Vincenzo Piga: La meditazione sulla morte

Milarepa: Meditare sulla morte insegnerà agli anziani che la vita è impermanente e li spronerà alla rinuncia.

Vincenzo Piga: La meditazione sulla morte

Il pensiero della morte occupa una posizione rilevante in tutte le culture. L’Occidente produttivistico ed edonistico ha tentato di rimuoverlo dalla coscienza collettiva fino a costringere nelle metropoli quasi alla clandestinità lutti, funerali e cimiteri, con l’unico risultato di accentuare l’artificiosità del contesto psicologico qui dominante, trasformando un sentimento tra i più naturali in fonte di paure e disperazioni, ogni qualvolta l’insopprimibile realtà è riproposta dal trapasso di persone care o dai segreti presentimenti della propria fine.

È forse per reagire a simili manipolazioni che i contemplativi di vocazione cristiana ricorrono con più frequenza alle tecniche meditative di S. Ignazio, ancorate a terrificanti evocazioni della propria morte.

Che la realtà sia ben diversa da quanto appare è testimoniato anche da personaggi che più sembrano immersi nell’Oceano del Samsara: il Generale De Gaulle diceva allo scrittore Malraux che solo l’idea della morte dà un senso alla vita.

II Mahaparinirvana Sutra attribuisce al Buddha questa dichiarazione: «Fra tutte le impronte quella dell’elefante è la più grande; fra tutte le meditazioni quella della morte è la suprema».

Nel Buddhismo esistono due diverse meditazioni sulla morte.

Con la prima – paragonabile a certe prediche di quaresimalisti cattolici e a certe pratiche di ritiri spirituali – si riflette sulla inevitabilità e imprevedibilità della morte, per accrescere l’impegno a praticare il Dharma senza indugi, maturando la consapevolezza della sofferenza (dukkha), dell’impermanenza (anicca) e dell’inesistenza intrinseca dell’io (anatta). È insegnata nei Sutra ed anche da buddhisti tantrici come Gampopa e Tzong Khapa. Ad essa si riferisce Milarepa in questo canto:

Meditare sulla morte insegnerà al malvagio la distinzione tra bene e male e lo spronerà al pentimento.

Meditare sulla morte insegnerà all’uomo ricco che la ricchezza è pericolosa e lo spronerà alla generosità.

Meditare sulla morte insegnerà agli anziani che la vita è impermanente e li spronerà alla rinuncia.

Meditare sulla morte insegnerà ai giovani che il tempo è limitato e li spronerà alla diligenza

(Da I canti di Milarepa https://www.sangye.it/altro/?cat=83).

Le lunghe ere del Samsara non possono nascondere la chiara luce della mente. (Tilopa)

La seconda meditazione sulla morte è praticata in tutti i sistemi di Anuttarayoga Tantra ed è conosciuta come «Prendere il Dharmakaya, la Morte come Sentiero». Con questa meditazione si sperimenta il futuro processo di morte, che per il Buddhismo tantrico consiste nel «dissolvimento», che si completa in otto fasi, delle coscienze grossolane e sottili, con simultanea degenerazione dei relativi supporti materiali, fino all’emersione della coscienza più sottile, identificata come coscienza di «Chiara Luce». Il meditante si prepara così a vivere quel processo, al momento dato, consapevolmente e serenamente e realizza l’esperienza, sia pure nella provvisorietà dello stato meditativo, della coscienza più sottile, l’esperienza di Chiara Luce, che è intuizione spontanea della vacuità (sunyata), come realtà ultima di tutti i fenomeni. «Benché questa coscienza estremamente sottile – scrive Gheshe Rabten – esista sempre entro la nostra corrente di coscienza, essa, generalmente, non si risveglia che al momento della morte, quando noi – come esseri comuni – siamo completamente inconsci di essa. In ogni caso, vi è una possibilità di risvegliarla durante il periodo della nostra vita. Ciò è ottenuto con la pratica di una meditazione tantrica di livello molto avanzato. Per mezzo di metodi profondi, possiamo imparare a dissolvere i livelli grossolani della coscienza in un modo molto simile alla loro dissoluzione al momento della morte. Questo è veramente molto difficile da farsi, direi che per la maggior parte di noi è troppo presto, relativamente alla nostra pratica, per aspettarsi un successo in tali meditazioni. Nondimeno, benché questo sia difficile, non è impossibile se si compie lo sforzo necessario» (Gheshe Rabten Rimpoche: Livelli di coscienza, Edizione Ghe Pel Ling-Maitri. p. 30.).

Gheshe Jampel Senghe https://www.sangye.it/altro/?cat=146 diceva che la coscienza di Chiara Luce, energia del Dharmakaya, è già presente in noi, ma solo allo stato potenziale, come il fiore è potenzialmente presente nel seme e con la pratica tantrica si riconosce e si attualizza questa potenzialità, come umidità, humus e calore fanno sbocciare dal seme il fiore. Si tratta di una pratica «segreta», che cioè può essere trasmessa solo da maestri qualificati, oralmente («da bocca a orecchio»), a discepoli maturi, di preferenza singoli, che abbiano coltivato la Grande Compassione (Mahakaruna), percepito la Vacuità e appreso la tecnica di visualizzare se stessi nella forma di una «divinità» tantrica; non può essere insegnata a chi non è in grado di accoglierla correttamente.

Nel Tibet si usava dire: non bisogna versare il latte di una leonessa delle nevi in un vaso di argilla, altrimenti il latte diventa acido e il vaso si rovina.

Accanto al livello tantrico c’è un livello ordinario di questa meditazione, dove i fenomeni che accadono nelle singole fasi del processo di morte sono soltanto immaginati, senza sperimentazioni psicosomatiche. A questo livello la meditazione è ugualmente utile, perché rende familiare il pensiero della morte, ne memorizza il processo, che sarà vissuto, al momento dato, serenamente e coscientemente ed aiuta ad intuire i livelli più sottili di coscienza, al di là delle esperienze ordinarie. I Lama tibetani dimostrano molta disponibilità per questo insegnamento, già realizzato in alcuni centri italiani. Va ricordato, in linea generale, che il Dalai Lama sostiene da tempo l’opportunità di mettere a disposizione dei praticanti e degli studiosi occidentali maggiori informazioni sul Buddhismo tantrico. «Molti segreti sono stati divulgati; molti conferenzieri vanno spiegando il Tantra e si traducono molti libri. Anche se il Mantra Segreto deve essere conseguito occultamente, sono apparsi molti libri che sono un misto di verità e di menzogna. Ritengo che sarebbe bene che si manifestassero i mezzi e le circostanze che possano dissipare queste idee errate. In generale, tradurre un libro sul Mantra per la vendita nelle librerie è inopportuno, ma in quest’epoca e in questa situazione c’è più colpa nel non dissipare idee errate, che nel diffondere traduzioni » (Tzong Khapa: Tantra in Tibet, Ubaldini Editore, Roma 1980, p. 12.).

Ci occupiamo qui, ovviamente, della meditazione sulla morte a livello ordinario, usando – oltre gli insegnamenti dei Gheshe Jampel Senghe e Rabten Rimpoche già segnalati in Paramita 15 – il testo: Morte, Stato Intermedio e Rinascita nel Buddhismo tibetano, curato da Lati Rimpoche e Jeffrey Hopkins (Ubaldini Editore, Roma 1980). Fonte comune a tutti questi insegnamenti è l’opera di Tzong Khapa: «Lampada che illumina interamente “I Cinque Stadi” di Nagarjuna; istruzioni essenziali del Re dei Tantra, il glorioso Guhyasamaja».

Una conoscenza almeno sommaria della cosiddetta «fisiologia mistica» del Tantrismo (largamente mutuata da tradizioni induiste e taoiste) è indispensabile per questa meditazione e ne faremo un rapido cenno, nella consapevolezza che, nonostante l’uso scrupoloso di testi e insegnamenti tradizionali, non sarà evitata qualche imprecisione, anche perché gli stessi testi originali· presentano alcune divergenze, sia pure di dettaglio, ed inoltre vanno messe in conto eventuali inesattezze delle traduzioni. Saranno indicate tra virgolette, senz’altra precisazione, le frasi tratte testualmente dal citato libro di Lati-Hopkins.

Per il Tantrismo gli esseri senzienti, uomini ed animali, hanno tre livelli di corporeità (grossolano, sottile, sottilissimo), cui corrispondono altrettanti livelli mentali. Il corpo grossolano comprende:

– le parti solide (pelle, carne, ossa, peli, ecc.) tradizionalmente definite «terra»;

– i fluidi (sangue, urina, saliva, ecc.), definiti «acqua»;

– il calore, «fuoco»;

– le energie grossolane, che presiedono a funzioni corporee (respirare, ingoiare, evacuare, ecc.) nonché

– alle esperienze dei 5 sensi e queste energie o venti sono definiti «aria ».

«Il corpo sottile comprende i canali, i venti e le gocce bianche e rosse». «I canali [sanscrito: nadi] sono le vene, le arterie, i condotti, le linee dei nervi e così via, attraverso i quali scorrono il sangue, la linfa, la bile, il vento, ecc. Le gocce [sanscrito: bindu] sono fluidi essenziali che scorrono nei canali». « Il campo di significati di vento [sanscrito: prana] va dall’aria respirata sino alle più sottili arie o correnti di energia che compiono le funzioni corporee e che servono come supporti o basi della coscienza ». « Il corpo sottilissimo è sia il vento che serve come supporto della mente di luce limpida, sia il vento che dimora nell’indistruttibile goccia del cuore». «Le cinque coscienze sensoriali (occhio, orecchio, naso, lingua e corpo) sono menti grossolane. La coscienza mentale concettuale è la mente sottile. La mente che dimora nella gabbia indistruttibile è la mente sottilissima».

Circa le relazioni fra canali, gocce e correnti di energia, sarà utile questa citazione: « I canali sono condotti attraverso cui le gocce – le essenze vitali – sono – spinte dai flussi o correnti di energia» (Tzong Khapa: Tantra in Tibet, Ubaldini Editore, Roma 1980, p. 128.). Ogni corpo avrebbe 72.000 canali, di cui entrano in gioco nelle meditazioni sopratutto questi tre:

– il canale centrale (sanscrito: sushumma), che parte dalla radice del naso tra le sopracciglia, sale alla sommità del capo e discende parallelamente al midollo spinale fino alla sua base;

– i canali laterali destro e sinistro, che affiancano la sushumma (Una descr.izione più dettagliata di questi tre canali o nadi si trova in Paramita 6, p. 5.). A quanto si può desumere dai testi citati, le nadi coincidono talora, ma non sempre, con vene, arterie, nervi della fisiologia occidentale; le tre nadi principali dovrebbero invece considerarsi essenze psichiche e questo può spiegare che le loro aperture superiore e inferiore abbiano collocazioni diverse da una meditazione all’altra. Le tre nadi principali attraversano, nel loro percorso verticale, blocchi di nadi minori, disposti orizzontalmente, che il testo Lati-Hopkins definisce «ruote canalifere», più conosciuti come chakra. Se ne elencano 7, di cui i 5 più importanti si trovano:

– alla sommità della testa, con 32 nadi che formano una specie di piramide rovesciata;

– all’altezza della gola, con 16 nadi disposte verso l’alto come le stecche di un ombrello rovesciato;

– nel cuore, con 8 nadi inclinate verso il basso all’altezza dell’ombelico, con 64 nadi che formano una specie di piramide con il vertice allungato verso l’alto;

– nel basso ventre con 32 nadi.

Questi chakra sono paragonati anche a fiori di loto, di cui le nadi rappresentano i petali; oppure a ruote (che è il senso letterale del sanscrito chakra), di cui le naadi sono i raggi. Nelle condizioni ordinarie di esistenza le energie che scorrono attraverso le nadi periferiche, veicoli . delle coscienze sensoriali sono in frenetica ed ininterrotta attività, fino ad impedirci di diventare consapevoli delle coscienze sostenute dalle energie che si trovano, più o meno bloccate, nelle tre nadi centrali.

Tutte le pratiche meditative contribuiscono, più o meno efficacemente, a realizzare un controllo sulle energie psichiche che circolano nelle nadi periferiche, sino alla loro temporanea estinzione, facendo emergere e circolare le energie delle nadi centrali, con conseguente consapevolezza di stati mentali più sottili.

Le meditazioni tantriche mirano esplicitamente all’assorbimento delle energie periferiche nelle nadi centrali ed, infine, nella sola sushumma.

La meditazione sulla morte è a questo fine tra le più efficaci, perché le 8 fasi del processo di morte realizzano il progressivo «dissolvimento» delle coscienze grossolane sostenute dai venti delle nadi periferiche, sciogliendo così i nodi che bloccano nei chakra la circolazione delle energie sottili, fino a realizzare, a livello tantrico (oppure a immaginare, a livello ordinario), l’esperienza della «Chiara Luce».

Nel testo Lati-Hopkins si insiste sul concetto di «dissolvimento», mentre Gheshe Jampel usava il termine di «assorbimento». L’apparente contraddizione è così spiegata dal Gheshe Rabten: «La dissoluzione di livelli grossolani di coscienza non implica una sparizione o estinzione di questi fenomeni; piuttosto essi sono assorbiti nel livello più sotti’le della mente e trattenuti lì in condizione latente; si assorbono in se 8 stessi, divenendo impronte mentali. Più tardi, oppure quando le condizioni sono favorevoli, si risveglieranno manifestandosi come coscienza».

I fenomeni attribuiti alle singole fasi dèl processo sono talora diversi nei diversi insegnamenti, perché i processi degenerativi del corpo grossolano sono diversi per i diversi individui, in relazione alle differenze del loro stato psicosomatico e degli eventi patologici che precedono il decesso. Sarebbe quindi sbagliata la ricerca di uno schema rigido ed uniforme nella meditazione, che ogni praticante, consultandosi con il proprio maestro spirituale, potrà invece modellare sulla propria specificità psico-somatica.

Ed ecco la descrizione delle singole fasi, che per la pratica meditativa sembra preferibile indicare come tappe.

PRIMA TAPPA (MIRAGGIO): Le parti solide del corpo grossolano degenerano e pertanto i venti ad esse associati perdono la capacità di fare da supporto alla coscienza. Simultaneamente si dissolvono i 5 seguenti fattori: il primo skandha (la forma), l’elemento terra, il senso della vista, gli oggetti della vista e la saggezza simile allo specchio. Questi fenomeni sono così descritti da Gheshe Rabten: «Avviene la degenerazione dell’aggregato [skandha] della forma. Questa è accompagnata da un segno esterno, che appare come una contrazione delle membra. Possiamo avere osservato questo fenomeno nelle persone morenti, ma ne ignoravamo il significato.

Simultaneamente, si dissolve la saggezza che percepisce i colori e le forme. A questo punto la persona morente è incapace di distinguere con chiarezza le forme visive; esse diventano incerte e confuse. L’elemento terra perde potere ed il corpo si irrigidisce e diviene secco. Ciò significa che la persona perde il controllo sulle funzioni corporee; essa non ha più alcuna forza di muoversi come desidera. Ciò è facilmente visibile agli osservatori. Nello stesso tempo viene perduto il senso visivo, cessa il movimento dei bulbi oculari e le palpebre non si chiudono più. Inoltre, l’aspetto della forma corporea diminuisce; diminuiscono la radianza e la forza ed il corpo diventa pallido ed esangue». Gheshe Jampel Senghe precisava che, dopo questi fenomeni, la persona può vivere ancora due o tre giorni, ma alcuni muoiono dopo un’ora e ricordava che le esperienze prevalenti sono due: la sensazione di sprofondare e la visione di un miraggio, così descritto in Lati-Hopkins: « È il sorgere di un’apparizione bluastra detta “simile a un miraggio”. È come un’apparizione di acqua quando d’estate la luce del sole picchia su un deserto». Questa visione è determinata dal fatto che la dissoluzione dell’energia associata all’elemento terra rende più manifesta alla coscienza l’energia associata all’elemento acqua (cioè alle parti fluide del corpo), per cui viene anche detto che l’energia della terra è assorbita dall’energia dell’acqua. Date le chiare interrelazioni fra stato solido, forma, occhio, facoltà visiva e capacità mentale di acquisire simultanea consapevolezza di una molteplicità di oggetti («allo stesso modo in cui i riflessi appiono su uno specchio»), è comprensibile il collegamento tra i fattori che si dissolvono simultaneamente nella prima tappa.

SECONDA TAPPA (FUMO): Le parti fluide del corpo (sangue, saliva, urina, sudore, ecc.) si prosciugano più o meno completamente e pertanto i venti ad esse associati perdono la capacità di fare da supporto alla coscienza. Simultaneamente si dissolvono i 5 seguenti fattori: il secondo skandha (sensazioni), l’elemento acqua, il senso dell’udito, gli oggetti dell’udito (suoni) e la saggezza dell’uguaglianza. Questi fenomeni sono così descritti da Gheshe Rabten: «Degenera l’aggregato delle sensazioni e la persona moribonda sperimenta la perdita della sensibilità fisica. Si dissolve anche la saggezza convenzionale dell’uguaglianza, il che significa che egli è incapace di sperimentare sensazioni di piacere, sofferenza o neutrali. In questo momento cessa di funzionare l’organo del senso uditivo; tutti i suoni cessano e si ferma il ronzio nelle orecchie per la prima volta dalla nascita. Simultaneamente l’elemento acqua diminuisce il suo potere e tutti i liquidi come l’urina e il sangue si asciugano». Questi fenomeni della seconda tappa provocano come segno interno la cosiddetta 9 «visione di fumo»: «somiglia a del fumo che esce ondeggiando da un comignolo in mezzo ad una massa di fumo». Questa visione dipende dal fatto che la dissoluzione dell’energia associata all’elemento acqua porta la coscienza a sperimentare con più forza la presenza dell’elemento fuoco e quindi sorge l’impressione di uno spazio pieno di fumo. La perdita dell’udito può essere spiegata con la degenerazione dei fluidi, compresi i liquidi dell’orecchio interno, che contribuiscono normalmente a far percepire i suoni. Non appare invece comprensibile il nesso tra queste due dissoluzioni e la dissoluzione della cosidetta «saggezza convenzionale dell’uguaglianza»; il testo Lati-Hopkins invece che «convenzionale» la qualifica «fondamentale» e la descrive come una coscienza « che è consapevole di piacere, dolore e sensazioni neutre come tutti di un medesimo tipo, ossia come sensazioni. Essa è anche descritta come una coscienza che è consapevole di tanti sinonimi come dotati di un solo significato». Dopo questa tappa il morente perde ogni percezione di dolore fisico ed avrà solo esperienze psichiche. Anche nella meditazione si passerà quindi alle tappe più intimamente psichiche, immaginando che ogni sensibilità visiva e uditiva è scomparsa; si entra in una esperienza in cui la residua vitalità del corpo grossolano e delle sue nadi non è più di impedimento all’emergere delle vibrazioni del corpo sottile, di cui si acquisterà sempre maggiore consapevolezza nelle ulteriori fasi del processo della morte e quindi nelle ulteriori tappe della meditazione. https://maitreya.it/wp-content/uploads/2020/02/Paramita-16.pdf

La meditazione sulla morte («la suprema fra tutte le meditazioni», è scritto nel Parinirvana) si svolge in otto tappe, che corrispondono alle otto fasi del reale processo di morte, come viene descritto dalla fisiologia mistica del tantrismo.

Sono state appena descritte le prime due tappe, durante le quali si immagina che si dissolvano gli elementi «terra» e «acqua», gli skandha della forma e delle sensazioni, i sensi della vista e dell’udito, la consapevolezza della molteplicità («saggezza simile ad uno specchio») e la consapevolezza dell’identificazione («saggezza dell’uguaglianza»). Nella prima tappa appare una visione di miraggio e nella seconda una visione di fumo.

TERZA TAPPA, LUCCIOLE: Si esaurisce la capacità del corpo di generare calore e simultaneamente si dissolve il terzo skandha, l’aggregato delle concettualizzazioni o discriminazioni. Il fenomeno è così descritto nel testo Lati-Hopkins: «I 5 fenomeni al livello dell’aggregato delle discriminazioni si dissolvono simultaneamente. Come segno esterno del dissolvimento del costituente fuoco, il calore del corpo diminuisce e di conseguenza la capacità di digerire solidi e liquidi è perduta. Come segno esterno del dissolvimento del potere del senso del naso, l’inalazione del vento attraverso il naso è debole, mentre l’esalazione è forte e lunga ed i respiri sono come ammucchiati uno sull’altro. Come segno esterno del dissolvimento degli odori compresi nel proprio continuum, non si riesce a percepire qualsiasi odore profumato o non profumato. Il segno interno del dissolvimento di questi cinque è il sorgere di una apparizione detta “simile a lucciole”. È come delle scintille rosse brucianti viste attraverso nuvole di fumo che si alzano da un camino, o come scintille rosse sulla fuliggine del fondo di una padella usata abitualmente per arrostire granaglie ». Il dissolvimento dello skandha delle discriminazioni corrisponde al dissolvimento della «saggezza discriminante», così definita dal Gheshe Rabten: « È un fattore mentale che ci rende capaci di distinguere il padre dalla madre, i tavoli dalle sedie e così via. Appena essa si ritira, la persona morente è incapace di distinguere, di riconoscere o etichettare gli oggetti o i concetti ».

Nella concezione tantrica dei cinque Dhyani-Buddha (Buddha della meditazione) a questa saggezza presiede Amitabha.

QUARTA TAPPA (FIAMMA CHE SI STA SPEGNENDO): Per la degenerazione dell’elemento «aria », il respiro cessa, si perde il senso del gusto, degrada il senso del tatto ed ha fine ogni movimento interno ed esterno del corpo. Gheshe Rabten ne fa questa descrizione: «Degenera l’aggregato dei fattori composti (cioè il quarto skandha, comprendente le abitudini mentali o formazioni karmiche, n.d.r.), cessano tutti i movimenti corporei e si dissolve la saggezza dell’azione. Questa è la saggezza che ci rende capaci di progettare e comprendere le cose da farsi. Quando essa si assorbe, la persona moribonda viene a mancare del potere dell’intenzione. Anche la Iingua si contrae e diventa dura; essa perde flessibilità per emettere ogni suono articolato ed il senso del gusto. L’elemento aria diminuisce».

La cosidetta «saggezza dell’azione» è un attributo del quarto Dhyani-Buddha, Amoghasiddhi, simbolo dell’energia che trasforma i sentimenti di gelosia in poteri di realizzare l’Illuminazione.

Il segno interno in questa tappa «è la comparsa di un’apparizione detta “simile ad una lampada di burro che brucia”. È come la punta crepitante di una fiamma di una lampada di burro, quando è sul punto di spegnersi » (Lati-Hopkins).

Con la quarta tappa si completa il dissolvimento dei quattro elementi (terra, acqua, fuoco e aria), di quattro saggezze (simile a specchio, dell’identificazione, della discriminazione e della realizzazione), dei primi quattro skandha (forma, sensazioni, concetti e tendenze) e di quattro sensi: vista, udito, odorato, gusto («Quando la vita sta per esaurirsi, l’organo del tatto si dissolve gradualmente; alla fine non ne resta che in qualche parte del corpo, dove finisce con lo scomparire del tutto; è come quando dell’acqua sparsa su una pietra calda evapora a chiazze e la completa evaporazione avviene con alcune gocce che si sono raccolta in un punto determinato ». (Da L’Abhidharma Kosha di Vasubandhu, trad. e note di L. de La Vallée Poussin, Bruxelles 1971, vol. II, p. 135.).

A questo punto del processo un medico occidentale dichiarerebbe la persona morta; in realtà non è così, perché la coscienza, il quinto skandha, dimora ancora nel corpo. Si è quindi completata la dissoluzione del corpo grossolano e al riguardo Gheshe Jampel diceva: « La dissoluzione del corpo grossolano, realizzata nel processo di morte o immaginata nella meditazione, apre la strada al corpo sottile, perché i due corpi funzionano alternativamente: quando è attivo il corpo grossolano, il corpo sottile e la sua mente rimangono nascosti alla coscienza». E Gheshe Rabten aggiunge: «A questo punto del processo della morte sono già state assorbite non solo le coscienze dei livelli grossolani, ma anche le coscienze di tipo molto sottile. Ora la mente ha raggiunto un livello ineguagliabilmente sottile ed è chiamata allora consapevolezza primordiale».

QUINTA TAPPA (VISIONE BIANCA): Le energie che circolano nei segmenti superiori delle due nadi laterali, tra il chakra del cuore e quello della testa, entrano nel canale centrale attraverso la sua apertura alla sommità della testa. «Per la forza che ne scaturisce, il nodo dei canali alla sommità della testa è sciolto e poiché la goccia bianca ottenuta dal padre (lo sperma, n.d.r.), che ha l’aspetto della sillaba ham capovolta, ha la natura dell’acqua, essa scende verso il basso. Quando arriva alla sommità del nodo a sei cerchi dei canali destro e sinistro nel cuore, sorge l’apparizione bianca » (LatiHopkins). Questa apparizione o visione è descritta nello stesso testo «simile a un cielo notturno pervaso dalla luce lunare d’autunno, quando il cielo è libero dalla contaminazione». Gheshe Rabten spiega così il fenomeno: «Dal tempo del concepimento, il nostro corpo fu formato dall’unione delle cellule dei nostri genitori. Dalla nascita sino al momento della morte esiste, alla sommità del nostro capo, una cellula bianca, che è collegata alla cellula originale ricevuta da nostro padre ( … ). Al momento della morte il canale centrale diviene libero dalle ostruzioni, la cellula bianca arriva al centro del cuore e sorge questa visione bianca».

Il fenomeno è identificato come «il vuoto» (Sunya), oppure «stato mentale dell’apparizione», che Aryadeva, citato da Tzong Khapa, definisce come «una coscienza mentale che compare dopo il dissolvimento dei concetti e fino al loro ripristino, successivo alla morte (cioè nello stato di bardo), che percepisce una visione di vacuità radiante bianca, con esclusione di ogni altra apparizione dualistica grossolana ».

Riuscire ad evocare simili esperienze mentali durante questa meditazione è di grande utilità al fine di realizzare sunyata intuitivamente: con la quinta tappa si raggiunge il primo stadio di questa realizzazione, indotta dalla inattività, sia pure parziale, del prana nei due canali di destra e di sinistra e da un inizio di concentrazione del prana nel canale centrale.

Ricordiamo in proposito un insegnamento di Lama Yeshe: «Secondo lo Yoga Tantra, i due canali laterali sono il centro e la fonte del dolore, delle esperienze spiacevoli che ci fanno sentire miserabili. Uno è il centro della rabbia e dell’odio e l’altro è il centro dell’attaccamento e del desiderio, per cui questi due sono la fonte delle nostre esperienze negative. Mentre invece il canale centrale è il centro del piacere, di tutte le esperienze piacevoli ed è anche il centro della saggezza, della beatitudine, della pace, della chiarezza e della calma, il centro della soddisfazione e dell’unificazione, il centro della luce chiara » (Lama Yeshe: L’arte buddhista di saper morire, a cura dell’Istituto Lama Tzong Khapa, Pomaia 1982, p. 26.). È quindi evidente che a partire da questa tappa la meditazione influirà profondamente sul nostro comportamento nella vita quotidiana, sia in termini di saggezza (cioè di graduale comprensione della vacuità), sia in termini di condotta (cioè di graduale sviluppo di Bodhicitta) , fino alla realizzazione spontanea di questi due stati mentali.

SESTA TAPPA (VISIONE ROSSA): Le energie che circolano nei segmenti inferiori dei canali laterali, tra il chakra del cuore e quello dell’ombelico e del sesso entrano nel canale centrale attraverso la sua apertura alla base della colonna vertebrale. Per la forza che ne scaturisce, i nodi del chakra del sesso e del chakra dell’ombelico si allentano e quindi la goccia rossa ottenuta dalla madre, collegata all’ovulo misto a sangue, depositata nel chakra dell’ombelico, sale verso il chakra del cuore e, giuntavi, provoca nel morente una visione rossa o arancione, come del cielo al tramonto del sole. «Benché la cellula rossa – insegna Gheshe Rabten – sia sangue e sia un fluido, nondimeno ha la natura del fuoco e tende a salire. Possiamo vedere da noi stessi la ragione per dire che il sangue ha la natura del fuoco: le persone che soffrono di alta pressione sanguigna sperimentano un’alta temperatura corporea. Inoltre un tale problema origina secchezza alla gola e alla bocca, insieme a febbre e dolori agli occhi e alla testa». Questa esperienza è identificata come «il supervuoto » (atisunya), oppure «stato mentale dell’accrescimento», ulteriore stadio verso il superamento delle concezioni dualistiche.

SETTIMA TAPPA (VISIONE NERA): Nella prima parte di questa tappa il prana che si è andato concentrando nel canale centrale (con lo svuotamento delle altre nadi, che, ricordiamolo, sono 71.999!) confluisce tutto nel chakra del cuore. Per la forza che ne scaturisce, la goccia bianca discesa dall’alto e la goccia rossa salita dal basso «entrano in mezzo alla goccia bianca e rossa indistruttibile che esiste nel modo di una scatola chiusa al centro del canale centrale in corrispondenza del cuore» e questo inserimento induce nel morente la esperknza di una visione nera, «simile ad un cielo d’autunno libero dalla contaminazione e pervaso dalla pesante oscurità dell’inizio della notte » (Lati-Hopkins).

Segue la seconda parte della settima tappa, durante la quale scompare ogni residuo di coscienza «come se si svenisse cadendo nell’incoscienza, confusi nell’oscurità». L’approssimarsi di questo stato di incoscienza provoca nel morente inesperto uno stato mentale negativo, per paura di venire annientato, mentre chi ha praticato il Dharma conserva calma e fiduciosa attesa, si trova in uno stato mentale positivo.

Nella fase di incoscienza, peraltro, si dissolvono sia gli stati mentali positivi che quelli negativi e a questo proposito il Gheshe Rabten insegna: «Quale importanza può avere una mente positiva, se proprio nel momento in cui la mente si separa dal corpo essa non può più conservare la sua positività? È vero che proprio in quel momento nessuna precedente attività positiva o negativa può avere un effetto diretto, ma, subito dopo, la mente prende un aspetto la cui natura è di nuovo più grossolana e sorgono di nuovo ancora questi due tipi di coscienza. In dipendenza dal precedente stato mentale, la nuova mente grossolana sarà positiva oppure negativa.

Possiamo provare ciò con una allegoria tratta dalla nostra esperienza. Se ci addormentiamo con una mente positiva, benché poi diventiamo completamente inconsci, se sorgono sogni, essi saranno in accordo con questo stato positivo della mente. L’opposto è pure vero».

L’esperienza complessiva della settima tappa è identificata come «il grande vuoto» (mahasunya), oppure «stato mentale del quasi-raggiungimento», perché, l’elemento immaginale (che è pur sempre concettuale, cioè dualistico, sia pure di un dualismo sottile), presente nelle visioni bianca, rossa e nera, scompare con lo stato di incocsienza, avvicinando la mente al superamento di ogni residuo dualismo.

OTTAVA TAPPA (CHIARA LUCE): La mente del corpo sottile, tutta concentrata nel chakra del cuore, si dissolve nella mente sottilissima, che dimora nella goccia cosidetta «indistruttibile» (perché dura sino alla morte ed è composta dall’unione del seme germinale paterno con l’ovulo materno; anche la mente sottilissima è detta « indistruttible », perché dura sino all’Illuminazione). Questo dissolvimento pone fine allo stato di incoscienza e procura al morente l’esperienza della «Chiara Luce ». «Essa è come il colore naturale di un cielo d’autunno all’alba, libero dalle tre cause di corruzione: la luce lunare, la luce del sole e l’oscurità. Questa apparizione è simile a quella di una coscienza in equilibrio meditativo, che realizza direttamente il vuoto» (Lati-Hopkins). Questo stato mentale è identificato coine «il vuoto assoluto» (sarvasunya, personificato con Vajradhara, tibetano Dorje Chan) (I quattro tipi di vuoto sin qui menzionati sono descritti anche da G. Tucci : Teoria e pratica del mandala, Ubaldlini, Roma 1969, p. 133.).

L’esperienza di «Chiara Luce», come dei tre precedenti «vuoti», sorge per tutti gli esseri senzienti che stanno morendo; ma gli esseri ordinari percepiscono queste esperienze come mere apparizioni, mentre l’esperto di Dharma ne ricava uno stato mentale di constatazione; nel primo caso si ha una chiara luce oggettiva, nel secondo una chiara luce soggettiva, «che è la coscienza di saggezza che sperimenta questo vuoto» (Lati-Hopkins). Ghesce Jampel diceva che questo stato di «Chiara Luce » può durare pochi secondi, oppure, per praticanti con grande esperienza di meditazione, fino a 7 giorni. Il dissolvimento della Chiara Luce è determinato dalla separazione della cellula germinale maschile, bianca, dalla cellula rossa femminile, cui si era unita al concepimento e a causa di questa separazione la mente indistruttibile si separa dal corpo: questo è l’esatto momento della morte per il Buddhismo.

I diversi modi di uscita dal corpo della « mente indistruttibile » sono descritti dettagliatamente nell’Abhidharmakosha di Vasubandhu (Vasubandhu, op. cit., vol. II, pp. 134-135.). Ma a questo punto qualche lettore ha ragione di chiedersi: come è possibile descrivere con tanta precisione le diverse fasi del processo di morte, dato che si tratta di una esperienza irreversibile? A questa domanda Gheshe Jampel Senghe rispondeva che, mentre gli esseri ordinari non hanno nessun ricordo e nessuna intuizione di tale esperienza, gli Yoghi a livello di Bodhisattva e Mahasattva hanno nella loro chiaroveggenza l’intuizione precisa del processo di morte e ne ricordano le singole fasi; inoltre se ne trovano descrizioni dettagliate nei Sutra e nei Tantra. J. Hopkins, nel libro più volte citato, afferma che la meditazione sulla morte «presenta con notevole chiarezza la base psicologica della pratica buddhista, rivelando la meta finale dell’ampia serie di sentieri graduali esposti dal Buddha: la trasformazione della morte in uno stato immortale di beneficio per gli altri».

In questa meditazione ha importanza soprattutto il risultato finale, cioè l’esperienza di Chiara Luce e desideriamo ricordarla con le parole di Lama Yeshe, nel suo ultimo insegnamento a Pomaia: «Si sperimenta lo stato della luce chiara, che è una esperienza di completa non dualità, come un cielo, uno spazio libero senza nuvole. Man mano che i quattro elementi, con il loro potere di assorbimento, ed anche il rompicapo dualistico, si sciolgono, si entra nella natura della luce chiara (…). Dobbiamo pensare che la nostra coscienza di saggezza abbracci tutto lo spazio universale della luce chiara e, nel momento in cui avremo la consapevolezza di questo spazio, comprenderemo che non vi è spazio per sentimenti di dolore e di autocommiserazione, che abbiamo spesso nei riguardi di noi stessi. In quello spazio universale non c’è proprio posto per queste cose misere, per cui quello che dobbiamo fare è di rimanere in quello spazio, in quella vastità, dove la dualità non esiste. Dobbiamo riconoscere che quello stato è un’esperienza di Dharmakaya, un’esperienza di chiara luce, è uno stato naturale, chiaro e limpido, che non è ostruito da nessuna cosa, dove non vi sono desideri sciocchi ed irrilevanti e dove non vi sono complicati conflitti dell’ego».

(Tratto dal sito https://maitreya.it/wp-content/uploads/2020/02/Paramita-16.pdf, https://maitreya.it/wp-content/uploads/2020/02/Paramita-17.pdf che ringraziamo per la sua compassionevole gentilezza verso tutti gli esseri che soffrono in questa dolorosa esistenza samsarica.)