Mipham: Il Punto Essenziale dell’introduzione alla Vera Natura della Mente

Mipam Gyatso: “La mente luminosa è sempre presente come il nostro innato stato naturale: l’importante è farne esperienza.”

Mipham: Il Punto Essenziale dell’introduzione alla Vera Natura della Mente

Traduzione, commento e testo tibetano a cura di Giuseppe Baroetto 2015.

1. Traduzione

Se abbiamo la capacità di sperimentare semplicemente i tre aspetti della stasi, del movimento e della consapevolezza, essendo praticanti della mahmudrā, il punto essenziale delle [istruzioni che guidano] gradualmente alla visione della verità della realtà ultima è che [in noi] c’è la matrice dei buddha, la vera natura della mente.

A questo riguardo, grazie alle istruzioni che affrontano il punto essenziale, [possiamo capire che] la radice di tutti i fenomeni è la mente; quindi, se ricerchiamo il punto essenziale della nostra mente, conseguiamo la conoscenza del segreto della mente, diventiamo esperti in ogni fenomeno e realizziamo il significato del non sé.

In questo [insegnamento], se ricorriamo alle istruzioni dei maestri realizzati, tralasciando le molteplici analisi teoriche, [dobbiamo sapere che il punto essenziale viene indicato come segue].

Quando osserviamo la nostra mente, rivolgendo [l’attenzione] all’interno [di noi stessi], se rimaniamo senza pensare a nulla, [questo stato mentale] è chiamato “stasi”.

Se scaturiscono diversi tipi di pensiero, [questo stato mentale] è chiamato “movimento”.

Qualunque dei due [stati mentali] si presenti, la nostra mente è consapevole di se stessa: questo è ciò che viene chiamato “consapevolezza”.

Se manteniamo di continuo tale [consapevolezza], comprendiamo da noi stessi il punto essenziale del fatto che le svariate apparenze di piacere e dolore sorgono dalla nostra mente e svaniscono in essa. Quando abbiamo questa comprensione, realizziamo che tutte le apparenze sono apparenze proprie della mente.

Dopodiché, osservando in modo diretto la condizione essenziale della mente nello stato di stasi o di movimento, anche se [la mente] si manifesta in svariati modi, capiamo che la sua condizione essenziale è vuota, in quanto non esiste assolutamente come se fosse qualcosa.

Inoltre, tale “vuoto” non è un vuoto di mera assenza come quello dello spazio, infatti comprendiamo che è la vacuità che ha l’eccellenza di tutti gli aspetti [della realtà], in quanto la sua natura non esiste come qualcosa di reale e nel medesimo tempo il fattore della chiarezza che conosce tutto, che è consapevole di tutto, è incessante.

Quando riconosciamo in questo modo il segreto punto essenziale della mente, sebbene il soggetto e l’oggetto dell’osservazione non siano distinti, sperimentiamo la vera natura innata della mente, che è la luminosità naturale: questa [indicazione] viene chiamata “introduzione alla consapevolezza”, essendo ciò che deve essere indicato [negli insegnamenti] della mahmudrā e dello dzogchen.

Se siamo in grado di mantenere [tale riconoscimento], sorge in noi la comprensione del senso di questa affermazione di Saraha: «Osservando più volte la condizione dello spazio sin dall’inizio pura, la visione cessa»; inoltre, come recita la Madre (Prajñ-pramitā), comprendiamo che «La mente è priva di mente: la vera natura della mente è luminosa». Non c’è nulla di più facile. L’importante è farne esperienza. Buona fortuna!

Mipham

2. Commento 2.1. Premessa

Il presente scritto di Mipham fu tradotto per la prima volta in inglese da Erik Pema Kunsang (Erik Pema Kunsang, Crystal Cave, Hong Kong, Rangjung Yeshe Publications, 1990, pp. 25-26. L’edizione riveduta del medesimo volume è intitolata Perfect Clarity.) e venne pubblicato nel 1990. La mia traduzione dall’originale tibetano è stata motivata dal desiderio di offrire ai lettori italiani interessati questa piccola, preziosa gemma della letteratura mistica tibetana. Consapevole del fatto che il significato effettivo del testo è evidente solo a chi conosce l’argomento trattato o almeno ha dimestichezza con la terminologia impiegata, ho deciso di includere un commento che riflette la mia comprensione della fonte. Le spiegazioni sono limitate alle informazioni fondamentali e sono indirizzate al praticante medio che, disponendo di una conoscenza basilare del Buddhismo, ha la possibilità di approfondire lo studio e l’esperienza seguendo gli insegnamenti di maestri qualificati.

2.2. L’autore

Mipham Gyatso (1846–1912) nacque nel Tibet orientale e sin da giovanissimo mostrò di possedere un’intelligenza non comune e una straordinaria capacità di comprensione e assimilazione di ogni scibile. Pur essendosi formato nella tradizione buddhista antica (nyingma) risalente al guru indiano Padmasambhava, Mipham fu eclettico nei suoi studi; e nei suoi scritti, raccolti in più di trenta volumi, si occupò dei più disparati argomenti con il medesimo acume intellettuale e un’esemplare apertura mentale. Perciò, considerando la sua eccezionale erudizione, potrebbe stupire che uno scritto come quello qui tradotto affronti un argomento talmente importante qual è il punto essenziale degli insegnamenti buddhisti più sacri e profondi, come la mahmudrā e lo dzogchen, in una modalità così semplice e disadorna. Ma sta proprio qui la grandezza di Mipham, vale a dire nella sua incredibile capacità di cogliere e indicare il cuore originario di ogni autentico sapere e, quindi, anche di queste antiche e segrete dottrine spirituali che spesso appaiono oltremodo complesse e difficili, da scoraggiare non solo indisciplinati e irriverenti barbari come noi, ma anche gli stessi devoti tibetani avvezzi alle più austere norme e pratiche spirituali.

2.3. Il Titolo

Il titolo non compare nel testo tibetano, ma costituisce il mio tentativo di enucleare il senso di questo breve scritto con poche parole tratte dal medesimo: “Il punto essen- ziale dell’introduzione alla vera natura della mente”. Il punto essenziale (gnad) è quello cruciale, ossia l’argomento, il tema o il luogo più significativo e importante. L’introduzione (ngo sprod) è l’insegnamento attraverso cui l’insegnante della mahmudrā o dello dzogchen presenta direttamente ciò che l’allievo deve comprendere e realizzare secondo queste tradizioni. L’introduzione consiste nell’indicare il profondo senso ultimo dell’insegnamento stesso ed è paragonabile alla presentazione di una persona nella circostanza di un incontro: ciò che qui viene presentato, però, non è qualcosa o qualcuno diverso da sé, bensì il proprio vero volto, la vera natura (chos nyid) della propria coscienza o mente (sems).

2.4. Il testo
2.4.1. A chi è indirizzato

«Se abbiamo la capacità di sperimentare semplicemente i tre aspetti della stasi, del movimento e della consapevolezza, essendo praticanti della mahmudrā…».

Il testo è indirizzato a chi è in grado di fare esperienza diretta dei tre aspetti della coscienza: la stasi, il movimento e la consapevolezza, che sono descritti in seguito. Chi ha la capacità di sperimentare semplicemente questo, senza aver bisogno di fare altro per poter poi un bel giorno, chissà quando, dedicarsi soltanto a ciò, è una persona fortunata che sa mettere in pratica gli insegnamenti essenziali chiamati in tibetano chagchen e dzogchen, come Mipham precisa verso la fine del testo.

Ho scelto di rendere il primo termine tibetano con quello sanscrito corrispondente, ossia mahmudrā, solo perché quest’ultimo è più noto. Mahā (chen, chen po) significa grande, importante, e mudrā (phyag, phyag rgya) vuol dire sigillo, segno, oltre che gesto simbolico: tutta la realtà reca il segno senza segno della vacuità o non sé, il sigillo supremo di ogni cosa. L’espressione “grande sigillo” designa quindi l’insegnamento più alto e importante che verte sulla comprensione e realizzazione della verità ultima, la natura di vacuità o non sé di tutti i fenomeni, su cui ritorneremo approfondendo lo studio del testo.

2.4.2. Il punto essenziale

Se siamo in grado di fare esperienza diretta di questo insegnamento, dobbiamo capire che «il punto essenziale delle [istruzioni che guidano] gradualmente alla visione della verità della realtà ultima è che [in noi] c’è la matrice dei Buddha, la vera natura della mente».

Questa modalità di insegnamento e pratica è una “via diretta” che prescinde sin dall’inizio dagli stadi graduali tipici di altri percorsi spirituali, nondimeno anch’essa è caratterizzata da una sorta di gradualità che consiste nelle tre fasi denominate riconoscimento, allenamento e stabilità: per prima cosa occorre riconoscere la realtà ultima, poi ci si deve allenare mantenendo il riconoscimento in ogni circostanza della vita, infine si deve conseguire la spontanea stabilità del riconoscimento.

Le tre fasi riguardano comunque un unico punto essenziale che è la visione della verità, in contrasto con la visione comune dell’apparenza illusoria. La verità è appunto la realtà ultima, la vera natura della nostra coscienza: essa non è altro che la “matrice dei Buddha” (in sanscrito sugata-garbha, sinonimo di tathgata-garbha), la potenzialità dell’illuminante conoscenza realizzata da un Buddha e presente per natura in tutti gli esseri senzienti. Questo testo è dedicato in particolare alla fase iniziale del riconoscimento di tale presenza in noi stessi.

2.4.3. Il metodo delle istruzioni

«A questo riguardo, grazie alle istruzioni che affrontano il punto essenziale, [possiamo capire che] la radice di tutti i fenomeni è la mente; quindi, se ricerchiamo il punto essenziale della nostra mente, conseguiamo la conoscenza del segreto della mente, diventiamo esperti in ogni fenomeno e realizziamo il significato del non sé».

Riguardo alla visione della verità, il metodo specifico impiegato dai maestri tramite le istruzioni (upadea) che vertono su questo punto essenziale consiste nell’indicare prima di tutto il fatto che la nostra mente o coscienza è la radice, la base, la sorgente di ogni fenomeno, ossia tutto ciò che percepiamo e conosciamo attraverso il nostro organismo.

Questo non significa che non esista una realtà oggettiva indipendente dalla nostra mente e che gli oggetti fisici, per esempio, siano una creazione della nostra mente, ma che il modo in cui percepiamo o conosciamo qualsiasi cosa è solo un’apparenza che sorge nella nostra mente e dalla nostra mente.

In seguito dobbiamo ricercare il punto essenziale della mente, ossia capire in cosa consiste. La nostra vera natura o identità è un segreto, perché non è una verità apparente, ma nascosta dai veli dei fenomeni che percepiamo. Noi crediamo ingannevolmente di conoscere noi stessi, quando invece viviamo in un costante stato di confusione, credendo di essere ciò che in realtà non siamo; perciò, non solo non sappiamo davvero chi o cosa siamo, ma non conosciamo neppure i fenomeni, cioè tutto ciò che percepiamo all’esterno e all’interno di noi, quindi qualsiasi cosa caratterizzi la nostra esperienza. Invece, quando scaturisce il chiaro e diretto riconoscimento della vera natura della nostra mente, possiamo anche capire la vera natura dei fenomeni e, soprattutto, comprendiamo senza più alcun dubbio cosa il Buddha intendeva davvero comunicare affermando che tutti i fenomeni sono “non sé” (antman).

2.4.4. Le istruzioni dei maestri realizzati

«In questo [insegnamento], se ricorriamo alle istruzioni dei maestri realizzati, tralasciando le molteplici analisi teoriche, [dobbiamo sapere che il punto essenziale viene indicato come segue]».

I maestri realizzati non sono necessariamente esseri che hanno conseguito la realizzazione completa, totale, ma sicuramente hanno realizzato la visione diretta della verità. Mipham era uno studioso fuori dal comune; però, grazie alle istruzioni dei maestri realizzati, aveva capito che era possibile, e a un certo punto anche necessario, tralasciare le molteplici analisi della verità fatte dagli esperti studiosi, chiamati in sanscrito paṇḍita. Da una parte questa modalità d’insegnamento diretta è importante per gli stessi studiosi, che rischiano di perdere tempo a memorizzare e discutere, senza conseguire lo scopo finale; dall’altra è importante per coloro che studiosi non sono, giacché la visione della vera realtà trascende l’analisi concettuale.

2.4.5. La stasi

«Quando osserviamo la nostra mente, rivolgendo [l’attenzione] all’interno [di noi stessi], se rimaniamo senza pensare a nulla, [questo stato mentale] è chiama- to “stasi”».

Per avere il riconoscimento iniziale della propria vera natura è necessario osservare se stessi interiormente. A questo fine si deve rivolgere l’attenzione a sé. Non si tratta di focalizzare la mente su una parte del corpo, oppure su sensazioni, immagini menta- li o emozioni: semplicemente si deve osservare il proprio stato mentale senza cercare di modificarlo in nessun modo.

Se accade che la mente non pensi a nulla, cioè rimanga ferma anziché ricordare il passato, anticipare il futuro o giudicare il presente, senza ragionare, né seguire sensa- zioni, immagini o emozioni, questo stato mentale è chiamato “stasi”; in tibetano si dice nepa (gnas pa). Può durare pochi secondi o minuti, ma la cosa importante è lasciare che accada. A volte chiudere gli occhi può aiutare.

2.4.6. Il movimento

«Se scaturiscono diversi tipi di pensiero, [questo stato mentale] è chiamato “movimento”».

Il secondo aspetto della mente è quello dell’attività, caratterizzato dalla proliferazione di pensieri vari. In meditazione non si tratta di pensare in modo intenzionale ma, osservando la propria mente, occorre soltanto notarne l’eventuale attività, qui chiamata “movimento”; in tibetano si dice gyua (‘gyu ba).

2.4.7. La consapevolezza

«Qualunque dei due [stati mentali] si presenti, la nostra mente è consapevole di se stessa: questo è ciò che viene chiamato “consapevolezza”».

Adesso dobbiamo notare che la nostra mente o coscienza non è solo caratterizzata di solito dal movimento e in rare circostanze dalla stasi: in noi c’è anche la capacità di essere consapevoli o coscienti di noi stessi, tanto nella stasi quanto nel movimento.

Quando non pensiamo, siamo coscienti di noi stessi nello stato di stasi? Viceversa, quando pensiamo, siamo coscienti di noi stessi nello stato di movimento?

La consapevolezza di sé o autocoscienza non è semplicemente la consapevolezza della stasi o del movimento, che è varia e mutevole in quanto dipende da ciò di cui si è consapevoli o coscienti: essa è proprio la consapevolezza della consapevolezza, la coscienza della coscienza, unica e immutabile nella stasi e nel movimento. Il termine tibetano tradotto con “consapevolezza” è rikpa (rig pa).

2.4.8. Le apparenze

«Se manteniamo di continuo tale [consapevolezza], comprendiamo da noi stessi il punto essenziale del fatto che le svariate apparenze di piacere e dolore sorgono dalla nostra mente e svaniscono in essa. Quando abbiamo questa comprensio- ne, realizziamo che tutte le apparenze sono apparenze proprie della mente».

Quando riusciamo a riconoscere e distinguere i tre aspetti fondamentali della mente, definiti stasi, movimento e consapevolezza, dobbiamo mantenere la consapevolezza di noi stessi mentre osserviamo ciò che appare nella nostra mente sotto forma di esperienze piacevoli, dolorose, oppure anche neutrali.

Si tratta di dedicare un po’ di tempo a questa rilassata osservazione non reattiva, eventualmente facendo molte sessioni meditative inizialmente brevi. Imparando a osservare se stessi in questo modo, non è difficile rendersi conto che tutte le esperienze sorgono dalla propria mente e lì svaniscono.

Anche se esistono oggetti fuori di noi, è in noi stessi che li percepiamo, così come la nostra mente ci consente di percepirli. Perciò, quando la percezione cambia o cessa, è sempre nella nostra mente o coscienza che ciò avviene, anche se questo dipende da un mutamento avvenuto nell’oggetto esterno. In tal senso possiamo riconoscere che, in effetti, tutte le apparenze da noi percepite sono apparenze proprie della nostra mente. Ma qual è la vera natura della mente in cui tutto ciò accade?

2.4.9. Il vuoto

«Dopodiché, osservando in modo diretto la condizione essenziale della mente nello stato di stasi o di movimento, anche se [la mente] si manifesta in svariati modi, capiamo che la sua condizione essenziale è vuota, in quanto non esiste assolutamente come se fosse qualcosa».

La realtà di sé, così come viene percepita da chi non si sofferma a indagare sulla propria vera natura, è un’illusione: si può credere di essere il proprio corpo fisico (rpa) e le proprie percezioni degli oggetti sensoriali; si può creder di essere le pro- prie sensazioni (vedanā) piacevoli, spiacevoli o neutre; si può credere di essere i pro- pri concetti (sajñā), con cui si etichetta qualsiasi cosa percepita o pensata; si può credere di essere i propri impulsi psichici (saskra), le emozioni e tutti gli svariati stati mentali che determinano le proprie azioni e reazioni; si può credere di essere la propria coscienza empirica (vijñna), ossia la percezione delle impressioni fisiche e mentali.

Tuttavia, se si osserva attentamente la propria esperienza, mantenendo la consapevolezza di se stessi, è possibile riconoscere che tutti questi cinque aggregati (skan- dha) di dati psicofisici sono per natura mutevoli, transitori e non sono sotto il proprio totale controllo. Di conseguenza, anche se fanno parte della propria apparente esperienza di sé, in realtà non sono veramente sé, ossia sono “non sé” (antman).
I fenomeni della propria esperienza psicofisica sono vuoti (śūnya) di sé, così come la propria mente nella sua condizione essenziale è vuota di qualsiasi fenomeno che va e viene, sorge e svanisce, inclusi il desiderio, l’avversione e la confusione:3 essa ne è vuota nel senso che essenzialmente non è definita, determinata o costituita da nessuno di tali attributi e, quindi, non esiste come un fenomeno. Dunque, si dovrebbe osservare se stessi finché questa indicazione della propria condizione essenziale non diventa evidente e non si hanno più dubbi.

2.4.10. La chiarezza

«Inoltre, tale “vuoto” non è un vuoto di mera assenza come quello dello spazio, infatti comprendiamo che è la vacuità che ha l’eccellenza di tutti gli aspetti [della realtà fenomenica], in quanto la sua natura non esiste come qualcosa di reale e nel medesimo tempo il fattore della chiarezza che conosce tutto, che è consapevole di tutto, è incessante».

Il vuoto in cui consiste la condizione essenziale della mente non è riducibile all’assenza di qualcosa, similmente al vuoto fisico dello spazio celeste dove non sono presenti oggetti. Occorre infatti verificare che la vacuità della mente “ha l’eccellenza di tutti gli aspetti” della realtà fenomenica. Questo significa che, pur non esistendo come qualcosa di fenomenico, la mente nondimeno ha la qualità della chiarezza, che le consente di essere cosciente, consapevole di sé e di qualsiasi cosa, come un lume la cui luce incessante illumina la realtà. (Cfr. Kevaḍḍha Sutta (Dgha Nikya 1.11) e Brahma-nimamantanika Sutta (Majjhima Nikya 49), dove la coscienza di un buddha viene definita come «coscienza priva di attributo, senza fine, del tutto luminosa» (viññāṇaanidassanaanantasabbato pabhaṃ). Se così non fosse, la mente di un buddha sarebbe vuota di ogni impurità, ma non potrebbe conoscere nulla e non sarebbe neppure in grado di irradiare bontà e compassione.

2.4.11. Non distinzione

«Quando riconosciamo in questo modo il segreto punto essenziale della mente, sebbene il soggetto e l’oggetto dell’osservazione non siano distinti, sperimentia- mo la vera natura innata della mente, che è la luminosità naturale: questa [indicazione] viene chiamata “introduzione alla consapevolezza”, essendo ciò che deve essere indicato [negli insegnamenti] della mahmudre dello dzogchen».

Il punto essenziale della mente è la propria vera natura in quanto consapevolezza vuota e chiara; è un segreto, perché la mente abituata alla distrazione è di continuo oscurata dalla confusione su di sé. La conoscenza effettiva di questo segreto non è un sapere nozionistico, un’idea che può essere acquisita e dimenticata, bensì una comprensione personale e diretta data dalla scomparsa dell’oscurità della confusione. In questo riconoscimento di sé non c’è dualità tra soggetto e oggetto dell’osservazione: il soggetto che osserva e l’oggetto osservato non sono distinti o separati, giacché sono la medesima realtà, la stessa consapevolezza consapevole di se stessa tanto nella stasi quanto nel movimento.

Perciò, sebbene non ci sia qualcosa da sperimentare che sia riconoscibile o determinabile come un oggetto distinto dal soggetto, si fa comunque esperienza della vera natura della mente innata, presente in sé sin dall’inizio. Essa è sempre presente naturalmente, a differenza degli aspetti superficiali della mente che sono stati acquisiti e cambiano col tempo, come i ricordi, le emozioni, i concetti e le abilità dovute allo sviluppo dell’intelligenza. La vera natura della coscienza è consapevolezza vuota e chiara in un neonato così come in un vecchio, anche se entrambi non la riconoscono.

L’espressione “luminosità” o “chiara luce” risale all’insegnamento del Buddha, al quale la tradizione antica attribuisce queste parole: «la mente è luminosa, ma è oscurata da impurità avventizie». La coscienza è per natura luminosa, ossia pura, chiara, limpida, ma è velata da impurità che sopraggiungono e si accumulano col tempo, come il desiderio smodato, l’odio e l’offuscamento mentale dovuto all’ignoranza della vera realtà.

La condizione reale della mente o coscienza, per natura luminosa, è ciò che costituisce la matrice dei Buddha, il potenziale dell’illuminazione, il nostro vero volto che ci viene indicato direttamente in questa “introduzione alla consapevolezza”, cuore degli insegnamenti più essenziali e profondi del Buddhismo tibetano, conosciuti come chagchen o mahmudrā e dzogchen o atiyoga.

2.4.12. Non mente

«Se siamo in grado di mantenere [la consapevolezza], sorge in noi la compren- sione del senso di questa affermazione di Saraha: “Osservando più volte la condizione dello spazio sin dall’inizio pura, la visione cessa”; inoltre, come recita la Madre (Prajñ-pramit), comprendiamo che “La mente è priva di mente: la vera natura della mente è luminosa”. Non c’è nulla di più facile. L’importante è farne esperienza. Buona fortuna!».

Per essere certi dell’avvenuta visione della verità della realtà ultima dobbiamo rilassarci nello spazio profondo della nostra coscienza, rimanendo consapevoli di noi stessi come pura consapevolezza.

La prima citazione, tratta dal Dohkoa di Saraha (Cfr. Kurtis R. Schaeffer, Dreaming the Great Brahmin, New York, Oxford University Press, 2005, p. 144; Roger R. Jackson, Tantric Treasures, New York, Oxford University Press, 2004, p. 70.), antico maestro indiano della mahmudrā, implica la similitudine tra lo spazio della coscienza e lo spazio del cielo terso: se ci focalizziamo sulla profondità dello spazio celeste, non vediamo più gli oggetti attorno a noi; in modo analogo, se osserviamo ripetutamente il nostro profondo spazio interiore, per natura puro, a un certo punto la nostra abituale visione caratterizata dall’identificazione di noi stessi con il mutevole contenuto psichico viene meno.

La mente intesa come coscienza empirica caratterizzata da attributi è la mente fenomenica condizionata dall’apparenza degli oggetti percepiti, invece la vera natura della mente non è alterata dai fenomeni, così come lo spazio celeste non è modificato da ciò che vi appare. Dunque, si tratta di riconoscere che la mente pura e limpida, la luminosa coscienza senza attributi, è libera dalla mente fenomenica, ne è priva, ovvero è “non mente”, come recita il testo originario della Prajñ-pramitā. La citazione di Saraha riecheggia nell’insegnamento sulla mahmudrā trasmesso da Tilopa a Nāropa sulle rive del Gange: «Quando si osserva il centro dello spazio, si cessa di vedere [tutto il resto]; così, se si osserva la mente con la mente, la massa dei pensieri svanisce e si consegue il sommo risveglio» (dper na nam mkha’i dkyil bltas mthong bar ’gag par ’gyur/ /de bzhin sems kyis sems la bltas byas na/ /rnam rtog tshogs ’gag bla med byang chub thob//).
«Non c’è nulla di più facile», conclude Mipham, perché la mente luminosa è sempre presente come il nostro innato stato naturale. «L’importante è farne esperienza», senza ricercare la cosiddetta “illuminazione” altrove, sperando di poterla ottenere prima o poi tramite chissà quale tecnica o grazie al potere di qualcun altro.

Buona fortuna a tutti!

3. Testo tibetano

La fonte è accessibile online: www.tbrc.org, TBRC W2DB16631, mi pham rgya mtsho, “phyag chen pa’i gnas ‘gyu rig gsum nyams len byed tshul/”, in gsung ‘bum, khreng tu’u, gangs can rig gzhung dpe rnying myur skyobs lhan tshogs, 2007, vol. 32, pp. 338-339.

(Tratto dal sito https://www.academia.edu/27871158/Mipham_IL_PUNTO_ESSENZIALE per la sua compassionevole gentilezza verso tutti gli esseri che soffrono in questa dolorosa esistenza samsarica.)