Il Karmapa: Le due due tradizioni di Assunzione dei voti del Bodhisattva e come realmente riceverli.
21 Gennaio 2016. Monastero di Tergar, Bodh Gaya, Bihar, India Appunti ed editing del Dr. Luciano Villa, revisione dell’Ing. Alessandro Tenzin Villa e di Graziella Romania nell’ambito del Progetto “Free Dharma Teachings” per il beneficio di tutti gli esseri senzienti. Ci scusiamo per i possibili errori ed omissioni.
Sua Santità il Gyalwang Karmapa
Continuiamo la spiegazione dei rituali del far sorgere la bodhichitta nei due lignaggi: uno derivante da Manjushri e l’altro da Maitreya. Alcuni studiosi affermano che le tradizioni differiscono non solo nei loro rituali, ma anche nella sostanza, perché attribuiscono il lignaggio di Manjushri alla scuola della di Via di Mezzo e quello di Maitreya alla scuola della Sola Mente. Altri studiosi non sono d’accordo con queste attribuzioni.
C’è il pericolo, devo ammonire, d’etichettare le due tradizioni come “Via di Mezzo” e “Sola Mente”, perché la visione della Via di Mezzo è di solito considerata superiore a quella della Sola Mente. Così, automaticamente, il rituale della Via di Mezzo diventerebbe superiore a quello della Sola Mente. Inoltre, questa etichettatura denigrerebbe anche Asanga collocandolo nel livello inferiore della unica scuola Mente. Pertanto, invece di questi due termini si parla dei lignaggi della visione profonda (Nagarjuna) e dell’azione vasta (Asanga).
Cos’è un rituale autentico? Drukpa Kunlek ha detto che la bodhichitta ultima nasce dalla vera essenza del rituale. Che cos’è? La benedizione del lama. Un vero e proprio rituale è un mezzo per comprendere il significato profondo.
Sebbene ci sia un dibattito sul fatto che la bodhichitta ultima può realizzarsi o meno attraverso un rituale, ciò che è più importante per noi è se la bodhicitta relativa sorge o meno. Se non facciamo gli sforzi appropriati e non addestriamo le nostre menti con mezzi abili e saggezza, non sorgerà nemmeno la bodhicitta relativa.
In realtà è più importante generare compassione per sé stessi piuttosto che per gli altri. Di solito la nostra compassione è rivolta verso l’esterno, ma dovremmo avere il coraggio di ripiegarci su noi stessi ed indagare il modo in cui noi stessi soffriamo. L’esperienza personale del dolore è la base per sviluppare reale compassione, che poi si estende da noi stessi verso gli altri e ci permette di capire veramente la loro situazione. Essi soffrono come me. Quanto grande sarebbe se ne fossero liberati. In sintesi, proprio come vediamo la nostra sofferenza e abbiamo compassione per noi stessi, dobbiamo quindi svilupparla per gli altri, sulla base della nostra esperienza. Questo modo di generare compassione è molto importante.
Vediamo ora le due tradizioni o lignaggi per l’assunzione dei voti del bodhisattva. Nel prezioso Ornamento della Liberazione, Gampopa descrive due lignaggi: l’uno derivante dal nobile Manjushri e tramandato attraverso il Maestro Nagarjuna ed il Maestro Shantideva, e l’altro proveniente dal nobile Maitreya e scendendo attraverso il maestro Asanga ed il Maestro Serlingpa. Prenderò quindi queste due tradizioni come punto di partenza.
Nel suo commentario “Entrando nella Via del Bodhisattva”, Pawo Tsuglak Trengwa (1504-1566) descrive le differenze tra le due tradizioni relative su come vengono prese i voti. La tradizione di Shantideva comporta sei fasi di preparazione: (1) fare offerte, (2) confessare le negatività, (3) rallegrarsi delle virtù, (4) richiedere ai Buddha d’insegnare, (5) chiedere loro di non entrare nel Nirvana, e (6) dedica. La cerimonia vera e propria si distingue in due parti: generare la determinazione e prendere i voti. Il rituale conclusivo ha due parti: celebrare se stessi e lodare gli altri, od, in altre parole, esultare per sé e gioire per gli altri.
Nel rituale dal lignaggio di Maitreya, la preparazione si suddivide in tre aspetti: supplica, accumulazione di meriti e presa di rifugio.
La presa effettiva dei voti ha un singolo aspetto: la generazione di bodhicitta, mentre la conclusione si distingue in due parti: rallegrarsi ed impegnarsi a mantenere i voti. Queste spiegazioni dei rituali nelle due tradizioni riguarda la bodhicitta dell’aspirazione.
Il rituale per la bodhicitta dell’impegno ha diverse preparazioni, sette in tutto, tra cui: la supplica, l’indagare sugli ostacoli comuni e non comuni e così via. La cerimonia vera e propria ha una sola finalità: far sorgere la bodhicitta dell’impegno. Il rituale conclusivo ha cinque aspetti, compresi i vantaggi dei voti, i precetti e così via. Con questo ho concluso l’esposizione in merito all’ordine, o quadro, per prendere i voti del bodhisattva nella tradizione di Maitreya.
Ci sono alcune piccole differenze nei due rituali, comunque ho preso il commentario di Pawo Tsuglak Trengwa come base per la mia esposizione.
Ora ci sono alcuni studiosi che sostengono che le due tradizioni sono diverse, non solo nei rituali, ma anche nella sostanza, perché asseriscono che la tradizione di Manjushri appartiene alla scuola della Via di Mezzo mentre la tradizione di Asanga appartiene alla scuola della Sola Mente. Altri studiosi, invece, affermano che le due tradizioni non sono separate. Il promotore principale della diversità delle tradizioni è Sakya Pandita (1182-1251), il quale afferma nel suo testo “Differenziare i Tre Voti”: “Ci sono due modi per generare bodhicitta nel Mahayana, secondo la Via di Mezzo (Madhyamika) o secondo la Sola Mente(Cittamatra). Le loro opinioni sono diverse e così sono i loro rituali. Altri studiosi non sono d’accordo con lui ed affermano che i rituali non sono diversi.
Il secondo Karma Trinleypa scrisse un testo conosciuto come “Il Carro del Karmapa”, che è una spiegazione generale del sutra e tantra, in cui citò un testo, composto da Parkhang Lotsawa, che dichiarò chiaramente che le scuole della Via di Mezzo e della Sola mente hanno tradizioni diverse: sono separate e la prima è superiore alla seconda. Ci sono differenze sia per chi prende che per chi dà i voti, sul rituale ed i precetti. Dal momento che la visione della Via di Mezzo è più profonda ed aperta, e l’abilità nei mezzi è diversa, il suo rituale è più ampio. In relazione alla Via di Mezzo, la visione della Sola Mente è tradizionalmente considerata meno rilevante, così il rituale ne risulta un po’ più angusto o ristretto. Questa posizione assomiglia a quella di Sakya Pandita: poiché la visione della Via di Mezzo è leggermente migliore rispetto a quella della Sola Mente, emerge anche una differenza nei loro mezzi abili, così anche i rituali divergono.
Contrariamente a queste posizioni, Atisha Dipankara ha scritto che le due tradizioni di Manjushri e Maitreya non sono separate, ma sono tra loro in accordo. Secondo lui le intenzioni, o modi di pensiero, appartenenti a Nagarjuna e ad Asanga (lignaggi che Atisha aveva ricevuto) erano tra loro in armonia, sono comunque tutti rituali buddisti. Atisha stesso compose un rituale per la generazione di bodhicitta che comprendeva entrambe le tradizioni.
Nel Sentiero verso l’illuminazione, Je Tzong Khapa scrive che tra Asanga e le tradizioni di Nagarjuna, c’è una differenza nelle parole del rituale per la generazione della bodhicitta d’aspirazione, ma non nel significato. Coloro che dicono che queste due tradizioni corrispondono alle scuole della Via di Mezzo e della Sola Mente e, di conseguenza, hanno diversi destinatari, rituali, precetti, e così via, semplicemente non hanno analizzato bene.
Facendo ancora riferimento al commentario di Pawo Tsuglak Trengwa “Entrando nella via del Bodhisattva”, la visione di questo testo è simile a quello di Je Tzong Khapa, in quanto entrambi i maestri dicono che non vi è alcuna differenza nel significato reale dei due rituali. Pawo Tsuglak Trengwa ha scritto che i due rituali si basano su due tipi di discepoli: un tipo preferisce le cose brevi e semplici cosicché il rituale di Nagarjuna è fa per loro, mentre altri prediligono elaborati rituali con le fasi di preparazione, la parte principale e varie pratiche conclusive così la tradizione dei Livelli di Bodhisattva di Asanga fa per loro. Ma l’essenza la stessa: essi non si contraddicono in alcun modo.
Ci sono due problemi con i termini “Via di Mezzo” e “Sola Mente”. Prima di tutto, etichettare le due tradizioni come “Via di Mezzo” e “Sola Mente” e poi sostenere che sono separate va abbastanza incontro a confutazione. Il pericolo è che la visione della Via di Mezzo è di solito considerata superiore a quella della “Sola Mente”. Ne deriva che, in modo automatico, il rituale della Via di Mezzo sarebbe considerato superiore a quello della “Sola Mente”. Inoltre, questa etichettatura finirebbe per denigrare anche Asanga mettendolo nel livello inferiore della scuola della “Sola Mente”. È meglio quindi non usare i termini Via di Mezzo e “Sola Mente”.
In breve, all’interno della tradizione Kagyu, e soprattutto all’interno della tradizione Karma Kamtsang, non facciamo uso di questi due termini, non sono usati. Piuttosto, la tradizione parla dei lignaggi della visione profonda (Nagarjuna) e della vasta azione (Asanga). Scritti raccolti L’ottavo Karmapa Mikyo Dorje raccolse dei documenti contenenti un rituale per la generazione di bodhicitta, in cui scrive: ” In questi giorni va di moda parlare delle tradizioni della Via di Mezzo e della Solo Mente”. Ha così descritto come questi fossero in voga, ma egli stesso non li ha utilizzò, preferendo chiamare le due tradizioni “la visione profonda” e “la vasta azione”. Questo approccio minimizza le contraddizioni che potrebbero derivare attraverso l’utilizzo di una terminologia che distorce la situazione attuale.
Vediamo ora alcuni punti difficili o discutibili. La prima traduzione delle parole del Buddha in tibetano si trova in un testo conosciuto in tibetano come Phangthung Chagyapa. Due tradizioni raccontano di come è arrivato in Tibet. L’una parla di un testo che cadde dal cielo durante il regno del Re Lha Thothori Nyantsen (Quinto secolo, 28° Re del Tibet.) e l’altra riferisce che fu stato portata in Tibet da uno studioso indiano. Qualunque sia il caso, la Preghiera Offerta in Sette Rami tratto da questo testo fu stato utilizzata dai primi re tibetani quando s’accingevano a costruire dei templi. Inoltre, le parole esatte di questa preghiera si possono trovare anche in volumi dalle grotte di Dunhuang, il che indica che il testo era molto apprezzato in quei tempi. Questo testo iniziale parla sia di bodhicitta relativa che ultima.
Inoltre, i Cento Brevi Insegnamenti di Dharma, a cura di Jowo Atisha, contengono un rituale per la generazione di bodhicitta che parla di bodhicitta ultima. Riferendomi alle meditazioni nei Tantra inferiori, vorrei citare la nota meditazione sulla fase di creazione, in cui un praticante si concentra su un disco di luna piena come l’incarnazione della bodhicitta relativa e sul vajra eretto al suo centro come la bodhicitta ultima.
Se la bodhicitta finale può realizzarsi in un rituale, il problema sorge con la tradizione dei sutra. Alcuni dicono che questo è possibile ed altri no. Coloro che ne negano la possibilità sono Sakya Pandita ed i suoi seguaci, perciò nella sua Esposizione dei Tre Voti scrive: “La Bodhicitta Ultimate si realizza solo attraverso la meditazione. Non si consegue attraverso un rituale”. D’altra parte, il grande studioso Nyingma Ngari Panchen Pema Wangyal (1487-1542) nella sua “Condotta Perfetta: Accertando i Tre Voti” (il più importante testo Nyingma sul tema), scrisse che nel Mantrayana Segreto, la bodhichitta finale si può manifestare col rituale. Nella tradizione dei sutra, tuttavia, si esprime solo l’impegno a generare la bodicitta, poi ci s’impegna, in pratica, per realizzarla.
Per quanto riguarda le tradizioni di chi dice che è possibile generare la bodhichitta ultima attraverso un rituale, Gampopa, nelle sue opere complete, affermò che ci sono rituali in connessione con l’aspirazione, l’impegno e la bodhicitta ultima. Questo implica che la bodhichitta ultima si può manifestare con un rituale. Nella sua lunga trattamento dei tre voti, Kunkhyen Pema Karpo (1527-1592) scrive che nei rituali di Nagarjuna per la generazione di bodhicitta, si trova sia la bodhicitta relativa che ultima, inoltre, questi voti dovrebbero essere presi successivamente.
Inoltre, nella sua Tesoreria della Conoscenza, Jamgon Kongtrul Lodro Thaye asserisce che non si può categoricamente affermare che la bodhichitta ultima non si consegue attraverso un rituale. Lodro Thaye offre in proposito un argomentazione logica, facendo riferimento alla quarta o iniziazione della parola nel Mantrayana Segreto. Qui, la saggezza sorge attraverso il potere delle parole, e dal momento che questo è vero, non si può dire che bodhicitta ultima non possa sorgere anche attraverso le parole di un rituale. Se accettiamo che l’iniziazione della parola può generare saggezza, dobbiamo accettare anche il potere del rituale di generare la bodhicitta ultima.
In sintesi, riguardo al fatto che la bodhichitta ultima venga generata attraverso un rituale, vi sono le prove scritturali: il più antico testo tradotto in tibetano ed il rituale di Nagarjuna per la generazione di bodhicitta e anche la prova logica stabilita da Jamgon Kongtrul.
V’è un aneddoto dalla storia tibetana relativo ad un incontro del settimo Karmapa Chodrak Gyatso (1454-1506) col famoso Yogi Drukpa Kunlek (1455-1529). Drukpa Kunlek aveva raggiunto il Kongpo, una regione del Tibet meridionale, per incontrare il Settimo Karmapa Chodrak Gyatso. Il Karmapa gli conferì un commentario su due testi, Il Significato Interiore Profondo e L’Indivisibilità dei Venti e della Mente, e gli donò degli articoli di Dharma, in modo che si creasse una buona connessione.
Un tempo, il Karmapa discutendo di Dharma chiese agli studiosi ed allievi presenti: “Può un rituale dar luogo alla bodhicitta ultima?” Lo studioso Powo (la regione del Tibet da cui proveniva) Kachuwa (il che significa che aveva imparato i dieci testi principali) rispose: ” La tradizione Sakya afferma che non si può, ma per noi insegnanti e studenti, non fa differenza. In qualsiasi modo va bene”.
In questo momento, Drukpa Kunlek era seduto di lato poiché non era considerato uno studioso. Egli comunque commentò: “La bodhichitta ultima dev’essere generata da un rituale e in realtà nasce dall’essenza stessa di un rituale. In caso contrario, sarebbe difficile per la bodhichitta ultima comparire. Che cosa è questa essenza del rituale? È la benedizione del lama: da qui sorge la bodhicitta ultima. Se questa benedizione non è presente, il rituale non può essere considerato effettivo. Per sostenere la sua posizione, citò un verso dell’Hevajra Tantra, che aveva completamente memorizzato, che spiegava come la co-emergente saggezza, al di là dell’espressione, non nasce da nessun’altra parte, ma dall’istruzione del Lama, dalla loro abilità nei tempi e mezzi, e dai meriti del discepolo.
Drukpa Kunlek commentò che un rituale non è il ding! ding! di una campana né il dum! dum! di un tamburo. Un rituale è il mezzo per comprendere il senso profondo. Se un rituale è solo parole e musica, perde il suo fondamento e quindi non potrebbe essere trovato ovunque. Il giorno dopo questa discussione, la gente guardava Drukpa Kunlek sotto una luce diversa, vedendolo come uno che conosceva i testi.
C’è molto da intendersi qui. Non abbiamo altra scelta se non di parlare di due tipi di rituali: il significato, o vero e proprio rituale, ed il rituale verbale. Abbiamo visto che molti asseriscono che la bodhichitta finale non viene solo da un rituale. Che dire allora della bodhichitta relativa? Può derivare da un rituale? Di solito si può ritenere di sì. Ma solo recitando le parole che sono state memorizzate e dicendo “Questo è il metodo” non funzionerà. Quello che si dice della bodhicitta ultima potrebbe anche essere detto a proposito della bodhichitta relativa: non proviene da un rituale, ma dalla meditazione. Dobbiamo coltivare la bodhicitta relativa attraverso l’addestramento alle istruzioni chiave dei tantra, meditando sulla parità di sé e dell’altro, e così via. Semplici parole non bastano.
Specialmente in questi giorni si recitano i testi a grande velocità, ma spesso non si sa quello che stiamo dicendo nè si capiscono le parole che escono dalle nostre labbra. Sarebbe difficile anche per la bodhichitta relativa sorgere in questo modo. I testi dicono: “Immaginate di aver capito questo, ma come è possibile farlo senza una connessione reale?”
Il gran maestro Kadampa Potowa (1027-1105), che prese i voti monastici con un abate, dichiarò che solo più tardi effettivamente sentì d’averli ricevuti: quando fu in presenza del maestro laico Dromtonpa Gyalwai Jungne (1004/5 al 1164). Potowa scrisse: “Ho ascoltato un discorso di Dharma da questo vecchio laico (Dromtonpa) al Monastero di Reting, ed in quel momento ho potuto dare luogo alla vera rinuncia così sono sorti dentro di me i voti effettivi.” Questo è simile a quello che disse Drukpa Kunlek: la reale esperienza deve essere alla base dei voti o rituali.
Qui, Potowa sta spiegando che, senza una reale rinuncia, non è possibile realizzare la disciplina dei voti. Solo perché il lama recita: “Questo è il metodo,” non significa che la disciplina sia sorta dalla rinuncia. Abbiamo bisogno di addestrarci, d’analizzare e sforzarci per dare vita ad un’autentica rinuncia. La vera rinuncia può anche sorgere sulla base d’un istruzione fondamentale. Di conseguenza, quando sviluppiamo la vera volontà di liberazione, questa è proprio ciò che dovrebbe essere conosciuto come il vero rituale di prendere i voti.
Benché c’è in corso un dibattito sul fatto che la bodhichitta ultima può realizzarsi attraverso un rituale, ciò che è più importante per noi è la bodhicitta relativa. Se non facciamo degli sforzi e formiamo le nostre menti con mezzi abili e saggezza, non sorgerà nemmeno la bodhicitta relativa
L’effettiva bodhicitta relativa non viene dalle parole che ci entrano da un orecchio per scivolare fuori dall’altro. Dobbiamo riflettere sul fatto che realizzare la bodhicitta è difficile anche per gli Arhat degli ascoltatori e realizzatori solitari che appartengono al Veicolo Fondante ed hanno i cinque speciali tipi di visione ed i cinque tipi di precognizione. Come potrebbe essere ciò semplice per noi che siamo ad un livello molto più basso e manchiamo delle loro capacità? Quando il lama ripete: “Questo è il metodo”, in realtà non è un metodo per noi perché la bodhicitta non sorge. Quindi dobbiamo intensamente allenare la nostra mente e accumulare una quantità immensa di meriti.
Vi è anche la storia di Shariputra, che fu il discepolo principale del Buddha e molto versato nella saggezza. Dal momento che passò dei momenti difficili per sviluppare la bodhicitta relativa, come non potrebbe essere difficile anche per noi? Non dovremmo cullarci a pensare che va tutto bene, che le cose stanno andando bene. Dobbiamo analizzare e vedere se in realtà abbiamo realizzato la vera bodhicitta o no.
Qualcuno ci potrebbe chiedere: “Sei un buddista?” E noi rispondiamo: “Certo”. E, alle domande di essere un seguace del Mahayana o del Segreto Mantrayana, diamo la stessa risposta. Ma che dire di questa domanda: “Sei una brava persona?” Questo può farci riflettere. A volte sì ed altre volte, beh, non esattamente. Non c’è una contraddizione? Come potremmo essere buddista, per non parlare dell’appartenenza al Mahayana, senza essere una brava persona o di corretta moralità in termini mondani? Siamo presi da questo pigro pensiero e non riflettono la situazione reale.
Se davvero guardiamo le cose come sono, non è facile, per esempio, realizzare i quattro incommensurabili: amore, compassione, e così via. Potremmo osservare che qualcuno stava piangendo quando ha visto la sofferenza di un’altra persona, e basti pensare: “Beh, anche i non buddhisti possono avere compassione”. Ma avere vera compassione non è facile. Questo tipo di pensiero dimostra che in realtà non capiamo noi stessi, che non abbiamo studiato profondamente la nostra mente. È estremamente importante approfondire il nostro flusso mentale e capire cosa sta succedendo.
È più importante generare compassione per se stessi piuttosto che per gli altri.
In realtà, di solito la nostra compassione è attiva verso l’esterno e verso gli altri, ma abbiamo bisogno di sapere come noi stessi soffriamo. Negli insegnamenti, si dice che, volgendo lo sguardo verso l’esterno, verso gli altri, generiamo compassione per loro, e volgendo verso l’interno per guardare noi stessi, generiamo la rinuncia, in quanto esprimiamo la volontà di liberarci dal samsara. Dobbiamo essere coraggiosi nel conoscere la natura della nostra sofferenza, e sviluppare compassione sulla base di tale esperienza.
Quindi, prima ci rivolgiamo verso l’interno per capire come noi soffriamo, quindi sviluppare compassione attraverso la sofferenza che conosciamo personalmente. Mentre i testi dicono: “Prendete il vostro corpo come un esempio.” Iniziamo dalla nostra esperienza e la nostra conoscenza si estende da lì ad altre persone, pensando: “Soffrono come me. Come sarebbe meraviglioso se ne fossero liberi. Possiamo ricordarci che gli altri esseri sono nella nostra stessa situazione: non vogliono soffrire e vogliono essere felici. Così come vediamo la nostra sofferenza e abbiamo compassione per noi stessi, dobbiamo quindi svilupparla per gli altri, sulla base della nostra esperienza. Questo modo di generare compassione è molto importante. https://www.sangye.it/altro/?p=7506