa etica è valida che si sia credenti o no poco importa, perché la credenza diventa allora un’opzione personale.
Un’etica universale di compassione.
I diritti e doveri dell’umano e la nozione di responsabilità universale sono delle estensioni della regola d’oro. Questa regola di etica di compassione non violenta è non solo comune a tutte le tradizioni sane ma può essere considerata come ilprincipio che soggiace a tutte le regole etiche insegnate in ogni tradizione. Infatti, tutti gli aspetti dell’etica possono essere intesi come lo sviluppo o l’estrapolazione di questo principio di base di compassione e di non violenza. La bontà di non violenza si applica a tutti i campi dell’etica.
La compassione autentica è una qualità di apertura e di ricettività che permette di incontrare l’altro nella sua realtà; è una qualità di empatia, di partecipazione alla realtà dell’altro come se fosse la nostra realtà personale. E’ la sensazione dell’altro come un altro me stesso. È amare l’altro come se stessi.
Questa ricettività della compassione è naturalmente concomitante con una grande disponibilità nei confronti degli altri. Si diventa capaci di prendersi cura degli altri come di se stessi, come la mano sinistra si prende cura della mano destra, così la compassione è la base della solidarietà o della fraternità.
Azione su se stessi e sul mondo.
Il comportamento generale è fatto di comportamenti individuali. Quando un certo numero di persone cambiano i loro comportamenti individuali sviluppano una nozione di responsabilità, e si giunge ad un certo punto ad una “massa critica” e questa provoca una rivoluzione etica e spirituale!
Per riprendere un tema che ha sviluppato Kundun, il Dalai Lama: “azione su sé, azione sul mondo”, é agendo su di sé in una responsabilità personale, individuale che si ottiene un’azione reale ed efficace sul mondo e la sua trasformazione. È in effetti il solo modo autentico di agire, perché volendo cambiare le cose esteriormente senza trasformazione interiore non facciamo che ripetere delle situazioni passionali e conflittuali proiettando esteriormente le strutture nevrotiche e conflittuali interiori.
5. CONCLUSIONE: UN CUORE ETICO E SPIRITUALE PER IL MONDO.
La trasformazione interiore si opera nel cuore dell’etica e della spiritualità universale che è il denominatore comune di tutte le tradizioni di pace e di giustizia ed anche il criterio della loro autenticità. Il cuore vivente che anima la diversità delle loro espressioni. Questa visione universalistica pone le basi di sinergie intertradizioni -religioni e filosofie – per il bene di tutti.
La globalità, l’universalità dell’etica e della spiritualità che abbiamo esposto qui è fondata su quello che tutte le tradizioni, le religioni autentiche hanno in comune : la realtà dalla quale esse emergono e verso la quale esse conducono non è altro che la nostra natura fondamentale, la natura essenziale della vita.
Questa visione riposa dunque su un’antropologia fondamentale, la comprensione dell’umano nella totalità della sua natura e della sua realtà. Questa visione non è né riduttrice né limitante. Semplicemente non considera le credenze auto-giustificatrici come base del cammino. In questo senso si tratta di una visione non confessionale, libera dai presupposti teisti o atei, quali che siano.
Tutte le tradizioni di salute partecipano ad una stessa essenza, ad una stessa natura, esse si originano da essa e conducono infine alla sua realizzazione.