Ven. Lama Thubten Zopa Rinpoche

Ven. Lama Thubten Zopa Rinpoche

Ven. Lama Thubten Zopa Rinpoche

Direttore spirituale della FPMT, è la reincarnazione di Kunsang Yesce, uno yoghi sherpa della scuola Nyngmapa: il lama di Lawudo.
Rinpoce nacque nel 1946 a Thami in Nepal, in una zona dell’Everest non lontana dalla grotta di Lawudo, dove il suo predecessore aveva meditato negli ultimi vent’anni della sua vita. Discepolo di Lama Yeshe e ora tutore di Lama Osel, Lama Zopa Rinpoche è il Direttore spirituale e l’instancabile guida di tutti i centri Fpmt. Lama Zopa viaggia in continuazione per i Centri, insegnando e guidando migliaia di studenti. Rinpoche è noto come un perfetto esempio degli insegnamenti che offre e mostra tutte le qualità di un bodhisattva nel suo instancabile e compassionevole lavoro per gli altri. Di tanto in tanto, dando insegnamenti nei vari centri intorno al mondo, Rinpoce si è soffermato a raccontare storie e aneddoti della sua infanzia a Thami, in Tibet dove andò all’età di 10 anni, e in India dove incontrò per la prima volta Lama Thubten Yesce, e con cui restò come discepolo principale finché Lama non lasciò il corpo, nel 1984.

Lama Zopa racconta la sua infanzia

Non ricordo l’aspetto di mio padre, penso che morì quando mia madre aspettava mio fratello Sanghie e io ero ancora molto piccolo. La gente diceva che aveva la barba e che non parlava molto; lo descrivevano come una persona pacifica e non facilmente irritabile. Non so se sia mai stato monaco, però mi dissero che era molto bravo a leggere le scritture e a fare le puje per gli altri. Poco prima di morire mio padre si ammalò. Un giorno mia madre, al ritorno dal lavoro nei campi, lo trovò in silenzio seduto vicino al fuoco; avvicinandosi, gli chiese se avesse bisogno di qualcosa, ma lui non rispose.

Il suo corpo era dritto, forse era in meditazione, ma penso che mia madre non lo capì. Uscì per consigliarsi con alcuni amici, ma anche loro non sapevano cosa fare. Avrebbe dovuto chiedere a un Lama, ma la sua comprensione era molto limitata. I suoi amici probabilmente pensarono che fosse morto, per cui le dissero di trasportare il corpo fuori di casa e bruciarlo.Mia madre non andò alla cremazione – forse perché non era un’usanza sherpa. E’ possibile che mio padre al momento della cremazione non fosse ancora morto, ovvero che la sua mente non si fosse ancora separata dal corpo. Le persone che assistettero alla cremazione dissero a mia madre che mio padre appariva così vivo da non sembrare per niente morto. Tutto ciò che ricordo di mio padre erano i vestiti che lasciò in casa. Quando eravamo ancora molto piccoli, la notte dormivo con mia sorella e mio fratello sotto la “chuba” di mio padre, che era foderata di pelo. Ogni tanto ci dicevamo “Questa apparteneva a nostro padre.”
Quando mio padre era ancora vivo, la nostra famiglia viveva in condizioni migliori di molte altre della zona. Avevamo qualche possedimento anche se, per lo standard di vita occidentale, molto probabilmente eravamo ricchi di spazzatura. Quando mio padre morì, poiché mia madre era piena di debiti, i nostri possedimenti furono portati via con la forza. Lei aveva avuto delle grandi difficoltà, specialmente dopo la mia nascita, poiché molti dei nostri animali – pecore, capre e dri (femmine di yak) – morirono.Mia madre doveva occuparsi di tutto del lavoro nei campi, andare a far la legna nei boschi, perciò trascorreva molte ore fuori casa. Soltanto mia sorella la poteva aiutare, mentre io e mio fratello trascorrevamo tutto il giorno a giocare nei prati con pezzi di legno e sassi, finché mia madre non ci chiamava a piena voce per avvertirci che il pranzo era pronto.
Quando ero ancora piccolo il mio migliore amico era un bambino che non poteva parlare. Giocavamo insieme tutti i giorni. Ci piaceva fare dei giochi che simulassero rituali. Vicino alla nostra casa c’era una roccia molto grande con dei mantra scolpiti. Mi sedevo in alto su questa roccia e fingevo di dare iniziazioni, mentre gli altri bambini cercavano di riceverle. Non conoscevo le preghiere, per cui pronunciavo dei suoni pretendendo di stare pregando. (Effettivamente, penso che ancora adesso sto giocando allo stesso modo). Fingevamo anche di fare le puje. Alcuni ragazzini imitavano il suono dei cimbali, mentre altri facevano i benefattori. Mischiavamo la terra con l’acqua sopra piccole pietre che i “benefattori” servivano agli altri ragazzini come cibo.

L’ingresso nel monastero

Poiché c’erano delle voci riguardo le mie vite passate e avevo fin da piccolo un forte desiderio di diventare monaco, all’età di tre o quattro anni mia madre mi affidò ad uno dei miei zii, un monaco che viveva nel monastero locale di Thami, affinché potessi imparare l’alfabeto. Ricordo che vi fui portato sulle spalle di qualcuno. Ero veramente birichino, volevo soltanto giocare e non stare al monastero.
Mio zio mi insegnava l’alfabeto all’aperto, in cortile sotto al sole, e quando lui rientrava per cucinare coglievo l’occasione per correre a casa da mia madre, che era

vicina al monastero. Ero molto piccolo e solo. Come la maggior parte dei bambini delle montagne non camminavo lentamente, ma correvo a casa come l’acqua delle cascate, senza fermarmi a riposare lungo il percorso. Al mio arrivo mia madre mi sgridava, rispedendomi al monastero. Sono scappato parecchie volte. Poiché scappavo spesso, mia madre decise di affidarmi ad un altro zio nel monastero di Rolwaling, in una zona molto più desolata di Solu Khumbo. Fui portato là seduto sopra ai bagagli. Là non c’era alcuna possibilità che io potessi scappare a casa, perché era un percorso molto difficile che richiedeva due giorni di cammino e si dovevano attraversare montagne innevate con passaggi molto ripidi e pericolosi. E’ successo più volte che, attraversando i pendii e le scarpate innevate di quel percorso, le persone venissero travolte dalle valanghe, scomparendo completamente.

Una volta, quando ero già in grado di scrivere (non avevamo penne, ma scrivevamo sulla carta con pezzi di carbone) scrissi a mia madre di nascosto a mio zio. Avevo una mente tortuosa e siccome volevo andare a casa, nella lettera chiedevo a mia madre di scrivere allo zio dicendo che dovevo assolutamente tornare a casa. Diedi la lettera a qualcuno che stava andando a Thami, ma successe una cosa abbastanza buffa: quando il messaggero arrivò da mia madre non trovò più la lettera che aveva tenuto negli stivali di pelle, molto probabilmente gli era caduta quando si era fermato lungo la via per scrollare la neve dagli stivali.

Per tre o quattro volte feci il viaggio tra Thami e Rolwaling con mio zio insegnante. Lui mi portava in spalla e mi dava da mangiare il cibo che aveva preparato prima di partire. Mentre camminavamo, mi passava dietro carne cotta e altre cose. Soltanto una volta ci fu una valanga, molto piccola, che sparpagliò tutti i nostri bagagli. Le persone scivolarono giù per la scarpata, ma non erano preoccupate. Mentre raccoglievano le loro cose cantavano.

Il tragitto era veramente molto pericoloso, con cascate d’acqua e rocce grandi e piccole che cadevano costantemente. Le rocce grandi cadendo facevano wooroodoo! e le piccole cadevano col suono tiiing! C’erano moltissimi e diversi rumori. Era terrificante. Non so perché, ma ogni volta che dovevamo attraversare quel punto ci fermavamo e ognuno di noi beveva un po’ di alcool, quello più forte, fatto dalle patate. Gli sherpa sanno preparare tredici diversi tipi di cibo con le patate, che è il loro principale alimento, e una delle cose che fanno è un tipo di alcool molto forte.

In Solu Khumbu le persone sono abituate a bere alcool, compresi molti monaci, anche se alcuni non lo fanno. Così tutti bevevano un po’ d’alcool e poi cercavano di scaldarsi sfregandosi le mani. Erano capaci di trasportare sulle spalle pesi enormi, generalmente due o tre scatoloni di burro, cibo, coperte e materiale da vendere. Attraversavano la zona con la speranza che tutto andasse bene e si arrampicavano fra l’acqua e le rocce fino alla cima. Andammo avanti e indietro varie volte e fortunatamente mentre attraversavamo quei punti difficili nessuna roccia è mai caduta. Comunque ogni volta che ci fermavamo a riposare e mangiare dopo aver raggiunto la cima del passo, nell’altro versante le rocce cadevano:
wooroodoo! Molte volte ho pensato “Oh, qualcuno sicuramente verrà ucciso!” Ma ogni volta le rocce cominciavano a rotolare immediatamente dopo che l’ultima persona era passata. Per tutta la durata dell’attraversamento ognuno recitava i mantra che conosceva. La principale tradizione in Solu Khumbu è quella nyngmapa, così la maggior parte delle persone si concentravano recitando il mantra di Guru Padmasambava. Non ricordo cosa facessi in quei momenti, se recitassi o meno i mantra, ma ricordo che venivo portato in spalle da mio zio. Naturalmente appena si raggiungeva il punto in cui il pericolo finiva, si interrompevano immediatamente tutte le preghiere. Ho vissuto a Rolwaling per sette anni. La valle di Rolwaling è attraversata da un fiume ed è circondata da alte montagne. Su un lato del fiume c’era il monastero. Il gompa era circondato da case dove vivevano i praticanti, sia monaci che laici, e mio zio viveva con un monaco e un altro lama sposato. Su una parte di terreno pianeggiante si ergeva uno stupa, con una strada che vi passava vicino. Sull’altra sponda del fiume vi era uno spazio erboso molto bello, dove spesso si fermavano con le loro tende gli occidentali che facevano trekking.

Durante l’estate e l’autunno Rolwaling era visitato saltuariamente da turisti. I portatori sherpa li conducevano lì e alcune volte li portavano anche a casa del mio maestro; altre volte eravamo noi ad andare a guardare i turisti nelle loro tende. Una o due volte anch’io sono andato a vederli. Il ponte che attraversava il fiume per arrivare in quel particolare punto era costruito molto semplicemente, con due o tre tronchi d’albero legati insieme. Per attraversare il fiume si doveva camminare in equilibrio su questi tronchi, che erano non tanto larghi e abbastanza instabili.

Un giorno volli portare delle patate a certi occidentali che si erano fermati a campeggiare, non ricordo chi fossero. Il mio maestro mi disse di non andare, ma credo di aver insistito parecchio. Non so bene perché, ma avevo il forte desiderio di portare le patate agli occidentali. Così il mio maestro mi mise qualche patata in un contenitore di ottone, che veniva usato generalmente per mangiare il riso o per bere chang, la birra locale. Mi avviai da solo e arrivai fino al ponte. Il fiume era abbastanza largo e quando mi trovai a metà del ponte, ebbi l’impressione che il ponte scricchiolasse, persi l’equilibrio e caddi nel fiume. La testa andava su e giù. Secondo quanto mi disse il mio maestro all’inizio ero rivolto verso il fiume in alto, poi verso il basso. Fui trasportato dalla corrente e di tanto in tanto la mia testa emergeva. Il pericolo aumentava sempre più, perché mi stavo avvicinando al punto in cui il fiume era molto profondo. In un momento in cui la mia testa era affiorata alla superficie, ricordo di aver visto il mio maestro che correva verso il fiume, dal monastero che era abbastanza lontano. Vi era una parte di terreno pianeggiante e una montagna dove sorgeva il monastero. Vidi il mio maestro che correva scendendo dalla montagna verso il pianoro, tenendo i pantaloni sollevati.

In quel momento mi venne il pensiero: “Ora ciò che le persone chiamano il Lama di Lawudo sta per morire. Sta per giungere alla fine.” Non avevo molta comprensione del Dharma e non avevo alcuna idea riguardo la vacuità, mi venne semplicemente questo pensiero. Non avevo paura. Se la morte venisse adesso avrei difficoltà, ma a quel tempo ero perfettamente tranquillo. Non c’era assolutamente paura, soltanto il pensiero “Ciò che le persone chiamano il Lama di Lawudo sta per morire”. Stavo per raggiungere il punto in cui l’acqua era molto profonda e dove sarebbe stato molto difficile recuperarmi, quando il mio maestro riuscì finalmente ad acchiapparmi e a tirarmi fuori. Ero bagnato fradicio! Non sono sicuro, ma credo che mi disse: “Ti avevo detto di non andare.” Penso che il.fatto di essere caduto nell’acqua perdendo tutto, ciotola e patate, fosse il risultato negativo immediato di non aver seguito le sue indicazioni. Successivamente qualcuno mi disse che uno degli occidentali assisteva alla scena scattando fotografie, mentre venivo trasportato dalla corrente.
Rimasi a Rolwaling per sette anni, memorizzando le preghiere e leggendo i testi, compreso le centinaia di volumi degli insegnamenti di Buddha,
il Kangyur, e i commentari dei Pandit indiani, il Tengyur. I laici ci chiedevano di recitarli
come fossero puje, per cui il mio maestro leggeva tutto il giorno. Non so quanto tempo occorresse per leggerli tutti, probabilmente molti mesi. Ogni tanto uscivo per andare alla toilette e stavo fuori parecchio tempo, molto più del necessario. Non rientravo velocemente a proseguire la lettura.

In Tibet

Avevo circa dieci anni quando andai in Tibet con i miei due zii. La ragione del nostro viaggio era di andare in visita da un altro zio che viveva a Pagri, uno dei maggiori centri commerciali. Prima camminammo da Rolwaling fino a Thami, poi da lì proseguimmo per il monastero di Tashi Lunpo e quindi giungemmo a Pagri.
Mi sembra che il nostro viaggio durasse circa sei mesi, durante i quali camminammo tutti i giorni. Siccome ero abbastanza piccolo, non dovevo portare nulla: portava tutto mio zio.

Trascorsi sette giorni a Tashi Lunpo, il monastero del Pancen Lama, ma dal momento che avevo lasciato Solu Khumbu, la mia intenzione era quella di proseguire i miei studi a Mindoling il più grande monastero nyngmapa del Tibet, dato che tutti i monasteri sherpa erano Nyngmapa. I miei progetti erano quelli di andare lì per studiare e praticare.

C’erano moltissimi altri monasteri lungo il nostro tragitto, ma nonostante ciò non avevo particolari desideri di fermarmi. In precedenza, quando avevo circa sette/otto anni, avevo letto tre o quattro volte la storia della vita di Milarepa, principalmente per fare esercizio di lettura della lingua tibetana. A quel tempo avevo le idee molto chiare riguardo al mio futuro: desideravo essere un buon praticante e trovare un guru infallibile come Marpa, esattamente come lo aveva trovato Milarepa.

A Tashi Lunpo incontrai Gyaltsen, un monaco sherpa che era come un dop dop [un monaco un po’ stravagante]. Aveva uno shamdab nero completamente coperto di burro e teneva una lunga chiave sempre con sé. Non sembrava che dedicasse molto tempo né allo studio, né alle puje, ma andava continuamente avanti e indietro tra il monastero e la città. Io stavo con i miei due zii ed uno sherpa. Non andavamo alle puje, però ci mettevamo comunque in fila per ricevere i soldi appena terminavano… molto probabilmente eravamo stati istruiti e guidati da Gyaltsen.

Proprio l’ultima sera prima della nostra partenza Gyaltsen insistette affinché rimanessi, diventando suo discepolo. Credo di non aver dormito per tutta la notte pensando a come uscire da quella situazione, poiché entrambi i miei zii avevano acconsentito. Non avevo il minimo desiderio di diventare suo discepolo. Non vedevo alcuna scappatoia o via d’uscita su ciò che avrei potuto fare il giorno successivo. Fortunatamente il mattino dopo i miei zii decisero che sarei andato con loro a Pagri.

I miei due zii, lo zio che abitava a Pagri e una loro parente, che era una monaca, andarono tutti a Lhasa a visitare i monasteri e fare offerte. Mentre loro erano in pellegrinaggio, io rimasi a Pagri senza far nulla di particolare. Indossavo una vecchia “chuba” rossa e un vecchio cappello. Avevo in qualche modo il karma di diventare monaco perché un giorno, fuori dalla casa di mio zio, incontrai un monaco molto alto, che era amministratore di uno dei monasteri di Domo Ghesce. Probabilmente per qualche tipo di karma passato, appena mi vide mi chiese: “Vuoi diventare mio discepolo?” e io risposi:”Si, va bene.” e quindi gli chiesi: “Puoi essere come Marpa?” e lui mi rispose affermativamente.

Poiché i miei zii erano via, lui parlò con la moglie di mio zio, che accettò la proposta. Il giorno successivo lei preparò un thermos di tè, riempì di pezzi di pane rotondo un contenitore bhutanese fatto di legno di bambù (lei faceva un pane tibetano molto buono, farcito con molto burro) e mi condusse al monastero dove viveva l’amministratore, proprio a pochi minuti di strada da dove vivevamo. All’inizio quel monaco non sapeva che ero ritenuto un “reincarnato”, ma in qualche modo ne venne a conoscenza. Per averne la certezza fece le divinazioni, consultando un oracolo. L’oracolo invocò il principale protettore del monastero e l’amministratore gli chiese se la storia fosse vera. Ricordo molto chiaramente che la risposta affermativa dell’oracolo arrivò in modo molto potente.

Quando i miei zii tornarono da Lhasa volevano che tornassi con loro a Solu Khumbu. Dissi loro che non volevo tornare. Il mio secondo zio, quello col quale avevo trascorso sette anni, fu molto gentile, anche se in quel particolare frangente non riconobbi la sua gentilezza: mi picchiò. Poiché mi opponevo all’idea di tornare, l’altro mio zio – quello che viveva in Tibet e che faceva il commerciante – tirò fuori un set completo di vestiti monastici di broccato, nuovi, con cavalli che li decoravano e così via, li ammucchiò di fronte a me e disse: “Se torni a Solu Khumbu ti regalo tutte queste cose, altrimenti non avrai niente.” In quel momento non ero molto interessato a quei regali. Non ricordo di aver avuto una particolare attrazione per le cose che mi avrebbe dato se avessi accettato di tornare a Solu Khumbu.

Poiché rifiutavo l’idea di tornare a Solu Khumbu, il mio tutore andò a consigliarsi con uno degli uomini più potenti del distretto, il segretario di una famiglia molto famosa e ricca, di grandi benefattori del monastero di Domo Ghesce Rinpoce. Quando chiese il suo punto di vista, lui rispose che sarebbe stato meglio se fossi tornato a Solu Khumbu. Dovetti perciò presentarmi al giudice del distretto. Prima del colloquio mi chiusero in una stanza molto buia. I benefattori locali in effetti credettero che fossi stato rinchiuso in una stalla. Le donne che mi conoscevano mi portarono da mangiare di nascosto dolci e altre cose, che facevano passare attraverso piccole fessure. Il giudice del distretto arrivò e fui chiamato a presentarmi davanti a lui nudo (non so perché fossi nudo – ho dimenticato quella parte della storia).

Poiché la stanza dove ero stato rinchiuso era buia e molto, molto fredda, ero tutto tremante. Il giudice disse che avevo il diritto di fare le mie scelte sia che volessi andare o stare. Così mi fermai per tre anni a Pagri. Tutti i giorni andavo nelle case della gente a fare puje. Presi l’ordinazione da getsul nel monastero di Domo Ghesce Rinpoce, che era considerato un’emanazione di Lama Tzong Khapa. In precedenza avevo conosciuto.molti monasteri, ma a causa del mio karma divenni monaco soltanto in quel monastero ghelupa.

Nel marzo del 1959 i cinesi invasero il Tibet, ma poiché la zona in cui noi stavamo era vicina all’India, non c’era un pericolo immediato. Più tardi, durante quello stesso anno, mi furono date le istruzioni per fare il mio primo ritiro sul Guru Yoga di Lama Tzong Khapa, che feci in un monastero vicino che si chiamava Pema Choling, una succursale del monastero di Domo Ghesce Rinpoce. Non sapevo niente della meditazione, semplicemente recitavo la preghiera e qualche mantra di Migtsema. Penso che finii il ritiro, ma non ricordo come lo feci né quanti mantra recitai.

La fuga in India

Alla fine del 1959, quando le minacce di torture si fecero imminenti, decidemmo di scappare in India. Una volta sentimmo che le truppe cinesi sarebbero arrivate al monastero di Pema Ciöling in due giorni. La stessa notte, in gran segreto, ce ne andammo. Per raggiungere il Bhutan dovevamo attraversare soltanto una montagna. Una notte, poiché era molto umido e non riuscivamo a vedere bene la strada, avemmo un po’ di problemi perché, scivolando nel fango, finivamo con lo sprofondare.
Al confine vi erano i nomadi. Avevamo sentito dire che fra di loro si nascondevano delle spie, perciò se ci avessero visto sarebbe stato difficile scappare. Per fortuna quella notte, anche se i cani abbaiarono, i nomadi non uscirono dalle loro tende.
Finalmente raggiungemmo l’India. Arrivammo a Buxa Duar, nel nord, dove il governo indiano offrì ospitalità ai monaci provenienti dai monasteri di Sera, Ganden e Drepung, insieme ai monaci delle altre tradizioni. Al tempo degli inglesi, Buxa era stato usato come campo di concentramento e vi erano stati imprigionati anche il mahatma Gandhi e Nehru. Dove era stato prigioniero Gandhi divenne il convento femminile e la prigione di Nehru divenne la sala di preghiere del monastero di Sera.
Avevo programmato di andare a Darjeeling, perché là c’era una succursale del monastero di Domo Ghesce Rinpoce. Il capo della polizia di Buxa mandò tutti gli altri monaci del mio gruppo a Darjeeling, ma per qualche ragione quando venne il mio turno mi fermò. Disse che un altro monaco doveva stare con me, lì a Buxa. Fu a causa di quel poliziotto che non mi lasciò andare a Darjeeling che mi fermai a studiare a Buxa. Non so perché non mi avesse lasciato andare, nessuno gli aveva dato istruzioni in quel senso.
A Buxa, come successe anche a molti altri monaci, contrassi la tubercolosi a causa delle cattive condizioni igieniche e del clima. Fui invitato a Delhi dalla seconda monaca occidentale, che si chiamava Frida Bedi (la prima monaca inglese morì a Darjeeling). Lei aveva visitato Buxa, dove tutti i monaci vivevano insieme, e si era particolarmente occupata dei Lama reincarnati. Ne invitò molti a frequentare la scuola che aveva aperto per insegnare l’inglese. Veniva insegnato anche l’hindi, ma penso che il suo scopo principale fosse quello di insegnare l’inglese.
Trascorsi sei mesi a Delhi e fu allora che la TBC si sviluppò. Prima contrassi il vaiolo e dovetti stare quindici giorni in un ospedale che era molto lontano dalla scuola. Quando fui dimesso dall’ospedale contrassi la TBC, per cui fui messo in un sanatorio. In quell’ospedale piansi per tre giorni. La ragione per cui piangevo era che non avevo l’opportunità di imparare l’inglese. In quel periodo avevo la grande ambizione di.imparare l’inglese, per cui piansi per tre giorni e non volli parlare con nessuno, neppure con i ragazzini indiani che stavano nel mio stesso reparto. Quando entrai in ospedale mi misero il pigiama dell’ospedale. Negli intervalli andavo all’aperto, dove potevo vedere il traffico della strada attraverso la palizzata. Allungavo le gambe attraverso la palizzata tenendo il mio libro di inglese fra le gambe e piangevo. I ragazzini indiani, riunendosi intorno a me, dicevano: “Lama, non piangere! Non essere triste!”, tuttavia non parlai con loro per tre giorni. Nel reparto degli uomini anziani incontrai un indiano molto gentile che accettò d’insegnarmi inglese. Avevo un libro di inglese colloquiale che mi aveva dato Thubten Tsering, il segretario di S.S. Ling Rinpoce. Mi piaceva molto questo libro e presi l’abitudine di andare nella camera dell’indiano per imparare un po’ di parole, così migliorai.
Rimasi a Delhi sei mesi, alla fine dei quali dovetti sostenere anche un esame di inglese. Partecipai anche a un incontro con l’allora primo ministro Jarwardal Nehru, che era molto, molto vecchio e aveva la pelle bluastra. Ricordo che stava sdraiato su una specie di sedia e non su di un letto.
Tornai finalmente a Buxa per continuare i miei studi. Feci un po’ di dibattito, ma più come gioco che per vero studio. Sfortunatamente, non credo di aver accumulato molto karma per studiare i testi in modo completo. Ho tuttavia ricevuto insegnamenti su alcuni testi filosofici e un po’ di impronte sono rimaste nella mia mente. In quel periodo credo di essermi impegnato di più a imparare l’inglese, però in un modo inutile perché cercavo di imparare molte parole seguendo il metodo che si usa per memorizzare i testi tibetani. Una volta pensai di imparare a memoria tutto il dizionario. Il metodo di studio tibetano è basato prevalentemente sulla memorizzazione, per cui credevo che se avessi memorizzato molte parole sarebbe stato utile. Non sapevo che si dovesse fare particolare attenzione agli accenti e che occorresse molta pratica di conversazione. Comunque a Buxa non c’erano molte opportunità di praticare l’inglese, a parte usare alcuni vocaboli quando si incontravano gli ufficiali indiani. Memorizzai molte, molte parole da diversi libri e dal Time magazine. Me le dimenticavo e tornavo a memorizzarle, le dimenticavo e le memorizzavo di nuovo proprio come si fa con i testi tibetani. Ho impiegato molto tempo per fare questo, ma fu inutile; non era proprio il modo di imparare l’inglese.

L’insegnamento di Ghesce Rabten e Lama Yesce

A Buxa ebbi come insegnante Ghesce Rabten Rinpoce, la cui gentilezza è stata causa di qualsiasi tipo di interesse io abbia adesso nella pratica della meditazione. Per la gentilezza di Ghesce Rabten Rinpoce ho riconosciuto il mio Guru radice (Kyabje Trijang Rinpoce). Ghesce Rabten mi insegnò le meditazioni sulla vacuità e samatha e anche se ero molto piccolo ero molto interessato. Provavo a meditare sul mio letto dopo essermi riparato sotto la zanzariera. Mi ero abituato a meditare sul coperchio d’argento della mia tazza da tè, anche se non sapevo come. Provai a meditare concentrandomi univocamente, ma fallii! Non so bene cosa successe: il mio corpo stramazzò a terra. Successe diverse volte finché alla fine smisi. Probabilmente in quella casa erano emerse delle impronte dovute alle vite passate. Questa è la ragione per cui ho un po’ di interesse nel lam-rim, più che nella pratica di meditazione.
Dopo questo periodo Ghesce Rabten fu molto impegnato, perciò mi mandò a studiare con un altro maestro che veniva dal Kham e che si chiamava Yesce. Da questo insegnante ho ricevuto le istruzioni sulla meditazione e la visualizzazione di Ganden Lha Ghiema e sulla gentilezza degli esseri senzienti nostre madri, dal testo della Prajna Paramita dove parla di quell’argomento. Non vi erano scritti a disposizione, per cui il maestro Yesce doveva insegnarmi facendo affidamento alla sua memoria. In Tibet non avevo imparato a scrivere il tibetano, perciò mi misi a studiare per conto mio, copiando tutto, proprio per essere in grado di leggere. Più tardi il maestro Yesce volle dedicarsi ad un altro tipo di vita, così lasciò Buxa per vagare e stare in vari posti in India.
C’era un monaco nella mia stessa classe che la maggior parte delle persone conoscevano come Ciompel – è stato il cuoco a Kopan per molti anni. Insieme a Lama Pasang e ad altri monaci tibetani stava ricevendo insegnamenti da Lama Yesce. Fino ad allora stavo ricevendo insegnamenti soltanto da Ghesce Rabten, ma e soltanto quando non era impegnato, perché aveva molti discepoli e insegnava testi diversi in molte classi.
Dopo che l’insegnante Yesce se ne andò, Ghesce Rabten mi mandò a ricevere insegnamenti da un altro ghesce, che ora non è qui e che in seguito pensò che avrei dovuto ricevere insegnamenti dal monaco tibetano Ghesce Thubten. Ero contento di ricevere insegnamenti da un ghesce, mentre ero un po’ riluttante ad andare a ricevere insegnamenti da Lama Yesce, di cui Ciompel parlava tanto. In quel periodo Ciompel era la guida della classe e continuava a incoraggiarmi affinché andassi a ricevere insegnamenti da Lama Yesce.
Ciompel aveva l’abitudine di uscire a passeggiare per rilassarsi. Un giorno cominciammo la nostra passeggiata incamminandoci verso la casa di Lama, ma non avevo offerte. Quando arrivammo all’albero di mango dove c’erano dei sedili dissi: “Voglio tornare indietro”, però lui insistette per cui prosegui ancora un po’. Mi fermavo continuamente dicendo: “No, non voglio andarci”, ma lui continuava a spingermi. Il luogo dove viveva Lama Yesce sulla montagna era abbastanza lontano, circa un’ora di cammino. Perfino quando raggiungemmo la capanna volevo tornare indietro, in parte perché non avevo portato con me alcuna offerta.
Quando si crea il primo contatto con il guru è molto importante fare le offerte nel modo appropriato. Come probabilmente saprete dalla storia della vita di Milarepa, il numero degli insegnamenti che si riceveranno dipende moltissimo da quell’offerta. Per questa ragione a Buxa non ricevetti molti insegnamenti.
Ciompel aveva portato una ciotola di riso, qualche rupia e una kata molto povera e vecchia. Entrò per primo e chiese a Lama Yesce se poteva ricevermi. Credo che Lama gli chiese: “Hai avuto il permesso da Ghesce Rabten?” e lui rispose affermativamente. Io avevo chiesto a Ghesce Rabten da quale maestro sarei dovuto andare per ricevere insegnamenti, ma lui non mi aveva fatto alcun nome. Era un insegnante molto abile che conosceva esattamente ciò che fosse meglio per i suoi discepoli.
Il primo giorno sedetti sullo stesso letto insieme a Lama Yesce perché ero considerato un “reincarnato”, mentre gli altri sedevano sul pavimento. L’insegnamento era su causa ed effetto. Non capii niente, credo perché ero andato con una cattiva motivazione..Pensai: “Perché Lama Yesce non insegna un po’ più adagio?” Sebbene gli altri capissero, io non vi riuscivo.
Il secondo giorno potei capire un po’ meglio, penso perché ero stato guidato da Lama Yesce in molte altre vite. Anche se non avevo un forte desiderio, c’erano una forza e un karma molto forte fra me e Lama Yesce; abbiamo avuto sicuramente dei forti contatti nelle vite passate. Non solo mi ha aiutato e guidato in questa vita, ma ha piantato i semi nella mia mente in molte vite passate. E’ chiaro che tutte le felicità del passato, presente e futuro dipendono dal guru.
(Da Mandala, newsmagazine of the F.P.M.T, nov-dec. ’95) http://www.taracittamani.it/maestri/lamazoparinpoche.aspx