Lama Geshe Lobsang Tenkyong: La radice della sofferenza.
Per il ciclo di conferenze “Filosofia tra oriente e occidente. Dialoghi e pratiche per la verità”. La Filosofia del Buddismo Tibetano e l’inesistenza dell’Io Dialogo con Lama Geshe Lobsang Tenkyong (14 dicembre 2006 presso Asia Modena).
Domanda: Lama Tenkyong, nella sua tradizione vengono accuratamente descritte diverse forme di distorsioni mentali ed emozioni distruttive. Viene data l’indicazione di elaborare un buon “programma di investimento emotivo” per contenere la collera e per coltivare le buone qualità interiori, sviluppare la compassione e la benevolenza verso noi stessi e gli altri. Ma quale è la fonte di queste emozioni distruttive che ci fanno soffrire? È possibile porvi rimedio attraverso una realizzazione, oltre che con i comportamenti etici e compassionevoli?
Lama Tenkyong: la causa principale della nostra sofferenza e la radice di tutte le passioni disturbanti come collera e attaccamento, è l’ignoranza. Ignoranza non è semplicemente un non capire, un non conoscere; è un fraintendere la realtà, in contrasto con quello che c’è e con quello che siamo: è un mal inteso senso di Io, che ci sembra esista mentre in realtà non c’è per nulla. La credenza nell’Io è in contrasto con la realtà dei fatti. Abbiamo l’impressione che ci sia qualcosa di trovabile e concreto, qualcosa di sostanziale e monolitico. Ma questo senso dell’Io, di identificazione, è l’ignoranza alla base di tutte le altre afflizioni mentali, è il motore per cui continuiamo a soffrire. In realtà l’Io, la persona, il sé, è qualcosa di nominale, esiste come individuo nominalmente, meramente etichettato. E’ chiamato, o meglio è imputato, come “Io” sulla base dei 5 aggregati psicofisici (skanda). Esistiamo semplicemente come imputazione, come nome su una base che non è qualcosa che possiamo riscontrare. Abbiamo l’impressione che in noi ci sia qualcosa di solido, concreto, ma se andiamo a vedere in tutte le parti del corpo e della mente, nei 5 aggregati o componenti psicofisici, se cerchiamo dalla testa ai piedi, in tutte le varie forme di pensiero, in tutti i vari tipi di mente attivi nella nostra coscienza… quali di questi potrebbe essere l’Io? Dov’è l’Io? Dopo attenta ricerca non lo troviamo, non scopriamo l’Io in nessuna di queste parti. Eppure non siamo totalmente inesistenti: esistiamo nominalmente, siamo semplicemente etichettati sulla base di corpo e mente, sulla base dei 5 componenti o aggregati psicofisici. Ma la mente che fraintende crede di esistere così come ci concepiamo, come “Io”, e attiva tutte le varie forme di attaccamento e di avversione. E’ molto importante portare avanti questa ricerca per andare alla fonte dei fattori che provocano sofferenza. Stasera sono partito nell’analizzare le emozioni distruttive come l’attaccamento e l’odio perché sono le problematiche principali che ci tormentano nella nostra vita. Per liberarsene è importante rilevare queste dinamiche di sofferenza che costantemente viviamo, riconoscerle e nominarle come attaccamenti, avversioni, odi, conflitti. Poi è però fondamentale risalire all’ignoranza, al fraintendimento di base: ovvero l’identificazione, l’aggrapparsi a un Sé, a un Io, il concepire la propria esistenza come avente natura propria, a sé stante. Questa convinzione fa sì che si formino le passioni di attaccamento, avversione, esagerazione o di stravolgimento della realtà, che sono proiezioni in eccesso della realtà con tutto quel che ne consegue. Quindi ogni qualvolta ci accorgiamo che è in atto una passione, dobbiamo cercare di risalire da che prospettiva la stiamo vedendo. Riconoscere l’Io che va negato Classicamente nei testi si parla di risalire la prospettiva fino a “riconoscere l’oggetto della negazione”, (che poi non è un oggetto perché non esiste), ovvero l’Io che va confutato. Quando è in atto qualche emozione distruttiva come la paura, sembra che ci sia un qualcosa che chiamiamo Io, col nostro nome, che ha paura. A quel punto dobbiamo risalire la prospettiva, cercare l’Io che ha paura mediante un auto-esame meditativo per il quale è importante usare il proprio nome. In questi momenti in cui c’è un certo pathos, forti sentori, forti emozioni, sentiamo un Io particolarmente forte, sembra quasi di poterlo afferrare, distinguere… ma non lo troviamo. Quando siamo più tranquilli, più in agio, di nuovo cominciamo la ricerca di questo qualcosa, lo chiamiamo con il nostro nome e lo cerchiamo in tutte le parti del nostro corpo, della nostra mente, lo cerchiamo proprio dalla testa ai piedi… di nuovo non lo troviamo. Eppure nel nostro modo di atteggiarci, di pensare, ci diciamo tante volte: Io voglio essere felice, Io non voglio soffrire. È importante utilizzare questo senso fittizio dell’Io per andare a vedere dov’è, che cos’è, in quali parti identificarlo. Questo è un processo di analisi molto importante, è funzionale per cominciare a smantellare, disattivare, screditare le dinamiche alla base della nostra sofferenza. E’ molto importante cercare di rilevare questo qualcosa che poi in termini filosofici si chiama “ciò che va negato”. Quando si parla di Vacuità si parla di un’assenza di quel qualcosa che viene prima cercato senza trovarlo, arrivando alla conclusione che non c’è. Per questo si parla di “oggetto della negazione”: perché alla fine verrà screditato. Vacuità come interdipendenza La nostra mente costantemente si riferisce a un oggetto-Io o a un qualche oggetto sostanziale fuori di noi, cerca di concretizzarlo, di affermarlo. “Riconoscere l’oggetto della negazione” è una analisi molto importante perché arriva a discreditare proprio l’oggetto concepito dall’ignoranza. Questa analisi è un processo logico, mediante l’uso della ragione, che ci porta a capire – prima concettualmente e poi eventualmente in un modo sempre più approfondito e intuitivo – che quella che crediamo essere la realtà è falsa, non si trova da nessuna parte, è una percezione di qualcosa che non esiste. Arrivare a capire che le cose non esistono in modo monolitico, intrinseco, è molto importante, ci introduce alla realtà della Vacuità. Uno dei migliori ragionamenti utilizzati per illustrare la realtà della Vacuità – ovvero la mancanza di esistenza a sé stante, la mancanza di entità isolate, esistenti di per sé – è il ragionamento della interdipendenza. L’interdipendenza ha a che fare con l’essere puramente etichettati, imputati sulla base delle parti, degli aggregati psicofisici. Se cerchiamo un Io indipendente, isolato, a sé stante come quello che ci sembra di vivere, non lo troviamo perché “Io” – come tutto il resto – è frutto della interdipendenza, è solo un intreccio di condizioni e cause sulla base del quale qualcosa esiste come semplice nome. Perché è importante fare questa ricerca, questa analisi? Perché se non smantelliamo la convinzione di essere un Io separato e sostanziale, questa allucinazione fa scaturire tutte le emozioni distruttive come l’attaccamento, l’avversione, l’irritazione, la rabbia. Fa scaturire tutte le cause del nostro soffrire. Per poter procedere sul nostro cammino verso il risveglio abbiamo bisogno di due gambe. Da una parte la “gamba del metodo” che compie la ricerca e scredita il vecchio convincimento di realtà, dall’altra la “gamba della saggezza” che si apre alla visione e prende atto di quella che è effettivamente la realtà. È fondamentale screditare l’impressione dell’Io per mettere in moto queste due gambe ed avanzare sempre di più verso l’illuminazione, la realizzazione e la capacità benefica che possiamo avere. Meditare alla ricerca dell’Io Vorrei ora aprire una parentesi importante, per dire che sono molto compiaciuto che in questo luogo si mediti, che si dedichi per un periodo di tempo della nostra giornata, magari a costo di sacrificio, che si compia un certo tipo di ricerca interiore. Anche se siamo molto stanchi, anche se è qualcosa che ci costa ed è impegnativo, anche se si sottrae tempo al riposo o al rilassamento, è molto importante meditare. È una responsabilità personale quella di portarci avanti, farci progredire in un cammino interiore. Purtroppo nessuno può farlo al nostro posto, non possiamo delegare nessuno a meditare per noi. Altri eventualmente possono avere il ruolo di indicarci il modo, la via, il sentiero però non ci possono portare di peso. Ognuno di noi è responsabile di se stesso, ognuno è responsabile di costruire il proprio cammino interiore, il proprio percorso, la propria evoluzione e sviluppare le proprie qualità interiori. Ora vorrei invitarvi a fare alcuni minuti in silenzio, una meditazione alla ricerca dell’Io. Ognuno di sé pensi al proprio nome, si nomini mentalmente e cominci a cercarsi in tutte le proprie parti del corpo e della mente. State come siete più comodi, per pochi minuti non è necessario assumere una posizione formale di meditazione. Cercatevi col vostro nome. … Vi siete trovati? Domanda: Faccio una breve premessa. Se ho capito quello che è stato detto, “l’oggetto che viene negato” non è l’esistenza, intesa come il fatto d’esserci di qualcosa, ma l’essenza, cioè il fatto di essere proprio quella cosa in modo essenziale, ultimo, sostanziale; in Occidente diamo molto rilievo alla distinzione tra il significato del termine esistenza e quello di essenza, e tutta la nostra conoscenza è basata sul riconoscimento di qualità essenziali e sostanziali. Ora, avrei una domanda su questo interessantissimo esercizio: nella ricerca, l’etichetta di “Roberto” effettivamente cade; più che cadere, non trova una essenza propria a cui attaccarsi. Però io non scompaio, non vado verso l’annientamento, anzi questa ricerca porta in evidenza una intensità, un sentire profondo. Lei ha detto prima che “Roberto” è un costrutto, non esiste come essenza; nel contempo nella mia esperienza una base di imputazione resta, qualcosa sta indubitabilmente esistendo, non posso negarlo perché l’atto di negarlo lo afferma ancora di più. Allora vorrei chiedere: cos’è questa base di imputazione?
Lama Tenkyong: Tu ti sei nominato “Roberto”, ti sei messo a cercare “Roberto”, non hai trovato “Roberto”. Ciò che viene confutato e che non esiste è l’Io monolitico, il “Roberto” a sé stante, indipendente. Non viene confutato né Roberto né il nome di “Roberto”, sarebbe una caduta nell’estremo del nichilismo, del “non esiste nulla”. È difficile fare questa distinzione perché non siamo addestrati a rilevare quello che è puramente nominale e quello che effettivamente esiste. “Roberto” esiste in modo nominale, ha una esistenza funzionale: è quello che agisce, che si fa del bene, che si fa del male, che si orienta verso la virtù o la non virtù, che si crea sofferenza o felicità. Esiste come etichetta “Roberto” applicata sulla base di imputazione, e la base di imputazione è il corpo e la mente. La base della imputazione è un insieme di parti – corpo e mente – che viene nominato Roberto che però non è Roberto. Se cerchi Roberto nelle parti, non lo trovi. Alla fine scopri che Roberto è semplicemente etichettato su queste parti: non è le parti, le parti non sono Roberto né l’insieme di tutto il resto. Questo Roberto probabilmente è carico, mentre lo senti e lo cerchi, di una certa intensità, una tensione. Questa tensione, se venisse intesa nei termini di qualcosa di isolabile e a sé stante, sarebbe anch’essa da negare. Ma in ogni caso è importante partire in questa ricerca con il sentore di un Io sentito, per andarlo a scardinare in senso funzionale e realistico. Senza per questo cadere nell’estremo nichilistico dell’annullamento, del non esistere affatto, o del non esserci alcunché.
Due domande conclusive Domanda: Pratico da 23 anni il Buddhismo Nichiren. Ho sentito una bella analisi dei nostri pensieri, ho sentito parlare di non violenza, di non nuocere. Ho anche sentito che siamo in balìa della nostra mente, che dobbiamo analizzarla e diventarne padroni. Ma ritengo che soltanto riflettere, soltanto meditare non basti, abbiamo bisogno di trovare un mezzo per risolvere i problemi che ci fanno soffrire. Io capisco il fascino per le teorie filosofiche, ma ritengo che Buddhismo debba essere un mezzo reale per riuscire a sopraffare le tue debolezze. Se non funziona, se non riesce a cambiare anche solo una virgola della tua vita, il Buddhismo è perduto. Una persona vuole guarire da una malattia, non guarisce cercando di convincersi. Devo dire che quando avete fatto la meditazione, io sono uscito a sgranchirmi. La domanda è: qual è il mezzo che ti consente di mettere in pratica tutte queste cose?
Lama Tenkyong: Il mezzo è quello che nel Buddhismo viene chiamato metodo, una delle due gambe o ali di cui ho parlato. Sono questi gli strumenti, i mezzi che ci permettono di progredire, di migliorarci. Adesso mi permetto io di fare una domanda. Ci sono dei malati che proprio non vogliono prendere dei medicinali, seguire la terapia. I medici, gli infermieri, i parenti, tutti attorno per far sì che segua la terapia, quello niente, fa il furbo. Così non si guarisce. Da cosa dipende il fatto di non guarire? L’imperfezione di non porre rimedio alla propria malattia dipende dal medico, dagli infermieri, dai parenti oppure dal malato che fa il furbo? Dipende dal malato. Quindi, il problema è quello di riuscire o meno ad applicare metodo e saggezza nella propria vita. Il metodo che chiedi per intervenire contro i problemi, è risalire alla radice della nostra sofferenza: ho parlato di disattivare l’abitudine ad afferrarsi all’Io. Ovviamente in una serata devo parlare in generale, e quindi prima ho indicato anche di arginare il proprio attaccamento, la propria avversione, i propri momenti di travolgimento da parte delle afflizioni che ci fanno soffrire. E’ un lavoro che va integrato nella propria vita, non vanno distinte la vita e la filosofia. Bisogna essere presenti a noi stessi man mano che svolgiamo tutte le nostre attività, dalla mattina alla sera. Tutte le attività di vita sono momenti in cui indaghiamo sulle fonti fondamentali del nostro malessere. E’ bene utilizzare tutte le occasioni, le fatiche, le frustrazioni, la paura, l’inquietudine, le preoccupazioni, per applicare il metodo di disattivare l’illusione che fa nascere le emozioni distruttive di attaccamento e avversione che producono il nostro soffrire. Questo metodo è la saggezza che comprende la Vacuità: ricercare l’Io falso per screditarlo. È un metodo superfunzionale ed efficace per arrivare alla base delle nostre sofferenze. Questo è il metodo migliore, lo ripeto, ma non l’unico. Un altro metodo, visto che talvolta è difficile arrivare subito a cogliere il senso di questa analisi filosofica, è coltivare sempre i sentimenti di amore e benevolenza che vanno a neutralizzare l’irritazione, la frustrazione, l’odio. Oppure si consiglia, per ridurre i momenti di attaccamento, di pensare agli aspetti ripugnanti di qualcuno per cui abbiamo un esagerato coinvolgimento. Oppure se è presente eccessiva arroganza, presunzione, orgoglio, possiamo farci degli elenchi di temi, cose, nozioni di noi stessi e della vita di cui noi non abbiamo la conoscenza, che non abbiamo capito a fondo. Ci sono moltissime cose che non sappiamo. Quindi, ricordiamoci di quanto siamo ignoranti per essere meno arroganti.
Domanda: Come mai è così facile ingannarsi e così difficile capire come stanno le cose in realtà? Qual è il senso, il significato della mente?
Lama Tenkyong: Questa difficoltà si presenta per una questione di abitudine, una questione di tempo. Siccome da sempre, dal tempo senza inizio, abbiamo coltivato una abitudine negativa, una familiarità con atteggiamenti e pensieri negativi, questi diventano automatici e ci inganniamo. I pensieri negativi, a causa dell’abitudine, sono i più frequenti e potenti. Non c’è stata un’altrettanta coltivazione di ciò che è liberatorio, di ciò che ci permette di capire come le cose stanno in realtà e che ci placa, ci rende felici. Quindi è una questione di coltivazione, di abitudine. Non è una questione di chiedersi il significato della mente illusa,ma di coltivarsi, di meditare su ciò che è liberatorio. Per questo nel buddhismo si dice che occorre fare molta meditazione su ciò che è positivo perché non è stata fatta a sufficienza.
Traduzione: Anna Maria de Pretis. A cura di Roberto Ferrari e Sandra Buraschi.
Lobsang Tenkyong: è nato nella regione tibetana del Kham nel 1958. Costretto all’esilio in India, nel 1982 ha proseguito gli studi presso l’Università monastica di Sera Je divenendo un Geshe Lharampa, il più alto titolo di studi conseguibile all’interno della tradizione gelug-pa. La sua presenza in Italia consegue ad una indicazione di Lama Zopa Rinpoche. Insegna presso il centro Tara Cittamani di Padova. http://www.asiamodena.it/articoli/lama_geshe.pdf