Distinguere il Dharma dalla cultura asiatica

Distinguere il Dharma dalla cultura asiatica

Alexander Berzin, Berlino, Germania, Luglio 2010. Traduzione italiana a cura di Benedetta Lanza.

La necessità di un contesto culturale

Stasera mi è stato chiesto di parlare delle differenze tra il Buddha Dharma, gli insegnamenti del Buddha, e la cultura asiatica o tibetana. E’ molto importante porsi questa domanda, soprattutto se ci stiamo impegnando per essere di beneficio agli altri. Ad esempio, potremmo essere affascinati ed amare la cultura tibetana o asiatica in generale; ma se desideriamo aiutare gli altri trasmettendo loro gli insegnamenti del Buddha, questo può essere loro di beneficio? Credo sia questa la domanda da porsi, no? Inoltre allo stesso modo in cui certi aspetti della cultura tibetana a noi possono piacere o non piacere, così accade a coloro che cerchiamo di aiutare: anche a loro possono piacere o non piacere. Così, quando ci impegniamo per aiutare gli altri dobbiamo essere flessibili. E’ il caso di incoraggiarli ad accendere lampade al burro ed appendere bandierine di preghiera, o queste cose li farebbero solo allontanare dal Buddhismo, causerebbero una perdita di interesse? Quindi ci sono due considerazioni: i nostri scopi e benefici personali e gli scopi e aspirazioni degli altri.

Qui bisogna porsi una domanda fondamentale. E’ possibile che vi siano insegnamenti buddhisti al di fuori di un contesto culturale? In altre parole, possono gli insegnamenti esistere di per sé al di fuori di un contesto, il che equivale a domandarsi: può una qualunque cosa esistere al di fuori di un contesto? Oppure, se vogliamo utilizzare la terminologia usata negli insegnamenti sulla vacuità: è possibile stabilire che qualcosa come gli insegnamenti buddhisti esista solo per suo conto o bisogna affermare che è stabilita in base a un contesto? Naturalmente, utilizzando l’a nalisi sulla vacuità che si trova nel Buddhismo, non è possibile stabilire un insegnamento buddhista al di fuori di un contesto.

Questo si accorda con il principio generale che conosciamo e cioè che il Buddha insegnò con mezzi abili. Insegnò a varie persone, vari studiosi, discepoli, in base a ciò che essi potevano comprendere. Fu proprio questo che il Buddha fece per gli altri. Insegnò in base ad una considerazione degli altri. In altre parole il Buddha, tenendo in considerazione gli altri, insegnò. Se esaminiamo gli altri, questi vivono in una società con una cultura, con idee di base, no? Il Buddha insegnò ad un pubblico indiano, se consideriamo il Buddha in quanto figura storica. Se invece pensiamo nei termini più ampi del Mahayana, il Buddha insegnò ad innumerevoli universi e ad innumerevoli esseri di ogni tipo di differente cultura; ma anche in ciascuno dei campi di Buddha, in ciascuno di questi universi, era presente una cultura.

Il contesto indiano originale

Osserviamo gli insegnamenti che sono stati messi per iscritto e che abbiamo disponibili, e ritroveremo in essi dei temi generali che sono presenti praticamente in tutti i sistemi indiani di filosofia e di pensiero, anche se “tutti” è una parola grossa. Il karma, la rinascita, l’idea del ripetersi delle rinascite a causa dell’influenza dell’ignoranza o inconsapevolezza della realtà; ciò che sotto l’influenza del karma viene accumulato sulla base di quella inconsapevolezza o ignoranza; il sentiero dell’ascolto degli insegnamenti di un maestro spirituale, il pensare ed il meditare su di essi per ottenere la liberazione dall’ignoranza e dalla rinascita samsarica. In altre parole la liberazione deriva dalla comprensione della realtà e dalla purificazione del karma; tutto ciò è in comune a molti differenti sistemi indiani. E gli insegnamenti su amore e compassione sono in comune con altri sistemi indiani. E tutti i metodi per ottenere la concentrazione, sono in comune. Perfino i metodi per ottenere shamatha e vipashyana che a volte si ritiene siano solo buddhisti, non lo sono. Si trovano anche in altri sistemi. Shamatha è uno stato mentale calmo e posato; vipashyana è uno stato mentale eccezionalmente percettivo; si trovano anche in altri sistemi indiani.

Inoltre il Buddha modellò la sua comunità monastica sulla base di quella giainista che già esisteva; gli incontri tra monaci due volte al mese, l’intero concetto del rifugio e così via, anche questi sono di derivazione giainista, esistevano già prima del Buddhismo. E certamente già si facevano offerte ed altre cose di questo tipo; e poi gli esseri dei vari reami, gli esseri infernali, i fantasmi, gli dei e cose del genere, le si possono tutte trovare nei sistemi indiani. Quindi se si afferma di poter fare a meno del contesto culturale indiano e quindi si fa a meno di tutte queste cose, che cosa ci resta? Una domanda molto interessante, ci torneremo su.

Quando osserviamo come il Buddhismo si mosse dall’India – chiaramente era nel contesto della cultura indiana che il Buddhismo veniva insegnato – quando guardiamo il modo in cui esso si mosse verso altre culture asiatiche, vediamo che tutti gli aspetti che ho menzionato, la disciplina etica ecc., tutte queste cose vennero mantenute. I tibetani le mantennero. i cinesi le mantennero, i giapponesi le mantennero ed anche nel Sud-est asiatico vennero mantenute. Naturalmente in ciascun paese venne aggiunto qualche elemento di base che potesse rendere gli insegnamenti buddhisti un po’ più adatti a quella cultura.

Aspetti superficiali specifici di una cultura vs aspetti fondamentali indiani

Potremmo sostenere che questi aspetti aggiunti successivamente, come ad esempio le bandierine di preghiera tibetane di cui ho già parlato e che provenivano dalla precedente tradizione Bon del Tibet, non siano essenziali e non debbano per forza essere seguiti in occidente, in quello che è chiamato “Buddhismo occidentale.” Quindi ci sono degli aspetti superficiali. Penso che dobbiamo fare una distinzione tra gli aspetti superficiali di come il Buddhismo viene presentato in una cultura, e gli aspetti indiani più fondamentali e poi domandarci: se togliamo anche gli aspetti indiani, c’è comunque qualcosa che caratterizza gli insegnamenti buddhisti in quanto tali?

Credo quindi che si possano identificare tre livelli. Diciamo che i tibetani, – dal momento che molti di noi ricevono gli insegnamenti buddhisti in un contesto tibetano – a causa di ciò che era disponibile in Tibet non furono in grado di seguire alcuni degli usi indiani. Non avevano a disposizione le stesse cose che c’erano in India. In questo caso sto pensando alle offerte. Giusto? Ad esempio, i tibetani non avevano un grande assortimento di fiori quindi al loro posto usavano questa parte secca proveniente da un albero. La chiamano fiore. Non so se l’avete mai visto, è come un seme bianco della consistenza della carta. Quindi: dobbiamo anche noi usare proprio quelli? Ovviamente no. Ai tibetani piacciono le lampade al burro, probabilmente anche in India c’erano le lampade al burro, non lo so. Dobbiamo usarle anche noi? Probabilmente no. Possiamo offrire lampadine e accendere la luce? Perché no? Si tratta di luce. I tibetani in India lo fanno a volte e a volte offrono anche fiori di plastica perché durano più a lungo. I tibetani sono molto pratici.

Ed i dipinti, le tangka, quelle figure dipinte sui muri in India; i tibetani aggiunsero intorno a quelle figure del broccato, che chiaramente avevano importato dalla Cina; abbiamo bisogno anche di questo? No, è una cosa abbastanza superficiale, no? Usate una cornice. E cosa si può dire della musica? I tibetani avevano strumenti musicali differenti rispetto a quelli indiani. Essi composero accompagnamenti musicali propri. Quindi, dobbiamo usare gli strumenti musicali tibetani o possiamo accompagnare un’offerta con il suono di un trombone o di una tromba o di un sassofono? Potrebbe andare bene? E’ una domanda interessante, no? In teoria, perché no? Qual è il punto? Lo scopo di queste offerte è proprio quello di fare un’offerta, di essere generosi, di sviluppare la generosità. Ai Buddha, dal canto loro, non importa se ascoltano un sitar o una tromba tibetana o un sassofono. Che differenza fa per loro? Certamente nessuna. La cosa importante è che ci sia rispetto e che non si tratti di una stupida melodia popolare.

A quali altre cose possiamo pensare circa le differenze tra cultura e cultura? Che mi dite delle vesti monastiche? I tibetani hanno colori differenti e la forma delle vesti è differente rispetto a quelle indossate nel Sud-est asiatico. I cinesi hanno una veste differente, i mongoli hanno una veste differente ma tutti comunque hanno una veste. Questo è il punto. Potremmo interrogarci riguardo ai voti dei monaci e delle monache. Questa è una domanda interessante, no? Le varie versioni dei voti che si svilupparono in India furono mantenute nei differenti paesi nei quali il Buddhismo si diffuse; linee differenti furono adottate in differenti paesi ma, comunque, furono mantenute. Ad esempio, i tibetani osservano tutti i voti? Verrebbe da dire che alcuni voti appaiono abbastanza irrilevanti. I tibetani non vanno in giro nel villaggio a piedi nudi con una ciotola per le elemosine. E poi tutti i voti riguardanti il modo in cui va chiesta l’elemosina, il fatto che vanno tenuti gli occhi bassi e così via; i tibetani che hanno preso i voti non fanno neanche questo, no?

Da qui, una domanda molto difficile e delicata: se si sono presi i voti questo vuol dire che bisogna andare in giro a mendicare? I tibetani ricevono il cibo nei monasteri e questo proviene dalle offerte. Non vanno in giro a raccogliere le offerte, sono i locali che gliele portano. Questo si accorda con le regole del Vinaya? E’ difficile dirlo. I cinesi stabilirono di non mendicare. Monaci e monache devono produrre il proprio cibo; devono coltivare la terra. Qui c’è una forma di adattamento.

Per quanto riguarda l’istituzione monastica, è possibile affermare che il mendicare è solo un elemento culturale? No, ovviamente l’intera struttura monastica era intesa in modo da essere sostenuta dalla società. Quindi nella società occidentale, se uno ha i voti di mendicante, come si deve comportare? Sono domande a cui è molto difficile rispondere. Dovremmo forse mandare tutti i monaci e le monache qui in Germania nella U-Bahn [metropolitana] a mendicare con un piattino o a vendere libretti come si fa qui, per guadagnarsi il cibo quotidiano? Sarebbe un po’ strano, no? Ma vorrebbe dire mendicare. Se la società non sostiene la comunità monastica, come fa questa a sopravvivere? In occidente si tratta di una questione piuttosto difficile.

Quindi, il fatto che vi sia una comunità monastica è un fattore esclusivamente culturale? Ad esempio, in occidente c’è la tradizione monastica del Cristianesimo. Ed è uso fare donazioni per sostentarla; ma alcuni di questi monaci in occidente sono produttori di vino, ad esempio. Questo non andrebbe bene in un contesto buddhista. Ci adattiamo? Domanda: che cosa possiamo adattare? Quanto è possibile adattarsi?

Riguardo alle cose che sono state aggiunte al Buddhismo, un esempio molto buono si trova nel Buddhismo cinese che aggiunse la pietà filiale quale elemento positivo; vuol dire che i figli devono prendersi cura dei genitori. Questo ha per loro una grandissima importanza tanto che fanno perfino offerte agli antenati. Certo che dal punto di vista buddhista è una cosa piuttosto strana perché i genitori morti hanno preso rinascita. Inoltre i tibetani ed i cinesi hanno l’uso di ammogliarsi con più donne e le tibetane, alcune di loro, hanno più di un marito. Questo come si accorda agli insegnamenti sulla condotta sessuale inappropriata? Quindi, alcune cose sono state aggiunte. E noi dobbiamo forse trasferirle nella nostra cultura? Certamente no.

E per quanto riguarda la lingua? Molti lama tibetani sottolineano l’importanza di fare le nostre pratiche in tibetano. Dzongsar Khyentse Rinpoche in una recente conferenza a Berlino, ha sollevato una questione molto interessante riguardo a questo punto. Ha detto che se i tibetani dovessero recitare tutte le loro preghiere e le loro pratiche in tedesco, parole tedesche scritte in lettere tibetane, senza capire nulla di ciò che stanno dicendo, non sa in realtà quanti tibetani lo farebbero. E’ una domanda interessante, no? Quindi, ovviamente, anche se alcuni lama enfatizzano che le pratiche vengano fatte in tibetano, potremmo comunque interrogarci se questo possa essere di beneficio o meno. Certamente i tibetani non fanno le loro pratiche in sanscrito, no? E anche i mantra non li visualizzano certo nell’alfabeto sanscrito. Usano l’alfabeto tibetano ed anche la pronuncia dei mantra è differente da quella in sanscrito. Vajrain sanscrito, lo pronunciano benza. Quando dal Tibet si passa alla Mongolia, i mongoli pronunciano ochir. Quindi qual è quello giusto? E per quanto riguarda il cinese, non si riconoscono neppure le parole. Per non parlare della pronuncia giapponese dei caratteri cinesi. Queste sono tutte domande importanti.

Comunque, una delle ragioni per le quali un grande lama tibetano ha insistito affinché le persone svolgessero le pratiche in tibetano, è che i suoi studenti provengono da tutto il mondo; quindi se tutti recitano le pratiche in tibetano, come la puja di Chenrezig, possono praticare tutti insieme. Se ognuno lo fa nella sua lingua, questo non è possibile. Questa è una ragione; ma seguendo la stessa logica, tutti i tibetani avrebbero dovuto fare le pratiche in sanscrito, ed anche i cinesi, e coloro che provengono dal Sud-est asiatico, tutti avrebbero dovuto farle in sanscrito, e non è avvenuto.

Devo correggere quanto ho detto perché gli abitanti del Sud-est asiatico seguono il Buddhismo theravada. Tutti recitano i sutra in pali ed è solo di recente, non citatemi su questo, circa cento o centocinquanta anni, che questi sutra in pali sono stati tradotti nelle lingue locali: tailandese, birmano o cingalese. E’ un po’ simile a quando alla fine Lutero disse che si poteva tradurre la bibbia in tedesco e che non era necessario che tutto fosse in latino. Ma per molto tempo nella chiesa cattolica, tutti recitavano in latino qualunque cosa; questo dava un certo senso di unità, no? Anche se non si capiva il significato. Ci sono argomenti a favore e contro.

Se ci si pensa, sono molte le cose delle quali ci si può chiedere se siano elementi culturali o meno. Pensiamo al modo in cui le persone si siedono in meditazione. Gli indiani stanno a gambe incrociate. I tibetani hanno adottato lo stesso modo. I buddhisti giapponesi fondamentalmente si siedono sulle ginocchia, con le gambe indietro. I tailandesi si siedono con tutte e due le gambe da una parte. Allora, ci si può sedere su una sedia? Beh, forse per alcune pratiche tantriche che implicano il lavoro con il sistema dell’energia sottile la risposta è no. Ma per la pratica ordinaria, perché no? Perfino il modo in cui si fanno le prostrazioni è differente nei vari paesi asiatici. Ritengo quindi che in questi casi ciò che va tenuto presente è il principio, e il principio è mostrare rispetto, ad esempio nelle prostrazioni, e, nella meditazione, adottare una posizione comoda o un tipo di posizione standard in modo da seguire una certa disciplina, evitando di sederci un po’ come ci pare.

Negli esempi che vi ho fatto ci sono alcuni principi che, in differenti paesi, vengono seguiti in modo diverso in base alle differenze culturali. Quindi anche noi possiamo avere il nostro modo. I monaci vestono con abiti speciali. E’ necessario che questi siano esattamente come quelli dei tibetani o dei cinesi? Forse no. Comunque dovrebbero essere speciali e dovrebbero essere diversi dai vestiti delle persone comuni; inoltre tutti dovrebbero vestirsi allo stesso modo per evitare preoccupazioni di tipo estetico. E qual è il principio alla base dell’elemosinare? Il principio è quello di non impegnarsi nel commercio, nel cercare di fare soldi, cercare di trarre qualche profitto e così via. Quindi si vive di ciò che gli altri ci danno e qualunque cosa ci diano viene accettata. Ne sarete soddisfatti. C’è un modo per portare questo nelle nostre società?

E nei centri buddhisti allestiti in stile tibetano, c’è bisogno di tutte queste decorazioni elaborate, delle tende in cima al soffitto, dei vari colori e cose del genere? Ne abbiamo bisogno? E’ un fattore culturale? Direi di si, è un fatto culturale che certamente non troviamo in un tempio buddhista giapponese. Ma ad alcune persone piacciono quindi, perché no? Ad altri non piacciono e le trovano molto strane. Quindi penso abbiamo parlato abbastanza del livello superficiale delle manifestazioni esteriori buddhiste, le bandierine di preghiera e le decorazioni, il tipo di musica che si offre, questo tipo di cose.

Passiamo quindi ad un secondo livello. Anche se devo aggiungere una cosa che riguarda le offerte agli spiriti, queste si trovano anche in India. C’è un vasto assortimento di – è difficile persino tradurli – gandharva, yaksha e rakshas. Li chiamano “demoni” e “spiriti cannibali” nomi del genere, e a loro vengono fatte offerte, “proteggeteci, non danneggiateci,” cose così. I tibetani non solo li adottarono. Erano già presenti in India ma i tibetani aggiunsero molto, molto di più; i mongoli tennero tutto ciò che era stato aggiunto dai tibetani e fecero ancora altre aggiunte. Abbiamo bisogno di questo? No. Trovo sia molto interessante il fatto che tutti questi yaksha e rakshas facevano parte del pensiero indiano in generale, non erano una prerogativa del Buddhismo.

Allora potreste dire: quindi in occidente dobbiamo fare offerte agli elfi e ai folletti, a questo tipo di esseri del libro di Tolkien, agli hobbit e cose del genere perché sono parte anch’e ssi della nostra cultura? Alle streghe cattive ed esseri di questo tipo. Che significato avrebbe? Vorrebbe dire mantenere lo stesso concetto del Buddhismo? Non voglio dare risposte qui, sto solo facendo delle domande. In effetti in occidente ci sono interpreti che traducono perfino dakini con angeli e fate; quindi nel nostro Buddhismo dovremmo avere anche noi i nostri angeli e le nostre fate? Questo ci porta a pensare: tutto ciò contiene forse un qualche significato più profondo?

Stiamo davvero parlando di forze dannose? Credo che in occidente ci troviamo meglio con il termine forza piuttosto che con gli spiriti. E’ una questione difficile perché allora bisogna incominciare a parlare del “male.” C’è malvagità nel mondo e dobbiamo combattere la malvagità e poi si va a finire alla questione del diavolo e cose del genere. Vogliamo davvero che il Buddhismo vada in quella direzione? Si adatterebbe così alla nostra società, alla nostra cultura? Domanda difficile. La maggior parte di noi probabilmente sarebbe più a suo agio senza; se il Buddhismo fosse approdato in Europa durante il medioevo probabilmente avrebbe incluso cose tipo il modo in cui scacciare il diavolo, no?

Cosa sono i mezzi abili? Un’altra cosa tipicamente tibetana che forse potremmo inserire nella categoria dei fattori culturali superficiali che se vi piacciono va bene e se non vi piacciono se ne può fare a meno, sono le torme, quei coni decorati fatti di farina d’orzo mischiata a burro. Il mio maestro Serkong Rinpoche diceva che al loro posto va bene anche una scatola di biscotti. Non è necessario che le offerte siano fatte di queste torme elaborate.

Possiamo fare a meno degli aspetti generali indiani?

Pensiamo ora ai vari aspetti generali indiani come il karma, la rinascita, la liberazione, l’illuminazione ecc. E’ possibile che esista un Buddhismo senza di essi? Penso proprio che questo sarebbe troppo. Cosa resterebbe? Nella cultura indiana c’è la meditazione. Quindi vogliamo eliminarla solo perché fa parte della cultura indiana? Mi spiego? Magari possiamo meditare con delle modalità leggermente differenti, diciamo nella postura, ma il metodo in sé è ovviamente parte integrante del sentiero.

Osserviamo il confine, quello che si trova negli insegnamenti tibetani, il confine tra ciò che è Dharma e ciò che non lo è. Come viene detto nel lam rim, Dharma vuol dire avere lo scopo di ottenere benefici nelle vite future ed oltre. Se si pensa solo a questa vita, non è Dharma. Questo è espresso molto chiaramente negli insegnamenti. Poi ci sono i tre livelli di aspirazione, di motivazione: il desiderio di ottenere rinascite migliori, l’aspirazione a liberarsi dalle rinascite e l’aspirazione ad ottenere l’illuminazione in modo da poter aiutare tutti gli altri esseri a liberarsi dalle rinascite.

Per quanto riguarda la rinascita, se ne può fare a meno nel Buddhismo? Direi proprio di no. L’aspirazione a migliorare le vite future e la rinascita, si trovano in forma differente anche nel Cristianesimo; le religioni occidentali [parlano di] andare in paradiso, andare all’inferno; questa è rinascita, no? Ed anche nei sistemi indiani c’è la rinascita senza inizio, i vari cicli e così via, e c’è la liberazione da essi. Quindi aspirare soltanto a migliorare le vite future o a ottenere la liberazione, questo in sé non è Buddhismo. Aspirare semplicemente a migliorare le rinascite future non è uno scopo ultimo per il Buddhismo, ma serve ad aiutarci a proseguire sul sentiero, ad avere quelle condizioni che ci consentono di continuare sul sentiero. Quindi va bene, sotto questo aspetto si possono includere nel Buddhismo senza problemi.

Il Buddha disse di ottenere la liberazione e che anche se in altre scuole indiane si parla di liberazione, “La vostra liberazione non è una vera liberazione. In realtà non siete ancora liberati.” Egli affermò questo sostenendo che la loro comprensione della realtà non era corretta, non era quella più profonda. Se volete davvero ottenere la liberazione, questa è la strada. Ovviamente, gli altri dicevano la stessa cosa del Buddhismo: erano loro ad avere ragione. Ma il Buddha fornì delle ragioni logiche. Più tardi i maestri indiani fornirono anch’essi ragioni logiche e lo fecero in modo molto convincente.

Il tema della rinascita diventa di importanza decisiva quando si tratta di dare un senso agli insegnamenti sul karma, perché i risultati delle nostre azioni non maturano necessariamente in questa vita. In realtà questo vale per la maggior parte di essi. Questo è un punto estremamente difficile, no? “Perché dovrei seguire l’etica buddhista? Potrei imbrogliare e così via, e farla franca.” Quindi, per rapportarsi davvero al karma, bisogna essere in grado di capire la rinascita, e per comprendere questa, bisogna capire tutti i principi di causa ed effetto.

Io faccio differenza tra tra il “vero” Dharma ed il Dharma “light,” come tra la vera Coca Cola e la Coca Cola light. La versione “light” sarebbe una versione senza la rinascita; in pratica vuol dire essere gentili e disponibili e osservare tra l’altro tutti gli insegnamenti buddhisti relativi alle emozioni disturbanti ed ai metodi per affrontarle; tutto ciò si può fare anche senza la rinascita, senza la liberazione, senza tutte queste cose. Ma non è il vero Buddhismo. Quindi la domanda che sorge è: se si riduce il Buddhismo ad un’altra forma di psicologia, si tratta sempre di Buddhismo? Come dicevo, se lo si chiama Dharma “light” e se questo è ciò che volete, allora va bene. Ma non confondetelo con i veri insegnamenti di Dharma, con il vero Dharma che include rinascita, liberazione, illuminazione e karma, i quali sono tutti parte della cultura indiana. La disciplina etica pone però dei problemi nel Dharma “light” perché, nuovamente, una persona potrebbe non vedere o non sperimentare i risultati del proprio comportamento distruttivo, come nel caso dei criminali che la fanno franca e non vengono mai arrestati.

Qui sorge una domanda molto interessante. Invece di praticare per migliorare le nostre vite future, potremmo invece pensare agli effetti del nostro comportamento sulle future generazioni? Potrebbe andar bene aggiungere questo al Buddhismo, come sostituto alle vite future? Sarebbe più accettabile per il nostro pensiero occidentale, almeno per il pensiero occidentale secolare. Non credo che pensare agli effetti del nostro comportamento sulle generazioni future possa costituire una contraddizione con il Buddhismo. Non c’è niente di contrario ai principi buddhisti in questa cosa. Ma potrebbe essere un sostituto della rinascita o piuttosto potrebbe costituire un’a ggiunta?

Il Buddhismo pone sempre grande enfasi sugli effetti del nostro comportamento, l’unica cosa certa è che dovremo sperimentarne i risultati. Non si tratta di quello che sperimenteranno gli altri. Si può servire a qualcuno un pasto delizioso e costui può strozzarsi e morire. Non è certo quale sarà il risultato delle nostre azioni sugli altri. Quindi ritengo che bisogna tener fede al principio generale del Buddhismo per il quale i risultati delle proprie azioni si sperimentano su se stessi, sul continuum del proprio flusso mentale, o continuum mentale.

Questi sono i vari aspetti degli insegnamenti buddhisti insegnati ad un pubblico indiano, ma che sembrano essere universali: la rinascita, la liberazione ecc. Essi non si limitavano al contesto indiano, ma sorsero nel contesto indiano. Farne a meno vorrebbe dire trasformare il Buddhismo in Dharma “light” ed avere problemi a comprendere la causa ed effetto. E qual è il vero scopo del Buddhismo, qual è lo scopo del sentiero? Solo migliorare le cose in questa vita? Questo è lo scopo del Dharma “light.” Migliorare il mondo per le generazioni future preoccupandosi dell’ambiente, del riscaldamento globale ecc., va già un po’ meglio. Ciò che va fatto è chiarire il nostro scopo e chiarire quali erano davvero gli scopi del Buddha a prescindere dal contesto culturale: non i suoi scopi, ma gli scopi per tutti gli esseri.

Le caratteristiche uniche e indispensabili del Buddhismo

Ora ci possiamo chiedere se ci siano caratteristiche del Dharma buddhista che devono essere comunque presenti a prescindere dalla cultura, a prescindere da qualunque altra considerazione, quello che prima ho chiamato terzo livello, qualcosa di un po’ più profondo; elementi caratteristici del Buddhismo non condivisi da altre tradizioni. Ci sono le cosiddette “quattro caratteristiche distintive” o “sigilli del Dharma.” La definizione completa è “le quattro caratteristiche che ci consentono di definire che una particolare visione, una visione filosofica, è basata sull’insegnamento del Buddha, sulle parole del Buddha, sulla parola illuminante del Buddha.” Cos’è che fa sì che qualcosa provenga dalla vera parola del Buddha, da ciò che ha insegnato? Sono espressi quattro punti.

Non è l’amore e la compassione che rendono unico il Buddhismo; non è la meditazione che rende unico il Buddhismo; non è la comunità monastica che rende unico il Buddhismo, oppure l’etica, il non danneggiare gli altri, questo non è specificamente buddhista. Ciò che lo rende specificamente buddhista è la visione della realtà. Questo però non vuol dire che possiamo fare a meno di questi altri aspetti ed avere solamente la visione. Quindi ecco questi primi punti.

Il primo è che tutti i fenomeni condizionati, tutti i fenomeni dipendenti [da cause e condizioni] sono impermanenti o non statici. Vuol dire che tutte le cose influenzate da cause e condizioni, che sorgono da cause e condizioni, cambiano continuamente.

Ed alcune di esse avranno una fine; la maggior parte finiranno. Qualcuna durerà per sempre; ma non statico qui vuol dire cambiare di momento in momento in momento. C’è da dire che insegnare l’impermanenza non è poi così buddhista, voglio dire che la maggior parte delle persone non se ne rendono neanche conto. Vogliono invece pensare che le cose sono permanenti, che dureranno per sempre e che non cambieranno mai. Ma la cosa ancora più importante è che “io” cambio di istante in istante. Sono influenzato da cause e condizioni e cambio di momento in momento in momento.

Il pensiero induista dice: “io” sono permanente, questa cosa non mi tocca. Nulla mi tocca; il mio corpo ne è influenzato ma non io. Posso fare esperienza di molte, molte cose differenti ma “io” non ne sarò toccato. La conoscenza subirà un cambiamento ma non “io.” Quindi ciò di cui sto parlando è il fatto che tutti i fenomeni condizionati o influenzati [da cause e condizioni] cambiano di istante in istante. Sono impermanenti e non statici e questo riguarda anche “me.” Tutte le cose che sorgono in seguito a cause e condizioni cambiano e la maggior parte di esse avrà una fine. Non mi voglio addentrare in una profonda discussione filosofica su questi punti. E’ davvero tardi e fa caldo e forse non è il momento; ma riguardo al fatto che tutti i fenomeni condizionati sono non statici, bisogna fare una differenza: ci sono alcune cose non statiche o cose che cambiano che degenerano piano piano e giungono ad una fine, e ci sono altre cose che non degenerano.

E ora vogliamo parlare di “me?” Degenera come il corpo? Questo “me” si deteriora e cade a pezzi come il corpo oppure continua? Se il me è influenzato da cause e condizioni, alla fine della vita, e anche la mente, in termini di sola conoscenza – la vostra capacità di ricordare potrebbe deteriorarsi, ma la capacità di sapere non si deteriora – quindi se questa non si deteriora al momento della morte, è ancora influenzata da qualcosa, allora inevitabilmente cambierà in un altro momento. E’ un punto che può essere notevolmente approfondito.

Il secondo punto è che tutti i fenomeni contaminati sono problematici, sono sofferenza. “Contaminati” vuol dire che sorgono in base a emozioni disturbanti e karma, e questi ci spingono nuovamente a prendere rinascita, non è così? Per spiegare questo punto in modo elaborato si ricorre ai dodici anelli del sorgere dipendente: tutte le nostre esperienze, tutto ciò che accade, è fondamentalmente causato dalla nostra ignoranza, dall’inconsapevolezza circa la realtà delle cose, la quale porta al sorgere di emozioni disturbanti, del karma e così via, e che quindi genera diversi livelli di felicità, quindi di dolore e felicità. Ma ciò che genera, fondamentalmente, è la base continua del ripetersi incontrollato delle rinascite. E tutto ciò è problematico. Questo meccanismo del samsara, il modo in cui funzionano le rinascite, è specificamente buddhista e tutto ciò è problematico, sofferenza.

Il terzo punto è che tutti i fenomeni sono vuoti e privi di un “sé” o di un’anima o atman per gli indiani, la cui esistenza è impossibile. Questi sono gli insegnamenti buddhisti sulla vacuità, sia che si parli di vacuità per quanto riguarda l’io o la persona, o di vacuità di tutti i fenomeni. Il Buddha l’ha insegnata secondo vari livelli di comprensione, ma in sostanza gli insegnamenti sulla vacuità sono assolutamente essenziali per la visione buddhista. Vacuità vuol dire assenza di un modo di esistere che è impossibile. Le cose appaiono esistere in un certo modo che però non corrisponde – si può dire che non si riferisce – a nulla di reale. E’ impossibile.

Altri sistemi indiani, come ad esempio i sistemi induisti, affermano che tutto è un’illusione e che bisogna realizzare che si tratta di illusione per giungere alla realtà, a comprendere ad esempio che siamo tutti Uno, che il sé equivale a Brahma, cose di questo tipo, ma il Buddha affermava che tutto ciò è impossibile. Egli insegnò quella che è considerata la visione corretta, quella che la logica e l’esperienza dimostrano essere la visione corretta.

Il quarto punto è il nirvana che vuol dire liberazione dal samsara, pacificazione e che è qualcosa di costruttivo. Vuol dire pacificazione, il che si riferisce fondamentalmente alla terza nobile verità, la totale cessazione di tutte le cause della sofferenza: le emozioni disturbanti, l’inconsapevolezza, il karma ecc., e la sofferenza stessa, quindi la rinascita, il ripetersi incontrollato delle rinascite. Ed ha un aspetto costruttivo: porta la felicità. Questo vuol dire che la liberazione è possibile; volendo mettere insieme questo con i punti che abbiamo visto in precedenza, cos’è che porta alla liberazione, e liberazione da cosa?

Le quattro nobili verità sono un altro modo di strutturare ciò che abbiamo detto in questi quattro sigilli del Dharma o caratteristiche distintive del Dharma. E’ possibile riferire questi quattro punti solamente alla vita presente: tutte le cose che sono influenzate da cause e condizioni cambiano; tutto ciò che deriva dalla confusione sarà fonte di problemi; non esiste un “ io” solido; se potessi liberarmi da tutti i miei problemi sarebbe fantastico, cose di questo genere. Ma questo è davvero Buddhismo? Secondo me questa è la versione “light” del Dharma. Non va davvero in profondità per quanto riguarda causa ed effetto e quello da cui veramente ci vogliamo liberare.

Se si sostiene che tutto ciò riguarda solo questa vita, sorge un problema. E’ la questione della causa ed effetto perché allora si avrebbe una mente ed un “io” che in prima istanza sorge senza causa o da una causa irrilevante come la sostanza fisica dei genitori, e che in qualche modo cambia, cambia, cambia senza che quel momento finale abbia alcun effetto su qualcos’altro. Quindi c’è un grosso problema con la causa ed effetto per quanto riguarda la mente, il continuum mentale e “me,” senza postulare la rinascita senza inizio, e la mente senza inizio né fine, “me” senza inizio né fine, non questo “me” impossibile, ma il “me” che effettivamente esiste e funziona.

Riassunto

Riassumendo, il Buddhismo ha certe caratteristiche distintive, le quattro nobili verità, i quattro sigilli, il rifugio nel Buddha, Dharma e Sangha: non ho parlato di quest’ultimo, ma il modo in cui se ne parla nel Buddhismo è specifico del Buddhismo stesso. Ci sono delle caratteristiche distintive. L’esistenza del Buddhismo è forse stabilita di per sé dal potere di queste caratteristiche senza dipendere da nient’altro? No; potreste affermare il contrario? Sarebbe impossibile; è il punto di vista degli insegnamenti sulla vacuità. Deve trovarsi all’interno di un contesto. C’è un contesto generale che è indiano, perché quello fu il pubblico a cui insegnò il Buddha, ma che appare essere universale. Quindi deve trovarsi nel contesto della pratica dell’amore, della compassione, della concentrazione e meditazione ed altre cose come il karma e la rinascita che sono letteralmente più difficili da digerire. Questo sarebbe un contesto.

Vi è poi un altro livello che è più superficiale e che potrebbe nascondere un principio generale che si manifesta in forme differenti nelle differenti culture. Fare offerte, mostrare rispetto, questo tipo di cose possono essere fatte in molte forme differenti; il modo in cui la comunità monastica si sostiene ed altre cose, possono avere modalità differenti. Il tipo di veste che si indossa per distinguersi dai laici e per evitare l’attaccamento, questo può dipendere dalla cultura; e, certamente, la lingua dipende dalla cultura.

Cose come il Monte Meru e i quattro continenti, tutti i vari esseri che abitano l’universo: Sua Santità il Dalai Lama stesso ha detto che non abbiamo bisogno del Monte Meru e della spiegazione dell’universo dell’abhidharma. E’ contraddetta dalla scienza, dall’esperienza; quindi quando si offre l’universo lo si può fare pensando al sistema solare o al pianeta Terra o cose del genere. Il punto sta nell’offrire tutto, offrire l’universo pensando non solo agli esseri umani ma a più esseri viventi, alcuni con maggiore altri con minore sofferenza.

E nella teoria buddhista della percezione, del modo in cui funziona la mente ecc., il cervello non viene mai menzionato ma si può aggiungere, non c’è contraddizione. Quindi quando ci poniamo questa grande domanda, “Possiamo distinguere il Buddha Dharma dal suo contesto asiatico?”, vediamo che si tratta di una questione piuttosto complessa che va analizzata a vari livelli osservando ciò che è essenziale, ciò che è generale, ciò che proviene da una cultura come quella indiana, e ciò che è superficiale e che pur seguendo un principio può essere cambiato in base alla cultura. Questo è ciò che va fatto.

Bene, grazie, avete delle domande? Prego.

Domanda sulle differenti forme di vita

Domanda: In quale contesto lei inserisce i preta, i reami degli dei e così via?

Alex: Il modo in cui mi relaziono ad essi è osservando la mente e la sensazione. La mente è capace di conoscere le cose e fa sorgere come degli ologrammi mentali dei quali fa esperienza o che conosce. Un fattore mentale che è sempre presente è il livello di felicità o infelicità; non è esattamente la stessa cosa di piacere e dolore, si tratta di felicità o infelicità fisica o mentale. Nel reame del desiderio, per usare un termine buddhista, c’è anche il piacere, il dolore, la sensazione fisica. Quando parliamo di felicità e infelicità, piacere e dolore, esiste un ampio spettro dalla sofferenza più intensa ed orribile al piacere e felicità più intense, proprio come accade per lo spettro visivo, quello acustico e così via: un ampio spettro. Ora, per quanto riguarda la vista e il suono, lo spettro che siamo in grado di percepire dipende dall’hardware del corpo che abbiamo. L’aquila è in grado di vedere molto meglio dell’occhio umano. Il cane sente gli odori meglio dell’uomo, di quanto può fare un corpo umano, e può sentire meglio i suoni rispetto a un corpo umano. Quindi è possibile che con un tipo di corpo differente sia possibile conoscere differenti aree dello spettro, aree più ampie.

Se ciò accade con la vista, l’udito, l’olfatto e così via perché non potrebbe accadere anche con il piacere e il dolore, la felicità e l’infelicità? Nel caso di un corpo umano, quando il dolore diventa eccessivo, troppo intenso, si perde coscienza. Se il piacere è troppo intenso siamo spinti a distruggerlo; pensate al prurito, il prurito in realtà è un piacere intenso, non è doloroso, ma se diventa troppo forte allora istintivamente dobbiamo grattarci per farlo smettere. La mente, comunque, è in grado di conoscere molto di più di quanto il nostro corpo le consente, di quanto può fare un corpo umano. Secondo questo ragionamento, potrebbero esserci altre forme di vita, non umane, che sarebbero in grado di provare l’intera gamma di sofferenza e piacere. Così, è possibile che altri o che il nostro continuum mentale possa fare esperienza dell’intero spettro [di sofferenza e piacere]. Naturalmente ci sono due modi di guardare alla cosa e il Buddhismo li considera entrambi.

Credo che questo rientri nella seconda categoria della nostra discussione. In altre parole, non credo che sia davvero importante l’aspetto delle creature infernali e a quali torture esse siano sottoposte, quanto grandi siano i fantasmi e quanto a lungo vivano, e cose del genere. Tutto ciò proviene dalla cultura indiana; ciascuno dei sistemi indiani ne parla, con differenti grandezze e descrizioni e così via. Credo che questo non sia necessario. Ciò che invece è necessario, è il principio che ne è alla base, il fatto che una mente possa sperimentare sofferenza e piacere molto maggiori. Ed il fatto che desideriamo evitarle entrambe per essere in grado di provarne solo la giusta quantità che ci consenta di praticare il sentiero. E prendere sul serio il fatto che dopo questa vita potremmo trovarci in una situazione per la quale l’area dello spettro di piacere o dolore, felicità o infelicità che sperimenteremo, potrebbe non essere molto favorevole [alla pratica del Dharma]. Questo è il principio; la forma non è molto importante.

Domanda sulla libera volontà e sulle scelte

Domanda: In questa esistenza condizionata quanta libertà ci resta? A volte penso che in questa esistenza condizionata non ci sia molta libertà di decidere.

Alex: Ci sono sempre delle possibilità ma ciò che scegliamo è per una ragione. Quindi le scelte che facciamo non sono prive di ragione. Però esse sono limitate; non possiamo scegliere qualunque cosa. Se andiamo al ristorante, ad esempio ad un ristorante turco, possiamo solo scegliere quello che c’è sul menù. Non possiamo scegliere cibo cinese o italiano. Quindi le scelte che possiamo fare sono limitate; però quello che scegliamo lo decidiamo noi. Qualunque scelta faremo sarà basata su una ragione: sei vegetariano oppure mangi la carne, non ti piace questo o quest’altro. C’è una ragione dietro a quello che scegli: “l’ho già preso ieri, non lo voglio di nuovo,” c’è sempre una ragione per quello che scegli. Ma hai una scelta.

Domanda: E’ chiaro che ci sono delle cause che portano a una scelta piuttosto che un’a ltra, ma è ineluttabile che esse portino proprio a quella scelta?

Alex: E’ difficile rispondere perché dal punto di vista di un Buddha, un Buddha onnisciente conosce tutte le cose, quindi egli conosce le cause e gli effetti. Di conseguenza, in un certo senso, un Buddha sa cosa sceglierai, ma la tua scelta non è ancora avvenuta. Lui sa che non è ancora avvenuta. Ora la domanda è:” Come si svolge la nostra esperienza?” Attraverso una scelta. E’ veramente una scelta; beh, poi bisogna analizzare cosa voglia dire “scegliere.” Cosa vuol dire scegliere? Vuol dire distinguere una cosa dall’altra, discriminare ciò che è di maggior beneficio o che porta maggiore piacere rispetto a un’altra cosa. Quindi ci sono tutte queste variabili.

Da parte nostra, credo che tutto ciò di cui possiamo parlare è il modo in cui nella vita facciamo esperienza delle cose, e ciò avviene usando la nostra discriminazione per fare delle scelte. Qui però ci si addentra in una questione filosofica molto profonda e complicata che riguarda le cose che non sono ancora accadute. Non è che tutte le nostre scelte e qualunque cosa faremo sta già accadendo o è già accaduta e il Buddha ne è a conoscenza. Ci sono cose che non sono ancora accadute. L’anno prossimo non è ancora accaduto, così come il domani. Sappiamo che ci sarà un domani? Sì. E questo è predeterminato? Beh, è un modo strano di guardare alla cosa, no? Ma io so che ci sarà un domani. Quindi bisogna approfondire sempre più a livello filosofico. Sicuramente le cose non sono tutte predeterminate e noi non siamo semplicemente i protagonisti di un copione scritto da qualcun altro che ha già deciso cosa dovesse succedere.

Domanda sulle benedizioni

Un’ultima domanda.

Domanda: Forse con questo si torna all’argomento delle tradizioni, cosa vuol dire benedizione e cos’è una benedizione? E’ qualcosa di provvisorio o è un qualche tipo di energia che proviene da me stesso o da dove?

Alex: Va bene. Quindi la domanda riguarda le benedizioni, si tratta di un fenomeno culturale o cosa accade con le benedizioni? Questo è un punto molto interessante perché molti degli equivoci riguardanti il Buddhismo sono dovuti al tipo di terminologia che viene usata per tradurre i termini tecnici buddhisti. E molti dei termini o una parte di essi, che sono stati tradizionalmente usati in occidente, hanno una forte connotazione cristiana, come ad esempio il termine “benedizione.”

Partecipante: forse perché in Bhutan riguarda cose provvisorie, tutti quegli oggetti sacri di Drugpa Kunlay, e tutte le persone che…

Alex: Giusto, lei afferma che in Bhutan Drugpa Kunlay ed altri maestri porgono questi oggetti sul capo delle persone che così ricevono la benedizione. Certamente c’è questo aspetto, ma tradurre questa cosa con “benedizione” introduce un concetto cristiano. Il termine tibetano potrebbe essere tradotto in modo differente; io lo tradurrei con “ispirazione,” qualcosa che ispira, che esalta.

La domanda che segue è: da dove proviene questa ispirazione? Esiste solo grazie al potere dell’oggetto? Esiste solo grazie al potere della mente della persona, come in quella storia del dente di cane, non so se la conoscete. Qualcuno doveva riportare una reliquia del Buddha ma l’aveva dimenticata, e quindi portò un dente di cane e questo fu fonte di ispirazione per tutti. Quindi da dove proviene l’ispirazione, dall’oggetto, dalla mente, dalla persona che l’aveva portato, dalla bella storia che viene raccontata? Ciò che dovresti rispondere è che sorge in base a tutto questo.

Il dato di fatto è che le persone ricevono l’ispirazione. Anche un arcobaleno ci ispira; esso contiene quindi qualcosa di speciale, un qualche tipo di vibrazione? E’ una domanda difficile. Dal punto di vista buddhista si direbbe che se ad esempio una persona è capace di grande concentrazione ed ha una grande esperienza, la capacità di mettere tutte le cose a fuoco e così via, tutto ciò influenzerà gli oggetti intorno a lui. Influenza l’ambiente, come l’albero del bodhi a Bodhgaya. Ci sono queste cerimonie in cui per un mese intero tutti i monaci si riuniscono. Recitano Om mani padme hum e soffiano su certe piccole pillole in modo che queste possano assorbire l’ Om mani padme hum, e le persone che le prendono ne traggono poi grande ispirazione. Si potrebbe dire che c’è una qualche vibrazione, diciamo che la cosa potrebbe suonare un po’ New Age ma non è, come dovremmo dire, scandaloso che la vibrazione e l’energia possano in qualche modo influenzare l’ambiente e l’allineamento dell’energia di un oggetto.

Poi, naturalmente, se queste pillole le prende qualcuno che non ha alcun rispetto, a cui non importa niente, non avranno alcun effetto. Quindi l’ispirazione dipende anche dalla mente della persona. C’è un esempio che viene fatto: anche se il lama più elevato del mondo soffia su un cordino di protezione e lo lega al collo di un maiale che deve essere macellato, questo non eviterà al maiale la macellazione. Le cose, quindi, sorgono in base a molti, molti fattori.

Va bene, terminiamo qui; non con una benedizione ma con…

Partecipante: Perché no? E’ ispirazione.

Alex: Ispirazione – con una dedica. Dedica; pensiamo che qualunque forza positiva, qualunque energia sia stata accumulata, e qui si sta parlando di energia del nostro continuum mentale, possa essa andare sempre più in profondità e diventare sempre più forte, in modo da agire come causa affinché sia noi che tutti gli altri esseri raggiungano lo stato illuminato di Buddha per il beneficio di tutti noi.

(TRATTO DAL SITO:http://www.berzinarchives.com/web/it/archives/approaching_buddhism/world_today/disting_dharma_asian_culture/transcript.html che devotamente ringraziamo per la sua compassionevole gentilezza verso tutti gli esseri che soffrono in questa dolorosa esistenza samsarica.)