Corrado Pensa: Insegnamento sulla morte
Pubblichiamo dal n°2, anno IV, maggio-agosto 2000, di Buone Notizie (rivista a cura dell’associazione culturale Rete di Indra, che ringraziamo), la trascrizione di un discorso tenuto a Milano il 10 febbraio 1999 da Corrado Pensa per presentare il libro Chi muore di Stephen Levine (Ediz. Sensibili alle Foglie, 1998; sul numero 1 di Dharma ne è stato pubblicato un estratto). Quella che presentiamo è una versione leggermente rivista e annotata dall’Autore stesso.
Il tema di questa sera è una riflessione sull’insegnamento del Buddha sulla morte, che è stata stimolata dalla pubblicazione del libro ‘Chi muore?’, di Stephen Levine, autore che si è occupato a lungo di meditazione e che, da un certo momento in poi, si è dedicato all’assistenza a malati terminali, con seminari molto apprezzati, rivolti sia a persone che stanno vicino a malati terminali, sia ai malati stessi. Dal materiale proveniente da questi seminari è nato questo libro Chi muore? tradotto adesso anche in italiano . Quindi, faremo questa chiacchierata facendo la spoletta tra il Buddha e Stephen Levine, considerando entrambi i modi, quello antico e classico del Buddha e quello contemporaneo di Stephen Levine.Comincerei da una citazione di un autore più recente di Stephen Levine, Rodney Smith, che è anche lui insegnante di meditazione e direttore di una casa per malati terminali negli Stati Uniti. Il libro di Rodney si chiama ‘Lezioni dai morenti’. In un capitolo di questo libro, leggiamo: “In una delle aeree più violenta e degradata della città, viveva Roxanne, una donna simpaticissima. Anche lei si stava avvicinando alla morte. Ricordo che nel bel mezzo del suo soggiorno, a casa sua, c’era un’apertura nel pavimento, e da lì entravano e uscivano polli e galline che stavano sotto la casa e Roxanne, quando ancora ne aveva la forza, li scacciava con una scopa. Io andavo molto volentieri a fare visita a Roxanne, perché Roxanne irraggiava fiducia, umorismo e calore. La sua accettazione della morte era straordinaria. Ogni volta che la salutavo, mi sentivo più fresco, come se lei mi avesse dato qualcosa che andava al di là della visita. Roxanne sapeva qualcosa sul morire che io non sapevo, perciò mi sorprendevo a voler imparare da lei, anche se ero io ad avere il ruolo di assistente professionista. Dopo parecchie settimane, le chiesi come avesse risolto la sua morte, e come potesse starsene così tranquilla e in pace. Roxanne mi guardò con un’espressione serena e senza tempo e mi disse: “Mio caro, la morte non mi spaventa più. Due dei miei figli sono morti tra le mie braccia. Ho potuto guardare la morte negli occhi e i suoi occhi sono gentili” [i]. Dunque, siamo davanti a una dimensione di amicizia per la morte. E’ quella stessa amicizia che sentiamo risuonare in grandi autori spirituali, cito per esempio la maestra vivente Vimala Thakar: “Non c’è miglior amico della morte. E’ il grande, il supremo Amico. Il grande Amico ci aspetta alla porta. Ricorda questo e tutto il resto sarà perfettamente semplice e facile” [ii]. Anche qui, allora, la morte vista in una luce del tutto diversa da quella luce sinistra del cupo falciatore con la clessidra, che per tanti secoli è stata la raffigurazione abituale della morte. L’amicizia per la morte come garanzia definitiva di nutrire amicizia per la vita tutta intera, dunque garanzia di quell’amore incondizionato che è l’altra faccia della sapienza. L’esempio di Roxanne è bello e incoraggiante, perché ci mostra al vivo, in un contesto molto domestico e lontano da bagliori spirituali, come questo potenziale positivo sia dentro di noi. In genere, occorre un lungo lavoro interiore per farlo emergere, ma a volte ci sono o delle predisposizioni personali particolarmente forti o degli incidenti, per esempio la morte di una persona cara o la propria morte, che lo portano in superficie, con sorpresa della stessa persona. Inutile dire che ben più spesso la morte è vissuta non come amica, bensì come il nemico più grande e assoluto. Vediamo un paio di casi nelle scritture buddhiste [iii]. In questi due casi che considereremo, il punto di partenza è proprio un’avversione incondizionata nei confronti della morte. Sono due donne. La prima si chiama Patachara e le scritture descrivono la sua storia drammaticissima. In viaggio con il marito e due figli, il marito muore, perché morso da un serpente. Lei rimane con i due figli, ma il più grande viene travolto da un fiume in piena, il più piccolo viene portato via da un rapace. Questo avviene durante un viaggio in cui Patachara va a trovare i genitori e il fratello. Mentre, avendo perduto il marito e i figli, si dirige verso la casa dei genitori, incontra un gruppo di persone provenienti dal villaggio della sua famiglia, dal quale si leva un’enorme colonna di fumo: queste persone le spiegano che una terribile tempesta ha travolto il villaggio e quel fumo è il fumo di una grande pira funeraria sulla quale giacciono anche i genitori e il fratello di Patachara. Patachara sta per impazzire. Le consigliano di rivolgersi al Buddha che si trova nelle vicinanze. Il Buddha, in questo occasione, tocca un tema che per noi occidentali o è lontano o è vicino in maniera superficiale, cioè il tema del karma, il tema in relazione alle vite passate. Il Buddha dice a Patachara: “Pensi che sia la prima volta che piangi per la morte di qualcuno? Ti è successo moltissime volte, talmente tante che per accogliere le tue lacrime non basterebbero i quattro oceani”. Un’immagine indubbiamente forte che ricorre spesso nelle scritture canoniche, quando si parla del dolore che abbiamo accumulato in una serie infinita di esistenze precedenti. Le lacrime che vengono da questo dolore, si dice, non basterebbero a colmare i quattro oceani della cosmologia dell’epoca. In altri termini: qual è il succo di questo insegnamento? E’ l’affermazione del carattere universale, comune e continuo della morte. Ti è successo tante volte e succede a tutti tante volte, succede in continuazione. Questo insegnamento così apparentemente semplice circa l’universalità e il carattere comune e continuo della morte, veicolato da un maestro della portata del Buddha, fa sì che qualcosa si sciolga nella disperatissima Patachara e le scritture descrivono che proprio in quel momento lei compie un salto di piano, raggiungendo il primo stadio della liberazione. Dall’abisso di dolore, attraverso questo insegnamento, impartito dalla persona giusta, al momento giusto, Patachara ha questo ribaltamento e approda a quella che si chiama l’entrata nella corrente. L’altro caso è quello di Kisagotami. Kisagotami ha perso il suo bambino, ma non accetta assolutamente la cosa, per cui si aggira con il corpo del bambino morto e chiede a tutti un rimedio per riportarlo in vita. Anche lei viene indirizzata al Buddha. E il Buddha le dice: “Sì, io ho questo rimedio, ma perché possa funzionare, tu mi devi portare un grano di senape bianca e questo grano di senape bianca deve venire da una casa in cui non c’è stata nessuna morte”. E si trattava di case di una cultura tradizionale in cui si vive per generazioni. Kisagotami comincia ad andare in giro e naturalmente si sente rispondere regolarmente: “In questa casa contiamo un numero di morti maggiore che il numero di vivi”. Quindi, a poco a poco, sentendosi rispondere in questo modo, Kisagotami è come se ritornasse in sé, si dà pace e seppellisce il suo bambino. Di nuovo, parla col Buddha che le sottolinea il carattere universale, naturale della morte. E anche qui le scritture dicono: “Kisagotami, ascoltando il Buddha, ha un salto”. Di nuovo, dalla disperazione al primo grado della liberazione. La realizzazione dell’universalità, della naturalezza, dell’impersonalità della morte. Perché impersonalità? E’ diverso il vederla in questa prospettiva che non il viverla, come comprensibilmente succede, ossessivamente, come un fatto unico. E’ il contrario, l’insegnamento dice: “Tutto è fuorché un fatto unico”. Ma l’insegnamento riesce a penetrare, non rimane a livello teorico il che non sortirebbe alcun effetto. C’è, cioè, una realizzazione, in questi due casi, del carattere assolutamente universale e naturale della morte. Cosa significa? Una radicale accettazione della morte. Ora, conviene rivolgerci ad alcuni insegnamenti del Buddha sulla meditazione in relazione alla morte. La pratica in questione si chiama in lingua pali: marana-sati. Marana significa morte, ha la stessa radice di morte e sati, oltre al significato di consapevolezza, in questo caso conserva il significato di ricordo e riflessione. Proprio come il memento mori della tradizione occidentale. Ricordarsi della morte. Tant’è vero che la pratica più semplice della marana-sati consiste nel riportarsi alla mente la frase: “marana bhavissati”, che vuol dire “ci sarà la morte”, “arriverà la morte”. Solo questa frase: ” marana bhavissati”, ‘bhavissati’, il futuro del verbo essere. Ricordarsi della morte, riflettere sulla morte, essere consapevoli delle proprie reazioni di fronte alla morte. Ci viene detto in diversi luoghi delle scritture, con una certa enfasi, che, se la marana-sati, la meditazione sulla morte è ben sviluppata, è ben addestrata, ciò porterà molto frutto e molto beneficio. E si va nei particolari di questi frutti e benefici, dicendo che questa potente meditazione aiuta l’accesso al senza morte. Alla dimensione che non nasce e che non muore, l’assoluto, l’incondizionato. Sentiamo su questo argomento Stephen Levine. Vorrei aggiungere che uno dei pregi di Levine è che aiuta a tradurre in un linguaggio e in una sensibilità contemporanea antichi insegnamenti. Si rifà infatti a maestri di varie tradizioni, non tanto nello scrivere il libro, quanto nello svolgere il suo lavoro di assistente per i malati terminali. “Il corpo muore, – dice Levine – la mente cambia di continuo, ma in qualche modo, dietro tutto ciò vi è una presenza che qualcuno chiama il ‘senza morte’, che è immutabile, che è semplicemente ciò che è. Nascere pienamente significa entrare in contatto con esso, sperimentare anche per un solo istante la vastità che esiste al di là della nascita e della morte, emergere in un mondo di paradosso e di mistero senza altri strumenti se non la consapevolezza e l’amore” [iv]. Vorrei ricordare il contributo di Krishnamurti. Riassumendo una serie di osservazioni che Krishnamurti fa sulla morte, ecco che cosa emerge: “Noi non accettiamo la morte, perché la mente è abituata e compulsivamente dedita ad accumulare, sia sul versante esterno, sia sul versante interno, per esempio accumulare esperienze spirituali. Questa accumulazione porta a pensare sempre in termini di tempo, a essere schiavi del tempo. Solo la mente che è libera da questo perseguire avidamente tutte le possibili forme di sicurezza o pseudosicurezza, la mente che è libera dal desiderio di immortalità personale, è la mente capace di conoscere che cos’è l’immortalità” [v]. O il ‘senza morte’, l’amata-dhamma, per usare il linguaggio buddhista. Sono parole profonde che vanno al cuore, sia della pratica spirituale in generale, sia della pratica spirituale relativa alla morte. Perché in Krishnamurti, come nel Buddha, dire pratica spirituale significa automaticamente dire pratica sulla morte e, al contrario, dire pratica sulla morte significa dire pratica spirituale. Prima di considerare più da vicino la meditazione sulla morte nel Buddha, vorrei osservare che a volte il ricordo della morte, la marana-sati, è deliberatamente evocato per suscitare un senso di urgenza spirituale. Andiamo alle scritture e nel Samyutta Nikaya leggiamo che un giorno un re dell’epoca, il re Pasenadi, va a rendere visita al Buddha. E il Buddha gli chiede: “Vostra Maestà, che cosa vi ha portato qui a metà del pomeriggio e che cosa stavate facendo?”. Pasenadi risponde: “Oh, mi occupavo di quelle cose di cui si occupano i guerrieri e i re, ossia l’intossicazione per il potere e l’avida ricerca di tutti i possibili piaceri sensoriali”. Evidentemente, a Pasenadi non mancava la sincerità. Il Buddha gli dice: “Immagina, o re, che una persona molto affidabile arrivi di corsa, annunciando che da est una montagna alta fino a toccare le nubi sta avanzando, travolgendo e distruggendo tutto ciò che incontra sul suo cammino. E immagina che questa persona ti dicesse: ‘La situazione è questa, fai tutto quello che pensi di dover fare'”. E questo medesimo esempio è ripetuto con altre tre persone, una che proviene da ovest, una che proviene da nord, una che proviene da sud. Quindi, lo scenario è di quattro montagne alte fino alle nubi che avanzano chiudendo. “Allora, Vostra Maestà, – domanda il Buddha – che cosa risponderesti?” E Pasenadi rispone: “Se questa è la situazione, se questo è il pericolo, allora la cosa da fare è vivere una vita secondo il Dharma, è perseguire subito il bene”. E il Buddha dice: “Bene, Maestà, ti assicuro che la morte sta avanzando verso di te. Che cosa pensi che sia giusto fare?”. Pasenadi non può che rispondere: “Perseguire il Dharma, cercare subito il bene” [vi]. A volte, mi è sembrato che questa potente immagine delle quattro montagne che ci chiudono, a meno che non sia ansiogena, possa suscitarci un desiderio di urgenza spirituale, di prendere rifugio nel lavoro interiore, cioè di vedere l’importanza relativa di questo e quello e di vedere invece quello che conta, perché le quattro montagne si stanno effettivamente avvicinando. Allora, modalità della marana-sati, della meditazione sulla morte: a me sembra che possiamo parlare di pratiche specifiche e pratiche non specifiche, vale a dire che ci sono delle pratiche che hanno la morte come oggetto, mentre in altre situazioni ci troviamo davanti all’esortazione di praticare secondo i modi comuni della pratica in punto di morte, cioè non viene data una pratica specifica, semplicemente si ricorda l’importanza di praticare e di affrontare la morte con i soliti strumenti della pratica insegnata dal Buddha, dunque la consapevolezza, la comprensione, la compassione. Quella più semplice e molto profonda tra le pratiche specifiche è quella di ripetersi “ci sarà la morte”, marana bhavissati. Un testo importante, successivo ai discorsi del Buddha, il Visuddhimagga, un commentario del V secolo, aggiunge che questa frase che siamo invitati a ripeterci mentalmente, è una frase che va detta con attenzione, con comprensione e con un senso di urgenza, non è una frase alla quale va imputato qualche magico valore per la semplice ripetizione. A questo proposito, c’è un avvertimento da fare: se siamo depressi, queste pratiche sono controindicate. Vale a dire, invece di suscitare un sostanziale rasserenamento e accettazione, hanno l’effetto contrario, cioè quello di suscitare ulteriore depressione. Se siamo depressi, faremo pratiche, per esempio, nel segno della benevolenza, dell’amore universale, di quella che in lingua pali si chiama Metta, ad alte dosi, e questo ci farà molto bene, a meno che la depressione non ci impedisca, con tipica modalità autodistruttiva, di fare quello che ci fa bene. E quando siamo, in buona misura, usciti dalla depressione, allora potremo avvicinarci al tema della morte. Un’altra pratica specifica importante è la pratica dei ‘cinque ricordi’ o cinque fatti: io sono soggetto all’invecchiamento, non sono al di là dell’invecchiamento; io sono soggetto alla malattia, non sono al di là della malattia; io sono soggetto alla morte, non sono al di là della morte; io sarò inevitabilmente separato da tutto ciò che mi è caro; io raccolgo gli effetti delle mie azioni. Questi sono i cinque fatti o i cinque ricordi [vii]. Da notare che l’ultimo ricordo, io raccolgo gli effetti delle mie azioni, non ha bisogno di essere pensato in un contesto di vite passate, vite future, basta pensare alle azioni e agli effetti delle azioni compiute in questi giorni, in questi mesi, in questi anni, in questa vita, azioni mentali, azioni vocali, azioni fisiche. A cosa servono i cinque ricordi? A familiarizzarci con la verità, mettendo l’accento sul familiarizzarci, più che sulla verità. Perché siamo tutti d’accordo che questa sia la verità, quanto a volercisi familiarizzare, è un altro discorso. Questo è il contrario quindi dell’ignorare, negare, rimuovere questi cinque fatti. La psicologia ci insegna che, se noi neghiamo e rimuoviamo, questo non diminuirà la sofferenza, ma la accrescerà, ci ritroveremo per esempio, con un’ansia diffusa di cui non sappiamo l’origine, ci troveremo a rispondere in maniera ansiosissima davanti a cose di piccola rilevanza. Il ‘familiarizzarci con’ è il contrario del mettere sotto, del reprimere. Sono pratiche da fare in maniera periodica, ripetuta, cosciente, vigile. Allora, come si lavora, una volta fatto il riconoscimento dei cinque fatti fondamentali? Prendiamo il ricordo, o il fatto, ‘io sono soggetto all’invecchiamento’. Il testo ci dice che è facile essere ubriachi di giovinezza, anzi dice che la tipica ubriacatura della giovinezza è quella di essere ubriachi di giovinezza, e quindi essere completamente ciechi a questo fatto. Il testo continua dicendo che io, riscontrando in me questa ubriacatura che mi porta ad agire ciecamente, come se non esistessero i cinque fatti, debbo rivolgere spesso la consapevolezza e la comprensione a questo squilibrio, a questa ubriacatura, a questo non voler vedere. Notate: porto spesso consapevolezza e comprensione, cioè la punta di diamante della pratica insegnata dal Buddha: sati-pañña, consapevolezza e comprensione. Cioè sento questo movimento di squilibrio e non accantono la consapevolezza, al contrario la risveglio ulteriormente e ce la porto sopra, spesso. Molti abbandoni di queste pratiche vengono dalla mancanza di quello ‘spesso’, cioè le persone provano qualche volta e dopo di che dicono: “Non funziona, non è come me l’aspettavo”. Succede, ci dice la tradizione, che questa ubriacatura di giovinezza, che acceca, o scompare o diminuisce. Un grosso inquinante viene seriamente intaccato dalla pratica spirituale, dal fatto di riconoscerlo, di non ignorarlo, negarlo, e quindi riconoscerlo e riconoscerlo ancora con tersa consapevolezza. Osserviamo che è un misto di pratica specifica e non, infatti i temi sono relativi alla morte, ma la pratica usata non è quella del ripetersi: ‘la morte ci sarà’, ma è la pratica abituale di consapevolezza e di comprensione. Questa medesima procedura che abbiamo nominato a proposito del primo fatto viene ripetuta per ognuno degli altri. In ognuno, ci mettiamo davanti al nostro atteggiamento corrente e ci portiamo sopra, dopo aver fatto quel riconoscimento, la consapevolezza. Allora, rendiamoci conto che là dove si dice che questo atteggiamento diminuisce o scompare, si parla di un risultato enorme. Perché è una modificazione in profondità di qualcosa di profondamente abituale. Stiamo parlando di un crescendo di libertà dalla paura e dall’attaccamento di tutti i tipi. Come è stato detto da qualcuno: “Stiamo facendo risplendere la luce della morte sulla vita”. Ma questi testi che ci parlano dei cinque fatti non si fermano qui, c’è un sigillo e questo sigillo è la realizzazione della universalità della morte. Infatti, la parte finale di questa meditazione sui cinque fatti è che si ripassano i cinque fatti, dicendo su ognuno: “Io non sono il solo a essere soggetto a vecchiaia, malattia e morte. Non capita solo a me di essere soggetto a vecchiaia, malattia e morte”. Qualcuno forse sarà perplesso, pensa: “Lo sapevamo”. Il fatto è che lo sappiamo e non lo sappiamo. Lo sappiamo, ma non è ‘in circolo’ questa incredibile interconnessione, comunanza, universalità della morte. Quindi, di nuovo, il disincapsulamento dall’io-mio e l’accesso a questa universalità, naturalezza, impersonalità della morte. E’ liberante, non è un fatto personale, personalistico, unico; è un fatto universale, naturale, impersonale. Certo questa prospettiva completamente diversa dalla prospettiva nella quale ci troviamo in genere richiede un tirocinio, un lavoro; a meno che non si abbiano quelle predisposizioni speciali che hanno persone come Roxanne. Vediamo ancora un esempio di esortazione alla pratica del Dharma in punto di morte. C’è un laico molto famoso e molto generoso, Anathapindika, che è molto malato. Allora, Sariputta, uno dei discepoli più importanti del Buddha, considerato il più saggio, e Ananda, il fedele assistente del Buddha, gli chiedono: “Come stai, Anathapindika?”. “Male”. risponde Anathapindika. “Ma i dolori diventano più forti o meno forti?”. “Più forti”. risponde Anathapindika. E ogni volta che gli rifanno la domanda, risponde: “Ancora più forti”. “Allora, – gli dicono Sariputta e Ananda – devi praticare il non-attaccamento riguardo ai sensi, riguardo alla mente, riguardo alla percezione che i sensi e la mente generano, riguardo alla sensazione, piacevole o spiacevole, che viene dalla percezione, riguardo a emozioni, stati d’animo, che vengono in presenza della percezione e della sensazione. Tu devi esercitare il non-attaccamento nei confronti di tutto questo” [viii]. Siamo di nuovo di fronte a un’ingiunzione di pratica esattamente uguale all’ingiunzione di pratica di base, solo che viene data in punto di morte: pervenire al non-attaccamento, cioé all’equanimità, che è la fonte della saggezza e della compassione, che sono le due ali della liberazione. Minutamente, dunque, lavorare sull’attaccamento che si genera attraverso i sensi e la mente. Poco dopo, Anathapindika morirà e, come ci viene detto, ottiene rinascita in un paradiso. E’ interessante osservare che Anathapindika piange quando riceve questa istruzione e dice: ” Io questa istruzione non l’avevo mai sentita”. E Sariputta gli risponde: “Non l’hai mai sentita perché questa istruzione noi, finora, l’abbiamo data soltanto a monaci”. Al che, Anathapindika dice: “La dovreste dare anche ai laici, tra i quali ci sono persone con poca polvere sugli occhi”: cioè ricettive. Probabilmente, siamo davanti a una svolta della comunità originaria buddhista, quando si decide di aprire anche la parte più profonda della pratica al mondo dei laici praticanti. Un’altra occasione: siamo sempre davanti a un insegnamento di tipo aspecifico. C’è il laico Nakulapita, malato gravemente, e si teme che sia arrivata la sua ora. La moglie gli ricorda che il Buddha giudica molto negativo coltivare preoccupazioni in punto di morte e infatti Nakulapita è molto preoccupato. E’ preoccupato di cosa succederà alla moglie, di cosa succederà al figlio, di questo, di quell’altro. La moglie viene presentata come una donna molto calma e molto forte, che gli scioglie le preoccupazioni ad una ad una. Questo ingenera nel marito un tale rilassamento che Nakulapita guarisce [ix]. L’insegnamento è, anche qui, a tutto campo: la preoccupazione, ossia la proliferazione mentale da paura è un inquinante mentale in qualsiasi momento, non soltanto quando si muore. In generale, viene sottolineato nei testi come la paura e il terrore di morire abitano là dove sono ancora forti gli attaccamenti, mentre la paura di morire recede a mano a mano che avanza l’equanimità. In questo tipo di letteratura, di cui Levine è un esempio, ci sono molte storie di morti avvenute in grande pace. Possiamo scegliere un esempio forte riportato dallo stesso Levine, la morte del grande santo Ramana Maharshi. ”Quando Ramana stava morendo di cancro, i suoi devoti gli chiesero di operare una guarigione su se stesso”. “Perché, fratelli? Questo corpo è sfatto, perché aggrapparcisi? Perché costringerlo a durare?” risponde Ramana. Al che, loro implorarono: “Maestro, ti preghiamo, non lasciarci”. Guardandoli come si guardano dei figli, Ramana rispose: “Lasciarvi? E dove sarebbe il luogo dove vado?”. Giovedì 13 aprile, un medico portò a Ramana un sedativo, per alleviargli la congestione ai polmoni, ma lui lo rifiutò. “Non è necessario, tutto accadrà come deve entro due giorni”. Al tramonto del giorno successivo, Ramana chiese a quelli che lo assistevano di aiutarlo a mettersi seduto. Sapevano che ogni movimento, anche solo toccarlo, era per lui doloroso, ma egli disse loro di non preoccuparsi e rimase seduto con uno degli assistenti che gli reggeva la testa. Un dottore fece per somministrargli l’ossigeno, ma Ramana con un gesto lo allontanò. D’un tratto, un gruppo di devoti seduti fuori nella veranda cominciò a cantare ‘Arunachala Shiva’. All’udire il suo canto preferito, Ramana aprì gli occhi che brillarono, sorrise con indescrivibile dolcezza, lacrime di benedizione gli scesero lungo le guance. Ancora un respiro profondo e poi niente più. Non ci fu lotta, non ci fu spasimo, nessun altro segno di morte, solo, il respiro successivo non venne” [x]. Ora, addentriamoci più in particolare nel libro di Levine, poi ritorniamo al buddhismo. Anche nel libro di Levine troviamo tanta pratica generale, non specifica, (secondo me è un buon libro di Dharma), e pratica specificatamente rivolta alla morte. Allora, dall’insegnamento di Levine, riassumendo, possiamo estrarre un assioma fondamentale, che suona così: “Tutto ciò che ci prepara alla morte accresce la vita. E, d’altra parte, tutto ciò che rende difficile morire, accettare la morte, aprirsi alla morte, è esattamente ciò che rende difficile vivere e aprirsi alla vita. Allora, in questa pratica di preparazione alla morte, che è anche dare vita alla vita, sarà fondamentale entrare in contatto consapevole con ciò che è spiacevole, invece di ignorarlo, o agirlo, o alimentarlo ciecamente. La pratica più utile è coltivare l’apertura verso ciò che è spiacevole, riconoscere in noi la resistenza e la paura nei confronti dello spiacevole. E invece fare in modo di rilassarci e di aprirci davanti allo spiacevole. Lasciarlo fluttuare libero, lasciarlo andare. Tenete presente che se scrivete un elenco delle vostre resistenze e delle vostre opinioni, questa sarebbe una descrizione quasi completa della vostra personalità. Se vi identificate con questa personalità, voi non fate altro che amplificare la paura della morte, vale a dire la perdita immaginaria di una individualità immaginaria.” Levine non sta dicendo che non esiste nulla, sta dicendo che c’è una fabbricazione, un attaccamento a questa fabbricazione, che, se noi ne facciamo a meno, è molto meglio per tutti, a cominciare da noi. “Allora, l’apertura a ciò che è spiacevole, in luogo dell’assidua resistenza a ciò che è spiacevole. Questo è facile da enunciare, ma, di nuovo, come molti sanno, è meno facile da capire, applicare e realizzare. Che preparativi avete fatto per aprirvi a una vita interiore talmente piena che qualsiasi cosa accade può essere usata come mezzo per arricchire la vostra attenzione?” Se qualsiasi cosa accade diventa mezzo per arricchire la consapevolezza e i suoi frutti, in noi e fuori di noi, allora tutto è grazia, o, con Madre Teresa di Calcutta, possiamo dire: “Ogni cosa è la migliore”. Perché tutto sollecita questo valore di fondo che è la pratica interiore e tra l’altro ciò che è spiacevole, se si impara a farlo, è più potente del piacevole nel creare questa apertura. Questa è una rivoluzione copernicana, perché noi seguiamo il piacevole e cerchiamo di evitare lo spiacevole. Non si parla di cercare lo spiacevole, ma si tratta di cambiare la nostra relazione con lo spiacevole. Preferiremo sempre il piacevole, ma cambiare la relazione con lo spiacevole cambia la vita e cambia anche la relazione col piacevole, vissuto sempre più in chiave di apprezzamento e non di attaccamento. Dice ancora Stephen Levine: “Tanto più vi aprite alla vita, tanto meno la morte vi diventa nemica” [xi]. E la vita è fatta di parecchie cose spiacevoli, ma siamo chiusi davanti ad esse. “Quando cominciate ad usare la morte come mezzo per focalizzarvi sulla vita, tutto diventa semplicemente così com’è, un’occasione straordinaria per essere davvero vivi. Perché aspettare che il dolore sia troppo intenso, per lavorare a unificare e raccogliere la mente? Perché non usare ogni momento di malattia, ogni influenza, ogni raffreddore, ogni lieve ferita, come momento per lasciare andare, per aprirsi all’intensità che si manifesta? In ogni dolore o malattia vedo che c’è la libertà, se pratico, per aprirsi ad essa. Allorché mi apro a questi eventi, così come ci si apre a un maestro, allora essi non contribuiscono più a rafforzare in me l’identificazione con il ruolo di colui, colei che soffre, con la vittima delle circostanze, ma, se faccio questo, io sono semplicemente ciò che sono e l’evento è semplicemente ciò che è” [xii]. Sono parole semplici, per descrivere qualcosa di molto grande, cioè l’essere andati al di là dell’autocommiserazione. Torniamo al buddhismo e soffermiamoci brevemente sulla legge del karma. Perché, se parliamo dell’insegnamento del Buddha sulla morte, fare come se non ci fosse l’insegnamento relativo al karma, sarebbe strano. Io personalmente mi sentirei in imbarazzo se andassi in giro assicurando le persone dell’esistenza del karma di vite passate o future. Però, non mi viene nemmeno in mente di assicurare le persone che la faccenda del karma è una credenza folcloristica. A me la questione sembra profondamente interessante, ma mi sento più a mio agio se parlo di ipotesi del karma. Allora, se l’ipotesi del karma, così come è formulata negli insegnamenti buddhisti, è vera, questo implica che i miei nodi interiori, per esempio la mia rabbia, non si estinguono con l’estinguersi del mio corpo, alla morte, ma in qualche modo restano in circolo e ricompaiono da qualche altra parte. Ci sarà un essere vivente che ne sarà il portatore. Un esempio usato è quello di un ramo che brucia. Il fuoco, a un certo punto, lascia il ramo bruciato e si appicca a un altro ramo, così il karma passerebbe da un individuo che muore a un individuo che nasce. Questa è la concezione buddhista della scuola antica, che si esprime sinteticamente, come avviene nel Visuddhimagga, affermando che il nuovo individuo nato è lo stesso e non è lo stesso. C’è la trasmissione di forza karmica dall’uno all’altro e questo è un elemento di continuità, ma c’è anche discontinuità, di qui l’affermazione: ‘E’ lo stesso e non è lo stesso’. Naturalmente, la cosa che colpisce è la continuità, perché da un’ottica non di questo genere nessuno si sogna di prospettare la rinascita dello stesso individuo anche al venti per cento. Allora, se l’ipotesi del karma è vera, noi ci troviamo davanti a una prospettiva vertiginosa, perché si dilata enormemente il nostro concetto di responsabilità, la nostra responsabilità diventa cosmica. Se è vero che noi trasmettiamo i nodi che ci affliggono, allora ci sarà un essere che prenderà in carico questi nodi, questa riverberazione tossica e dolorosa. Quindi, dobbiamo immaginare una successione di individui, che sono lo stesso individuo e non sono lo stesso individuo, che si portano appresso questi nodi, magari complicandoli ulteriormente. Inoltre, ciascun individuo di questa serie, entra in contatto con altre persone e perciò alla riverberazione verticale, di vita in vita, si aggiunge, in qualche misura, anche una riverberazione orizzontale, cioè la mia avversione sarà causa di sofferenza per me, ma anche per altre persone che incontro nella mia vita. Insomma, indubbiamente, una responsabilità molto vasta. D’altra parte, la fecondità karmica funziona anche nella direzione opposta, positiva. E dunque, se noi lavoriamo a sciogliere questi nodi, in virtù di un cammino interiore, la riverberazione attraverso serie di individui, da tossica, diventa sempre più salutare. E questo sia a livello verticale che orizzontale: una prospettiva grandiosa di interconnessione e responsabilità comune. A me sembra che riflettere su questa ipotesi di grandiosa responsabilità possa essere un aiuto efficace per disincapsularci dalla visione di fissità egoica, alienata, separata, non interconnessa, nella quale è facile che noi viviamo. Levine presenta una concezione evolutivo provvidenziale del karma, dice: “Il karma non è una punizione, bensì un aspetto della natura misericordiosa dell’universo che ci offre gli insegnamenti che in passato abbiamo frainteso, per permetterci di apprendere dalle esperienze alle quali, in precedenza, non abbiamo prestato sufficiente attenzione” [xiii]. Ossia, tutto quello che non è risolto ritorna affinché noi, prima o poi, lo risolviamo. Allora, non so se possiamo leggere in questa chiave, che è evidente in altri sistemi soteriologici, la dottrina del buddhismo antico. Quello che mi sembra comunque rilevante è che questa modalità, del prendere tutto quello che ci capita come un invito a lavorare, è inevitabile per chi pratica. Ossia, prendere tutto quello che ci succede, tutto il nostro karma, come sfida, stimolo, insegnamento, tutto quello che ci arriva come invito a crescere. Tutto, bene e male, come fermento di bene. Se abbiamo una pratica interiore, meditazione, preghiera, tutto quello che ci succede diventa un richiamo all’esercizio della consapevolezza, della comprensione, della compassione. Allora, quando questo comincia a succedere, comincia a finire quella scissione, quella separazione dolorosa tra il piacevole, a cui siamo avidamente attaccati, di tutti i tipi, mentale, sensoriale, e la fuga senza fine dallo spiacevole, perché tutto quello che accade è fermento di pratica. E, piano piano, il baricentro dei valori si sposta, dai contenuti, dagli oggetti, dalle esperienze, dall’esterno, all’interno. Cioè il valore per eccellenza diventa questa capacità di aprirsi che significa consapevolezza, comprensione, compassione. Tutto quello che accade è combustibile per questo fuoco, e allora siamo sempre meno interessati al combustibile e siamo sempre più interessati al fuoco, che è alimentabile da tutto quello che ci succede. Se la compassione, la comprensione, ci unifica dentro, ci unifica altrettanto con l’esterno, inducendoci a vedere sempre meno la differenza fra la sofferenza nostra e la sofferenza altrui. Questo progressivo diminuire della differenza tra la sofferenza propria e quella altrui significa il fiorire della compassione. Oggi, in Occidente, chi segue un cammino spirituale, che provenga da vicino o che sia venuto da lontano, sempre meno tende ad appoggiarsi a credenze, a dottrine, concetti, per cui, nel caso per esempio della morte, si ricorre non tanto a dottrine quanto alla categoria del mistero. A me sembra che ci siano due modi di metterci davanti al mistero: uno è un onesto non so; ma, se consideriamo quello che mi sembra più specifico dell’approccio spirituale allora, oltre al non so, c’è qualche altra cosa, e questa altra cosa io lo chiamerei il fattore F, cioè fede-fiducia, distinto da fede-credenza. Perché questa fiducia? Se io perseguo un cammino di purificazione mentale buddhista o non-buddhista, a un certo momento comincio a vedere, con sorpresa e con interesse, che la mia capacità di fiducia diventa più calda e più spaziosa. Questo ha a che vedere con la scoperta e l’applicazione feconda dell’attenzione, della consapevolezza, che non è un contenuto mentale, ma qualcosa che è capace di vedere i contenuti mentali come uno specchio terso. In pratica, col tempo e col lavoro interiore, noi sempre di più ci troviamo davanti ‘qualcosa’, la consapevolezza, che da un lato ora c’è ora non c’è come qualsiasi altro contenuto mentale. Ma, dall’altro, in radicale diversità dagli altri contenuti mentali, la consapevolezza si rivela come qualcosa di assolutamente uguale, assolutamente terso, assolutamente aperto. Sono proprio queste caratteristiche a darci un senso di sconfinatezza che genera fiducia. Una pratica di consapevolezza, prima o poi, deve far sorgere nella persona la fiducia nella consapevolezza. Ma la fiducia nella consapevolezza non è la fiducia in questo o in quello, è una fiducia più vasta, come più vasta è la consapevolezza. Naturalmente, nel momento in cui riprendono il sopravvento i nostri modi, noi avremo soltanto paura della morte, laddove, nell’attimo in cui è presente la consapevolezza, con questo suo sentore di sconfinatezza, noi avremo meno paura della morte, anzi potremo perfino avere fiducia nella morte. Perché no? Che ne sappiamo? E ci accorgeremo che l’idea di amicizia per la morte è una vera possibilità. Vorrei finire con le parole di Marie de Hennezel, che si occupa di assistenza ai malati terminali: “Questa impotenza, ossia la situazione di una casa per l’assistenza ai malati terminali, accettata ancora una volta, è la nostra forza, lo sappiamo. Cioè continuare a fare il possibile in un contesto di impotenza generale ha paradossalmente un impatto dirompente” [xiv]. E le persone che vanno in questa casa lo sentono e sono enormemente aiutate nel trapasso. E questo impatto dirompente si chiama fiducia, si chiama amore. La stessa de Hennezel racconta di una persona che le dice: “Ho paura di morire, non so come si muore, ti prego aiutami”. “Sul momento rimango interdetta, neanch’io so come si muore, però rispondo: ‘Credo che sia più facile di quello che ci si immagina. Sembra in realtà che sia molto semplice, forse c’è qualcosa in noi che sa'” [xv].
[i] RODNEY SMITH, Lessons from the Dying, Wisdom Publications, Boston 1998, pp. 32-33. [ii] VIMALA THAKAR, Life as Yoga, Delhi 1977, p. 82. [iii] Cit. in V. F. GUNARATNA, Buddhist Reflections on Death, Buddhist Publication Society, Kandy, Sry Lanka 1966, pp. 37-40. [iv] LEVINE, op. cit., p. 44. [v] Cfr. KRISHNAMURTI, On Living and Dying, Harper, San Francisco 1992, passim e in particolare pp. 6-7, 12 (trad. it. Sul vivere e morire, Roma, Ubaldini Editore). [vi] Samyutta-Nikaya, III, 25. [vii] Cfr. per esempio Anguttara Nikaya, V, 57. [viii] Majjhima Nikaya, 143. [ix] Anguttara Nikaya, VI, 16. [x] LEVINE, op. cit., p. 302. [xi] Ivi, p. 51. [xii] Ivi, p. 54. [xiii] Ivi, p. 213. [xiv] MARIE DE HENNEZEL, La morte amica, Rizzoli, Milano 1997, p. 107. [xv] Ivi, p. http://xoomer.virgilio.it/karuna/cp-insegnamento-morte.htm 109.