Il Commentario
Ora iniziamo la spiegazione del testo Conversazione fra l’Amore e la Collera.
Ho composto questo scritto nel 1987, mentre stavo facendo il ritiro del mandala del corpo di Chakrasamvara. Un mattino, prima della conclusione della sessione di meditazione, mi sono venuti alla mente questi versi che poi ho trascritto.
“Collera, tu fai perdere la felicità e la gioia a tutti gli esseri migratori,
ti insinui nella mente di tutti gli esseri viventi
separando gli amici e allontanando ulteriormente chi è già in disarmonia.
Se non ti contieni,
io, Amore, ti getterò nella bocca della Pazienza!”.
La Collera
Che cos’è la collera? È un’attitudine mentale di ostilità verso gli altri ed è estremamente nociva. Possiamo osservarla facilmente nella nostra esperienza quotidiana: quando ci arrabbiamo perdiamo la felicità, la nostra pace mentale è completamente distrutta. È un’esperienza che conosciamo bene, sappiamo quanto sia spiacevole. La mente di chiunque provi rabbia è pervasa dall’infelicità e, non solo la mente, ma anche il corpo viene sconvolto.
Chandrakirti, nel Supplemento alla ‘Via di mezzo’, afferma: ‘[La collera] crea un aspetto terrifico e conduce a ciò che non è santo’ (stz. 3.7a). Qui per ‘santo’ si intende l’impegnarsi in azioni virtuose e il distogliersi da quelle negative. La collera distrugge la raccolta di virtù accumulate in numerosi eoni. Sempre nello stesso testo, Chandrakirti afferma:
‘Un momento di odio verso un figlio dei Conquistatori
distrugge le virtù derivanti dalla generosità e dalla moralità accumulate nel
corso di cento eoni’ (stz. 3.6abc).
Occorre cercare di comprendere gli svantaggi che essa comporta. Prendiamo in esame una famiglia o una coppia. Varie sono le cause che possono creare disarmonia, ma quelle principali sono di sicuro la collera e l’impazienza. Mostrandosi sempre irritati con chi ci è vicino, gli si fa perdere la pazienza e sorgere l’ira. Quando proviamo collera, l’avvertiamo al cuore, al centro del petto, e dalla bocca fuoriescono insulti, parole sgradevoli, cattive, che feriscono ulteriormente. A volte si può arrivare addirittura a colpire fisicamente, a uccidere, a togliere la vita a qualcuno: la causa principale è proprio la collera. Quando siamo dominati dalla rabbia perdiamo il controllo della nostra mente e compiamo azioni dannose.
Inoltre, se analizziamo i rapporti conflittuali, vediamo che l’ira peggiora ulteriormente la situazione, provocando vari tipi di azioni dannose, per esempio verbali.
Comportandoci così non riusciamo più a comprenderci l’un l’altro, ci allontaniamo ulteriormente finché non vogliamo nemmeno più vederci. La causa di tutto questo è, ancora una volta, la collera. Dobbiamo riconoscere profondamente come la collera sia la peggiore e la più distruttiva delle afflizioni; essa provoca non solo un aspetto ripugnante, ma ci getta anche in rinascite sfortunate.
Nello stesso momento in cui ci arrabbiamo, avviene un cambiamento visibile: prima il nostro aspetto era gradevole, sorridente, gentile, carino, eravamo apprezzati dagli altri, le persone vedevano con piacere il nostro volto; ora, appena sorge l’ira, assumiamo un’espressione molto sgradevole, il nostro viso avvampa, il corpo trema e gli occhi sembrano roteare. La collera altera immediatamente il nostro aspetto e chi ci è vicino prova disagio, preferirebbe voltarsi e distogliere lo sguardo. Riflettiamo attentamente, è proprio così, la collera provoca queste reazioni rendendoci immediatamente brutti, e solo quando torniamo tranquilli il nostro volto assume nuovamente il suo aspetto naturale. Essa crea disarmonia e separa anche amici molto intimi, distrugge sia il nostro benessere sia quello di coloro che sono vicini a noi. Facendo queste considerazioni, capiamo quanto la collera sia davvero dannosa; per tale ragione dobbiamo sviluppare pazienza e amore affettuoso. Chi lo desidera può trovare ulteriori spunti leggendo il testo di Shantideva, Una guida allo stile di vita del bodhisattva (Bodhisattvacharyavatara) https://www.sangye.it/altro/?cat=15 , e sforzarsi di comprendere sempre più in profondità gli svantaggi della collera e di apprezzare invece maggiormente i vantaggi del coltivare la pazienza.
Ho scritto questi versi sperando di facilitare la comprensione di quanto sia dannosa la collera. A volte penso che sarebbe interessante creare rappresentazioni teatrali con personaggi che interpretino l’attaccamento, la collera, l’ignoranza e i fattori mentali virtuosi quali l’amore, la fede e la perseveranza entusiastica. Sarebbe utile non limitarsi a descriverli verbalmente; credo che, facendone delle rappresentazioni teatrali, la comprensione di questi argomenti risulterebbe facilitata.
La pazienza come antidoto alla collera
Nel testo, l’amore si rivolge alla collera dicendole
‘Ti getto nella bocca della pazienza’,
e questo perché la pazienza ne è l’antidoto. Pazienza significa ‘mente indisturbata’ mentre collera significa ‘mente disturbata’. Si tratta di stati mentali opposti. Per pazienza si intende una mente capace di rimanere rilassata, a proprio agio, anche quando si viene maltrattati o aggrediti verbalmente e/o fisicamente.
Se veniamo colpiti fisicamente proveremo dolore ma, se reagiamo pazientemente, il dolore scomparirà poco a poco. Quando invece siamo aggrediti verbalmente, possiamo pensare che queste parole sono solo un’eco. Così facendo avremo una mente molto più calma e le cose andranno meglio. All’inizio non sarà facile, occorre affinarsi nell’esercizio, come per la ginnastica fisica. Quando iniziamo a fare i primi esercizi il nostro corpo è rigido, ma poi, gradualmente, esso diventa più elastico e la rigidità scompare; il corpo sembra fatto di sola pelle e muscoli, diventiamo flessibili e leggeri come batuffoli di cotone. Se questo è vero per il corpo, ancora più facile sarà addestrarsi con la mente, che è immateriale.
Talvolta penso:
‘Oh, la mia mente è come un elefante impazzito, un disastro!
Come posso controllare un elefante divenuto folle?’,
ma poi penso ancora:
‘con un uncino e un laccio’.
Analogamente, la consapevolezza è come un uncino e l’introspezione come un laccio che permettono di controllare la nostra mente che è simile a un elefante impazzito.
La collera è molto dannosa, perché se permettiamo alla nostra mente di rimanerne pervasa non avremo pace. Quando siamo arrabbiati non riusciamo neanche a dormire. Essa ci toglie persino l’appetito, è una radice per la crescita di malattie. Talvolta può essere rivolta anche verso se stessi. Quando ero a Buxaduar, in India, mi capitò di vedere una donna indiana che, in preda alla rabbia, si strappava i capelli. La collera è la peggiore fra le afflizioni mentali, perciò dobbiamo utilizzare gli antidoti idonei a contrastarla.
Dobbiamo riflettere e comprendere che la nostra mente, a causa delle nostre afflizioni mentali, può essere molto più pericolosa e distruttiva di un elefante impazzito; per tale ragione è fondamentale arrivare ad averne il completo controllo. È possibile ottenere questo risultato solo tramite la pratica di un sentiero spirituale che preveda la preghiera, la richiesta di energia ispiratrice ai buddha, agli esseri realizzati, ai santi o a Dio. Per poter controllare i nostri stati mentali possiamo chiedere aiuto a qualunque essere, purché sia realizzato o santo. I beni materiali non sono in grado di portare la pace nella mente, risultato che possiamo ottenere solo attraverso la ricerca interiore e la pratica spirituale.
Meditare sulla pazienza è un’azione virtuosa molto potente. Se ne possono distinguere tre tipi:
• la pazienza di accettare le condizioni avverse, che incrementa la tolleranza;
• la pazienza di affrontare le difficoltà che si incontrano cercando di comprendere il Dharma;
• la pazienza di non reagire, non vendicandosi quando qualcuno ci danneggia.
Il primo tipo di pazienza
Arrabbiarsi di fronte alle difficoltà è inutile. Se stiamo vivendo una situazione problematica dovremmo trovare una soluzione ma, se non ci riusciamo, è inutile sviluppare infelicità e frustrazione. Dobbiamo riflettere sul fatto che viviamo nella condizione dell’esistenza ciclica. Se toccassimo il fuoco, la sofferenza dovuta al bruciarsi sarebbe immediata. Il solo toccarlo per qualche istante ci farebbe soffrire ma, sapendo che la sua natura è quella di bruciare, non proveremmo rabbia verso il fuoco e cercheremmo invece di evitarne il contatto. L’esistenza ciclica è paragonabile al fuoco; la nascita, per sua natura, comporta sofferenza. Il nostro corpo è la base per tutte le esperienze di sofferenza e di disagio della nostra vita quotidiana. Per tale ragione cerchiamo di abbandonare l’esistenza ciclica e di raggiungere, invece, la liberazione.
• L’impermanenza. Come possiamo ottenere la liberazione? Per liberarci dobbiamo comprendere la natura dei fenomeni. I fenomeni che svolgono una funzione hanno la natura dell’impermanenza, cambiano di momento in momento e sono temporanei. Dobbiamo cercare di comprendere profondamente la realtà dell’impermanenza. Quella grossolana è facilmente comprensibile. Per avere un esempio che riveli la natura impermanente dell’esistenza, basta pensare al crollo di una casa dovuto al terremoto, con tutti i danni conseguenti. Per avere una comprensione più profonda, dobbiamo prendere in considerazione l’impermanenza sottile, capire come i fenomeni mutino di istante in istante. Essi non permangono uguali a se stessi nemmeno per un momento, e questo vale anche per la nostra mente. Al mattino, per esempio, possiamo sentirci contenti, mentre al pomeriggio diventiamo tristi, per poi tornare ad essere rilassati alla sera. Ciò avviene normalmente. Il cambiamento si verifica in ogni istante e quindi anche i problemi e la sofferenza sono transitori, perciò possiamo risolverli attraverso cause e condizioni. Dobbiamo considerare che i fenomeni contaminati hanno la natura della sofferenza e comprendere l’aspetto grossolano e sottile di quest’ultima. Se non sperimentassimo la sofferenza, non sorgerebbe in noi il desiderio di liberarcene cercando di ottenere il nirvana e gli stati di liberazione. In questo senso dobbiamo quindi apprezzarne il valore.
Alcuni miei parenti in Tibet avevano una ricchezza tale da poterla sperperare.
Potendosi godere la vita, non avevano alcuna preoccupazione. Quando i genitori morirono, i figli continuarono a scialacquare il capitale ereditato ancora per un anno, poi tutto finì e non rimase più nulla. A quel punto i miei parenti cominciarono a cercarsi un lavoro senza peraltro riuscirci perché, non avendone mai avuta la necessità, non sapevano far nulla. Provarono a dedicarsi al commercio ma fallirono e si ritrovarono a vagabondare come mendicanti. Fermavano le persone supplicandole: “I nostri genitori sono morti, vi prego dateci qualcosa”. Per un periodo della loro vita erano stati ricchissimi, ma dopo la morte dei genitori diventarono poverissimi. Ciò che intendo sottolineare è che le esperienze di sofferenza ci spingono ad agire per trovare soluzioni. Secondo un proverbio tibetano ‘Se qualcuno ha assaggiato i sapori amari sa riconoscere quelli dolci, ma chi non ha mai assaggiato il sapore amaro non può apprezzare il dolce’. Da bambino, quando avevo circa otto anni, mia madre si lamentava spesso per il mal di denti. Io le chiedevo: “Mamma, com’è possibile che un osso ti faccia male?” pensando che stesse mentendo. Successivamente, quando ho avuto modo di provare il mal di denti, ho capito quanto possano far male! Se non abbiamo un’esperienza diretta di una cosa non la possiamo comprendere, mentre se la sperimentiamo sulla nostra pelle saremo stimolati a risolvere il problema e cercheremo un metodo per riuscirci.
Nell’Ornamento ai sutra mahayana, Maitreya afferma che, quando ci si ammala, è anzitutto necessario individuare la malattia tramite una corretta diagnosi, dopo di che cercare di eliminarne le cause. Per fare questo, dobbiamo affidarci a un medico e alle sue cure, così potremo guarire. Analogamente, dobbiamo comprendere che la sofferenza sorge da cause e condizioni, senza le quali essa non può sorgere; occorre quindi individuarle ed eliminarle. Le cause principali per cui soffriamo sono le nostre afflizioni mentali. Esse inducono azioni non virtuose, sia verbali sia fisiche, che portano a risultati di sofferenza. Per questa ragione dobbiamo impegnarci a ricercare dei metodi per eliminare le afflizioni mentali. Dovremmo cercare di opporci alla collera meditando sui suoi antidoti specifici, la pazienza e l’amore. Meditare significa familiarizzarsi con l’oggetto di meditazione. Meditare sulla compassione, sull’amore e sulla pazienza, vuol dire far sì che la nostra mente diventi della loro stessa natura; significa quindi cercare di mantenere mentalmente lo stato positivo che è l’oggetto della meditazione e, quando esso si dissolve, generarlo nuovamente.
• L’attaccamento. Anche il nostro attaccamento è fonte di numerosi problemi. Quando lo sperimentiamo per qualcuno o qualcosa che non riusciamo a ottenere, ci sentiamo infelici. Diventiamo ossessionati dall’immagine di quell’oggetto, non riusciamo neanche più a svolgere il nostro lavoro, commettiamo errori, non riusciamo a dormire, perdiamo perfino l’appetito. Ci sentiamo deboli e possiamo ammalarci.
Desideriamo la felicità e così cerchiamo diversi metodi per ottenerla, spesso però sbagliati. Possiamo usare delle droghe che temporaneamente ci offrono sollievo, che ci fanno sentire leggeri tanto da avere la sensazione di volare. Possiamo credere che tali esperienze siano positive, ma poi ci abituiamo all’uso di queste sostanze e nel tempo i nostri problemi aumentano; al posto della felicità sopraggiungono ulteriori complicazioni. Arriveremo a uno stato in cui ci sono tre tipi di problemi: fisico, mentale ed economico. Abbiamo cominciato con un problema e, per trovare sollievo, ne abbiamo creati tre. A causa dell’assuefazione a queste sostanze, che oltretutto sono costose, il problema economico diventa devastante: giungiamo addirittura a rubare e a uccidere, tutto ciò a causa dell’attaccamento alle sensazioni di piacere. Comprendendo quanto l’attaccamento sia causa di problemi, dovremmo impegnarci nel cercare di indebolirlo. Anziché utilizzare sostanze chimiche che possono concederci un conforto effimero, dovremmo impiegare dei metodi interiori, coltivare una mente stabile e sviluppare gli antidoti al nostro attaccamento. Un modo per ridimensionare l’attaccamento verso un oggetto che riteniamo particolarmente attraente, è quello di visualizzarlo in un aspetto ripugnante. Il trovarlo sgradevole allenta la morsa dell’attaccamento. Il corpo non è affatto puro, è una combinazione di trenta e più sostanze impure, tuttavia abbiamo un forte attaccamento a esso. Non possiamo vedere l’interno del corpo perché è rivestito dalla pelle, e guardandolo dall’esterno esso può apparire gradevole.
Voglio raccontarvi una storia che riguarda il Maestro indiano Aryadeva. Questi aveva riempito un vaso d’oro di feci e lo lavava esternamente. Qualcuno passando notò la scena e gli chiese: “Ma cosa stai facendo con quel vaso?”, “Lo sto lucidando” rispose tranquillo. “Cosa fai?!” chiese ancora l’altro incredulo, “Lo sto lucidando” rispose egli ancora una volta. Allora, ridendo, l’interlocutore di Aryadeva gli disse: “Ma è pieno di escrementi, perché lo pulisci esternamente? Perdi il tuo tempo!”. Aryadeva gli rispose: “Ah sì? Pensavo fosse una buona idea! Anche tu quando ti lavi nel Gange sostieni di esserti purificato, pensando che sia del tutto logico. Io faccio esattamente quello che fai tu”.Quindi arrivarono alla comune conclusione che il solo lavare qualcosa all’esterno non ne purifica l’interno. Lavando il corpo, la mente non si purifica.
Qualcuno potrebbe pensare che il corpo internamente sia pulito, ma non lo è affatto. L’interno del nostro corpo è simile a una fogna. Ci sono escrementi, urina, muco, saliva e altre sostanze di questa natura. Tutti noi siamo certi che la fogna sia un luogo sporco; anche il nostro corpo lo è. Se ci trovassimo di fronte un sacco di immondizia, vorremmo che venisse portato via subito. Anche dentro di noi c’è sporcizia, quindi perché dovremmo avere attaccamento al corpo? Anch’esso emana cattivi odori.
Queste riflessioni servono a diminuire il nostro attaccamento. Possiamo ritrovarle anche nel testo Una guida allo stile di vita del bodhisattva di Shantideva. Rendiamoci conto che soffriamo perché siamo nati nuovamente nell’esistenza ciclica, e che però possiamo trovare le soluzioni alla nostra sofferenza tramite l’applicazione dei giusti metodi.
Il secondo tipo di pazienza
Il secondo tipo di pazienza è in relazione alla pratica del Dharma. Affrontare le difficoltà dovute al cercare di comprendere il Dharma significa sforzarsi nel comprendere il significato della vacuità. Durante la nostra analisi sarà possibile incontrare delle difficoltà nella comprensione, rischiando di cadere nelle due visioni estreme di eternalismo e nichilismo. Facciamo un esempio. Se io vi chiedessi: “Questi occhiali esistono intrinsecamente, per natura propria?”, rispondendo “Sì” cadreste nella visione estrema dell’eternalismo; viceversa, rispondendo che essi non esistono affatto cadreste nell’estremo del nichilismo.
Avvicinandosi alla comprensione della vacuità si attraversano momenti di grande paura, dovuta al pensiero che tutto possa scomparire, anche noi stessi. In quei momenti dobbiamo impegnarci ancor più intensamente e arrivare così a realizzare la vacuità praticando la pazienza del Dharma.
• La vacuità. Cerchiamo di comprendere il significato di vacuità o mancanza di un sé. Vi è la mancanza di un sé della persona e dei fenomeni. Per arrivare a questa comprensione si utilizza la meditazione che li analizza entrambi. L’oggetto di negazione è l’esistenza a sé stante. Un io convenzionale esiste, infatti possiamo affermare ‘io mangio, io cammino, io lavoro’ e così via; convenzionalmente c’è un io che svolge queste azioni, ma a livello ultimo esso non esiste. Non c’è un io che sia intrinsecamente esistente, che esista in modo a sé stante. Questo io è l’oggetto da negare. Se l’io esistesse intrinsecamente, dovrebbe possedere determinate caratteristiche. Dobbiamo analizzare se è possibile trovarlo nei vari componenti della persona, negli elementi che la costituiscono. In effetti, sotto analisi, non troveremo alcun io. Analizzando il nostro corpo dalla cima della testa alla pianta dei piedi, quale parte può essere identificata come ‘io’? Dobbiamo indagare con attenzione. L’occhio è l’io? Passiamo alle orecchie, al cervello, alle braccia, alle gambe, a tutte le parti del corpo, a fegato, polmoni, reni, stomaco, cuore. Alla fine dell’analisi non riusciremo a trovare quell’io.
Questo corpo è un insieme di quattro elementi: terra, acqua, fuoco e aria. Analizziamo se l’io è l’elemento solido (terra): questo elemento è l’io? Quindi il fuoco: il calore è l’io? Poi l’acqua: la parte liquida del corpo è l’io? Analizziamo l’elemento aria: la leggerezza del corpo fisico è l’io? Quindi l’elemento spazio: lo spazio all’interno del nostro corpo è l’io? Ora cerchiamo nella coscienza, per esempio: la coscienza corporea è l’io? Le sensazioni, le discriminazioni, i fattori di composizione (come consapevolezza, introspezione, fede e così via) sono l’io? Le menti virtuose, non virtuose e neutrali sono l’io? Alla fine di questa ricerca analitica, non lo troveremo. La conclusione di questa analisi è proprio la scomparsa dell’io, che perciò risulta essere vuoto di esistenza intrinseca. Questa è la vacuità. Buddha disse che questo ‘non vedere’ è il vero vedere. Quando, dopo una simile ricerca analitica non si trova l’oggetto che cercavamo, significa che abbiamo trovato la vacuità. Questo è il miglior ritrovamento: abbiamo scoperto l’interdipendenza delle cose. Capiamo che tutti i fenomeni sono interconnessi, esistono in relazione l’uno all’altro. Quindi i fenomeni non hanno un’esistenza a sé stante. Dobbiamo meditare sul significato di vacuità della persona e dei fenomeni. Questo ci permetterà di superare l’ignoranza che si afferra al sé. Così facendo si realizza la pazienza del praticare il Dharma.
Il terzo tipo di pazienza
Il terzo tipo di pazienza è il non reagire a chi ci danneggia. Per esempio, se qualcuno ci percuote, per quanto dolore proviamo dovremmo comunque non reagire al danno. Se ci vendicassimo, il dolore che abbiamo ricevuto ritornerebbe forse a chi ce l’ha causato? Se così fosse sarebbe ragionevole reagire, ma non è proprio così, anzi, reagendo potremmo essere colpiti nuovamente e il nostro dolore aumenterebbe. È molto meglio non reagire e praticare la tolleranza. Questa è una forma di pazienza difficile da applicare, ma dovremmo provarci. Se qualcuno mostra ostilità nei nostri confronti ma noi riusciamo a rimanere tranquilli, ci comportiamo con buon cuore e calore umano, senza reagire negativamente, la collera di chi ci ha attaccato si ridurrà fino a scomparire e a quel punto quella persona proverà un sentimento di vergogna. Vediamo un esempio. Stiamo discutendo con altre persone di un certo problema e uno dei presenti si arrabbia cominciando a gridare e a usare un linguaggio aggressivo. Se reagiamo rispondendo con lo stesso tono, è come gettare della benzina sul fuoco che a quel punto divampa. L’arrabbiarsi è simile al divampare di un incendio. Dobbiamo invece cercare di reagire con delicatezza e gentilezza. Se gettiamo sabbia sul fuoco questo diminuirà, e usare la gentilezza ha proprio l’effetto di attenuare l’incendio della collera. Ho letto uno scritto di Nehru dedicato alla figlia Indira Gandhi. Egli le scriveva ogni giorno un consiglio. Questi furono raccolti successivamente in un libro e tradotti anche in tibetano. Uno di essi suggeriva: ‘Se un giorno entrerai in politica e avrai degli scontri, delle discussioni, cerca di non rispondere, sii delicata e morbida. Non è utile discutere nei momenti di irritazione. Cerca invece di interrompere gradevolmente la discussione e di riprenderla in seguito, solo quando l’altro si sarà calmato; in questo modo potrai portare avanti l’incontro in modo significativo e trovare un accordo’.
Quando qualcuno è arrabbiato, è difficile riuscire a trovare un punto d’incontro. Questo vale anche nel rapporto di coppia. Se uno si arrabbia e l’altro cerca di rimanere gentile, di mantenere l’affetto, il primo dopo un po’ si calmerà, e si creerà una situazione migliore per proseguire nel dialogo. In famiglia occorre esseri liberi di poter esprimere i propri desideri. Per esempio, se uno dei due desidera andare in discoteca e l’altro invece vuole andare a dormire, possono discuterne ma alla fine decidere: “Va bene, oggi andiamo in discoteca a divertirci insieme e domani rimaniamo a dormire tranquilli”. Parlando, si decide insieme in modo da soddisfare i desideri di entrambi. Se invece ciascuno si irrigidisce sulle proprie posizioni, non si otterrà nulla. In tibetano si dice ‘Quando due montoni si scontrano, si colpiscono fino a morire’. Per anni ho portato al pascolo gli animali in Tibet e so bene come si comportano. Una volta ho visto un montone con la testa spaccata e il cervello che ne fuoriusciva. Non dovremmo agire come loro, fare come i montoni è molto pericoloso! Combattersi l’un l’altro non è una soluzione vantaggiosa, sarebbe utile piuttosto praticare la pazienza di non reagire verso chi ci danneggia, anche se costui ci colpisse in testa con un bastone. Analizziamo questo esempio: quando veniamo colpiti, andiamo in collera con la persona e sicuramente non con il bastone; infatti il bastone non ci è venuto in testa da solo ma è stato manovrato dalla persona. Seguendo questo ragionamento, non dovremmo dunque arrabbiarci nemmeno con la persona che ci ha aggredito, in quanto essa stessa è a sua volta manovrata dalla collera. Se vogliamo proprio arrabbiarci e combattere, facciamolo verso questa nostra afflizione mentale!
Dobbiamo impegnarci per eliminare la collera e le altre afflizioni che sono dentro di noi, in questo modo sconfiggeremo anche tutti i nemici esterni. Sottomettendo
l’ira otterremo uno stato di calma e tutte le persone ci appariranno amiche o quantomeno indifferenti. Quando consideriamo qualcuno come nostro nemico, desideriamo danneggiarlo, quindi cercheremo il modo di agire contro di lui.Talvolta si può arrivare anche ad uccidere ma, così facendo, anziché eliminare un nemico otterremo come risultato che i nemici si moltiplicheranno. Infatti, anche i suoi amici e parenti reagiranno contro di noi, diventando a loro volta ostili nei nostri confronti. Agendo in questo modo, la lotta per distruggere il nemico esterno non avrà mai fine. Dovremmo cercare di stabilire un rapporto armonioso con tutti, questo è il metodo per eliminare ogni nemico. Comportandoci così, nessuno desidererà farci del male. Cerchiamo sinceramente di trasmettere amore.Questo è il vero e proprio antidoto alla collera. Applichiamoci allo sviluppo di questa mente, non c’è alcuna necessità di farsi la guerra o vendicarsi.
Nel Supplemento alla ‘Via di mezzo’, Chandrakirti menziona tre tipi di pazienza ed essa viene spiegata anche nel sesto capitolo del testo Una guida allo stile di vita del bodhisattva https://www.sangye.it/altro/?cat=15. Il venerabile Ghesce Yesce Tobden, un autentico meditatore, ha commentato questo capitolo insegnandoci dettagliatamente come meditare sulla pazienza. Sull’argomento vi è anche un libro di Sua Santità il Dalai Lama, L’arte di essere pazienti. Sua Santità è veramente un esperto sull’argomento. La rabbia può mettere in pericolo la nostra stessa vita. Quando ero in India seppi di un indiano che svolgeva l’attività di idraulico. Era un uomo molto arrogante. Una sera arrivò a casa molto tardi. Era ubriaco. La moglie abitualmente gli faceva trovare il pasto pronto e quella sera, appena rincasò, le chiese dove fosse la sua cena. La risposta fu: “Eccola”, ma l’uomo andò su tutte le furie perché il cibo era freddo. La moglie si scusò dicendogli: “Non ho potuto tenerlo sul fuoco fino ad ora perché avrei finito per bruciarlo!” e provò un profondo sentimento di rabbia. Allora si rivolse al marito dicendogli: “Tu mangia pure, io vado a dormire”. Invece andò in cucina, si cosparse d’olio il sari e si diede fuoco. Il tessuto era sintetico, cosicché si incollò alla pelle e la donna morì. Il marito si accorse che la donna si era data fuoco mentre lui stava cenando, pianse ma ormai era troppo tardi. Non c’erano medici nelle vicinanze e non poté fare nulla. La collera può farci diventare autolesionisti e portarci alla morte; essendo molto pericolosa, dobbiamo cercare di svilupparne gli antidoti: la pazienza, la compassione e l’amore. Non permettiamo che la pazienza resti solo una parola sulle labbra ma cerchiamo di sentirla profondamente nel cuore.
Seconda parte degli insegnamenti dati dal ven. Ghesce Ciampa Ghiatso presso l’Istituto Lama Tzong Khapa nel ottobre 1997. Traduzione dall’inglese di Annamaria De Pretis. Trascrizione di Ivan Zerlotti, Revisione di Nella. Montanini, Francesco La Rocca, Annalisa Lirussi. Da http://www.jtkedizioni.org/pdf/PT_0010-004.pdf che si ringrazia.