Lama Denis Tendrup: La pratica del rifugio
1. Per capire bene il significato del rifugio, è opportuno prima di tutto evitare malintesi, dovuti al fatto che al “rifugiarsi” può essere attribuito un significato negativo, come di una manifestazione di debolezza e di rinuncia. “Prendere rifugio” evoca spesso in effetti l’idea di un arrendersi, di uno sfuggire di. qualcuno che “si rifugia” in ricoveri d’ogni genere per non confrontarsi con la realtà e con le proprie responsabilità.
Nel Dharma, “prendere rifugio” implica l’idea di protezione, ma anche quella di un cammino da fare e del coraggio necessario per farlo. Non si tratta affatto di arrendersi, ma, al contrario, di far fronte alla realtà assumendo pienamente la propria responsabilità di essere umano.
Facciamo un esempio: chi vive in un paese dove la libertà è negata e la situazione politica ed economica è intollerabile, può decidere di rifugiarsi in un altro paese, libero e prospero. Sarebbe una scelta saggia, ma non priva di sacrifici, perché si tratta di lasciare il luogo dove si è vissuti e le relazioni che vi si sono intrecciate, per intraprendere una odissea verso l’ignoto, con la probabilità di incontrarvi difficoltà e pericoli imprevedibili. È comunque una scelta coraggiosa che richiede rinuncie ed impegno.
Analogamente, nel Dharma “prendere rifugio” significa esiliarsi dal samsara con il suo carico di alienazioni e sofferenze e intraprendere il grande viaggio del Dharma assieme ad altri rifugiati (i membri del Sangha), in direzione del riparo definitivo: lo stato di buddha. Decidere di diventare rifugiati in questo senso è la più alta responsabilità che si possa assumere come esseri umani: per noi stessi ed anche per i nostri simili, perché questo cammino verso la libertà ci metterà in grado di aiutarli ad uscire a loro volta dalla prigione del samsara, verso la libertà e l’autentica felicità del risveglio.
2. L’incontro con il Dharma avviene di solito dopo svariate ricerche che ci hanno impegnato per qualche tempo lungo itinerari più o meno complicati: abbiamo letto dei libri, abbiamo raggiunto una certa comprensione, forse ci siamo anche affidati ad esperienze attraverso contrade di vario genere. È un po’ quanto capita ad un turista, un aspirante alpinista, che ha consultato libri dedicati alla montagna, apprezza la bellezza dei paesaggi alpini, che si è messo in viaggio, ha visitato dei posti, ha persino fatto qualche assaggio di scalata, ma non si è ancora cimentato in una vera ascensione. Si è fermato ad un approccio esterno: ai piedi di una parete rocciosa, si è detto che sarebbe bello scalarla, ma non ha fàtto il passo necessario per l’arrampicata, con quanto vi è inplicito di metodo e di sforzo.
Fare questo passo è “prendere rifugio”, con il conseguente impegno di arrampicarsi lungo una via ben precisa, con l’aiuto di una mappa, di una guida competente e di qualche compagno di viaggio: lo stato di buddha è la vetta da raggiungere, il Dharma è la via ed anche la mappa, il Sangha sono la nostra guida e i nostri compagni di scalata.
La presa di rifugio segna l’inizio di un cammino e di una esercitazione costante; è riconoscere l’utilità e la necessità di una via già percorsa da altri e nella quale si ha fiducia. Da questo punto di vista è un gesto di umiltà e di saggezza.
Prendere rifugio comporta anche la rinuncia all’ atteggiamento “egodidatta”, inteso come quello, abbastanza diffuso, di chi racimola qua e là, seguendo l’ispirazione del momento per scegliere nel supermarket spirituale quanto sembra fatto a misura. della propria pratica personale. Questo atteggiamento, inevitabile spesso per un principiante, espone al rischio dell’autoillusione, con pericoli di vario genere e non porta molto lontano. I cocktails spirituali che ne derivano provocano molta confusione, mentre un apprendimento serio richiede metodo, coerenza e costanza. In questo senso, prendere rifugio è dichiararsi coraggiosamente determinati a compiere lo sforzo necessario per procedere nel Dharma fino allo stato di buddha.
Avremo per guida il Dharma e per sostegno il Sangha con l’aiuto del maestro, ma solo noi potremo compiere lo sforzo necessario per andare avanti, nessuno può farlo al posto nostro. L’arrampicata non si farà da sola, dovremo avanzare passo dopo passo, perché né la guida, né l’insegnamento ci caricheranno sulle loro spalle. Dovremo procedere da noi, lavorando su noi stessi con gli altri e con il mondo.
3. Nella prospettiva del Dharma, la presa di rifugio esprime un’attitudine mentale diversa da quella di chi cerca rifugio in una prospettiva teista, dove ci si abbandona “all’altro” per essere salvati. Non si tratta di affidarsi a qualcosa o a qualcuno dicendogli: “Ti amo, mi affido a te, accetto il tuo insegnamento, accetto tutto; ti supplico di salvarmi”.
Nessuno ci salverà miracolosamente, solo la nostra costanza e la nostra energia sono i fattori determinanti del cammino. È importante avere chiara l’idea che non si prende rifugio in una entità, sia pure divina, in un essere supremo o in ogni altra cosa che esista al di fuori della mente.
I Tre Gioielli non sono un Dio in senso antropomorfico e dualistico. Il rifugio al quale si tende, la meta alla quale si aspira altro non sono che lo stato di buddha, la natura pura e non dualistica della mente. Ordinariamente, viviamo nella realtà esteriore e superficiale del samsara, la bolla d’aria del nostro ego. Incastrati nei suoi condizionamenti ed esposti alle sue sofferenze, cerchiamo ogni sorta di ripari, nel tentativo di trarne sicurezza, accumulando garanzie e protezioni di ogni genere: affettive, finanziarie, materiali, spirituali… appoggiandoci a persone, istituzioni, idee, filosofie o religioni. Sono tentativi che talora riescono, almeno temporaneamente e relativamente, ma si tratta di successi transitori che prima o poi falliscono.
Inoltre, la frenesia aggressiva investita in questi tentativi suscita essa stessa nuovi problemi. Questi “rifugi” relativi e temporanei, quando si trasformano o svaniscono – ed è questa la loro ineluttabile prospettiva – ci lasciano senza rifugio, trascinandoci nella loro rovina. Gli amici ci ingannano, i beni si disperdono, le costruzioni crollano, le protezioni si defilano, le ideologie tramontano. Congiunti, parenti, amici, persone influenti, ricchezze, assicurazioni e filosofie sono soltanto rifugi contingenti e limitati. Il “rifugio” del Dharma è altra cosa. Al livello più alto è la realizzazione della natura di buddha, che è la pienezza della vacuità, non-dualistica. A livello relativo, consiste in intuizioni anticipatrici del rifugio ultimo, rese possibili grazie alla nostra maturazione, agli insegnamenti ricevtiti e agli altri praticanti, cioè ai Tre Gioielli.
Questo rifugio relativo è un punto d’appoggio che, utilizzato come base della pratica, ci può portare al rifugio ultimo, al quale possiamo veramente affidarci senza rischi di inganni, salvo quelli che possono derivare dalle nostre illusioni. Il rifugio dei Tre Gioielli sarà la nostra protezione e senza mai abbandonarci ci condurrà ali’ altra riva, al di là del samsara. Confidando in esso, avanzeremo senza paura, anche se la tempesta travolge intorno a noi le condizioni del mondo esterno e dei suoi aleatori rifugi.
4. Buddha ha aspetti diversi e, in particolare, l’aspetto personale di un uomo e quello, impersonale, della natura di buddha, la mente pura. Questi aspetti sono sostanzialmente concomitanti e complementari, ma le scuole hinayana, mahayana e vajrayana ne dànno rappresentazioni diverse, accentuandone l’uno o l’altro e questo spiega la differenza di prospettive, senza che ciò produca contraddizioni.
L’aspetto personale e storico del Buddha è anzitutto Sakyamuni Buddha, l’uomo che visse e insegnò nell’India centrale 2500 anni fa e che è all’origine degli insegnamenti trasmessi successivamente. È un uomo che ha realizzato lo stato di Risveglio, di cui è potenzialmente dotato ogni essere; partendo dalla propria realizzazione, il Buddha storico ha trasmesso un insegnamento che permette ad altri di scoprire questo stato e le qualità ad esso inerenti. Il Buddha nel suo aspetto storico è anzitutto l’esempio di un uomo che, nato in una famiglia principesca, con tutto il benessere che questa condizione poteva offrire, comprese la realtà dell’esistenza e delle sofferenze: la nascita, la malattia, la vecchiaia, la morte. Abbandonò la sua condizione regale per andare alla ricerca della verità; anzitutto, come asceta, sperimentò diverse discipline presso maestri indù e quindi, convinto che esse non lo avrebbero condotto al risveglio, le abbandonò, praticò la meditazione e attraverso di essa raggiunse la comprensione interiore, il sollievo del risveglio. Divenne un thatagata, un essere pienamente risvegliato che per molti anni trasmise i primi insegnamenti, tramandati successivamente fino ai giorm nostri. Per prendere rifugio nel Buddha la formula tibetana dice letteralmente: “Io vado verso il Buddha, l’uomo supremo, per rifugio”. Buddha è un uomo che divenne uomo supremo. La sua vita ha per noi un valore esemplare: essa dimostra che è possibile ad un uomo raggiungere la più alta realizzazione spirituale. Buddha non è un dio che ci salva miracolosamente dall’alto dei cieli. Andare per rifugio verso il Buddha significa assumerlo ad esempio seguendo la via che ci ha aperto. L’aspetto impersonale e atemporale del Buddha è la sua realizzazione della natura di · buddha, la natura pura della mente, il suo stato completamente purificato, liberato da ogni illusione, da ogni passione, da tutti i veli e sbocciato alla realizzazione completa.
5. Il mahayana presenta il buddha e la natura di buddha da lui realizzata come i tre corpi del buddha: non corpi in senso fisico, ma livelli di risveglio. Il primo corpo di un buddha è il dharmakaya: corpo di dharma, corpo di realtà, corpo assoluto o corpo di vacuità (si può tradurre in modi diversi). È la mente di un buddha al di là della forma, oltre le categorie della mente concettuale; oltre ogni sua caratteristica, determinazione o rappresentazione. Questo dharmakaya è il risveglio onnipresente, onnipervadente, diffuso in tutti i fenomeni, al di là della temporalità, in ogni luogo e in ogni tempo. Ogni essere e ogni esistenza ne sono compenetrati, la sua esperienza è quella del risveglio supremo. Il secondo corpo di un buddha è il sambogakaya o corpo di esperienza perfetta: è l’aspetto nel quale il buddha si manifesta a grandi bodhisattva, cioè ad esseri la cui realizzazione spirituale è già molto avanzata, che hanno già raggiunta una certa esperienza diretta della natura della mente. La manifestazione di questo corpo di esperienza perfetta è il prodotto dell’incontro fra le potenzialità inerenti al dharmakaya e il karma positivo di grandi bodhisattva; ecco perché può essere sperimentata solo da loro. Il terzo corpo di un buddha è il nirmanakaya o corpo di emanazione: è l’aspetto concreto e fisico col quale il buddha si manifesta nel nostro mondo. Un essere che raggiunge lo stato di buddha possiede un corpo fisico che può assumere tre diverse manifestazioni: emanazione sublime, come quella di Sakyamuni Buddha, la cui vita si è snodata in 12 tappe; emanazione artigianale, propria di esseri risvegliati che si esprimono nelle arti e mestieri (dovunque si possono riscontrare dei buddha!); emanazione per nascita, con forme molto diverse, propria dei maestri o lama e in questo caso si hanno gradi e manifestazioni di vario genere. La mente del buddha è il dharmakaya, corpo di vacuità di cui abbiamo parlato; il suo corpo è il nirmanakaya, corpo di emanazione; l’espressione delle sue facoltà nei rapporti di relazione è il sambogakaya, corpo di esperienza perfetta. Corpo, parola e mente di un buddha hanno alte qualità. La sua mente, in particolare, possiede quattro qualità principali: la conoscenza originale, l’amore compassionevole, il potere di protezione e l’attività risvegliata.
6. Dharma, nel contesto del rifugio, si riferisce all’insegnamento del Buddha, al Buddhadharma. Questo insegnamento rivela il modo di essere della realtà e chiarisce la natura dei fenomeni: come si conoscono e si percepiscono, inizialmente a livello relativo in forma illusoria. Successivamente, partendo da questa compreilsione, il dharma insegna come si può, con una giusta pratica di meditazione, uscire dalle illusioni e raggiungere l’esperienza di conoscenza diretta, che rivela la realtà di base, al di là dei veli dell’ego e della dualità, con tutte le qualità risvegliate inerenti a tale esperienza. Il dharma indica, in una 8 prospettiva di saggezza e di compassione, come si può uscire dalla confusione e dalle sofferenze e raggiungere la libertà e la felicità. Il dharma ha due aspetti: dharma in quanto parole del Buddha, consegnate ai testi, e dharma in quanto esperienza e realizzazione di queste parole. Gli scritti del dharma sono numerosissimi. Nella tradizione del mahayana tibetano c’è la collezione del Kangyur, “la traduzione delle parole del Buddha”, in 108 volumi raggruppati in tre raccolte (o Tripitaka): i sutra, il vinaya e I’ abhidharma. Il vinaya tratta della disciplina, sopratutto monastica; i sutra sono i resoconti dei numerosi insegnamenti offerti dal Buddha in tante occasioni; l’ abhidharma è la descrizione della realtà, l’insegnamento teorico. Oltre al Kangyur, c’è il Tangyur, che raccoglie i principali commentari elaborati sulle parole del Buddha dai maestri indiani; comprende 2 13 volumi. Ci sono anche gli scritti del vajrayana sui diversi tantra, alcuni dei quali inclusi nel Kangyur; si tratta di testi particolari con le pratiche connesse ad un aspetto della natura di buddha, raffigurata nell’immagine simbolica di una divinità. Ogni tantra – e sono numerosi – trasmette l’insegnamento di una divinità. Sono infine da ricordare gli innumerevoli testi e commentari scritti dai maestri tibetani a partire dall’introduzione del buddhismo in Tibet, nel VII secolo, fino ai giorni nostri. Gli scritti, “ciò che è stato detto” come insegnamento, sono la parola e la lettera della tradizione, sono delle indicazioni, una mappa che conduce gradualmente ad una esperienza diretta del territorio costituito dal dharma in quanto realizzazione. Questa realizzazione è lo spirito che anima la lettera degli scritti e le conferisce vitalità. La mappa, senza l’esperienza che sappia decifrarla e collegarla al territorio per permetterci di attraversarlo, sarebbe lettera morta. Questa esperienza del dharma si acquisisce nella disciplina della meditazio- ne e si è trasmessa fino a noi, con la sua adattabilità, in un lignaggio ininterrotto da maestro a discepolo. I due aspetti del dharma costituiscono inscindibilmente la via, l’insegnamento al quale ci si riferisce, il dharma come rifugio. Per prendere rifugio nel dharma la formula tibetana, che segue quella indicata sopra per il buddha, dice letteralmente: “Vado verso il dharma, radicalmente libero da passioni, per rifugio”. Questa assenza di passioni o di spirito aggressivo è l’espressione del non-io, è l’assenza degli atteggiamenti aggressivi e passionali dell’io e questa è l’essenza del dharma. È una qualità di dolcezza, di non-violenza, che supera la virulenza e le illusioni dell’ego.
7. Il sangha è la comunità delle persone che seguono il dharma, che lo praticano e che, in certi casi, lo insegnano a livello delle proprie esperienze e realizzazioni. Si distingue un sangha ordinario, composto da tutte le persone che hanno preso rifugio e si sono impegnate nel sentiero; e un sangha supremo, composto dagli esseri realizzati, i bodhisattva a partire dalla prima “terra”, quella dei praticanti che hanno raggiunto il punto di non ritorno nel samsara. Questa prima terra non è ancora il risveglio definitivo, ma è la liberazione dai condizionamenti del ciclo delle esistenze. La formula tibetana per prendere rifugio nel sangha dice letteralmente: “Vado verso il sangha, l’assemblea suprema, per rifugio”. L’assemblea del sangha non è un’assemblea ordinaria, perché ha una coesione che deriva dal dharma ed è vincolata da una pratica comune. Si prende rifugio sopratutto nel sangha supremo come guida, essendo l’unico che, libero dai condizionamenti del samsara, ci può aiutare, guidare e offrirci rifugio. Ma è molto importante anche il sangha ordinario, come fraternità, fratellanza spirituale. La pratica del dharma dipende senz’altro da noi e solo da noi, ma è anche collegata al sangha e si sviluppa interagendo con esso.
8. Il rifugio è il primo impegno nel dharma, la base del suo sviluppo e l’inizio di tutte le sue pratiche. Prendendo rifugio, diventiamo praticanti del dharma; in tibetano si dice nampa, che significa: qualcuno che è all’interno. La presa di rifugio distingue le persone che sono all’interno del dharma da quelle che sono all’esterno. Questa interiorità esprime la decisione di praticare gli insegnamenti interiormente, di farne una pratica personale. Prendendo rifugio, abbandoniamo la condotta turistica dell’escursionismo spirituale, per entrare veramente nella pratica. Una presa di rifugio di questo tipo esprime l’intenzione inflessibile di entrare nella via: “A partire da questo momento e – fino a quando raggiungerò il risveglio supremo di un buddha per il bene di tutti gli esseri, io decido, nei limiti delle mie capacità, di procedere sul sentiero del dharma, di seguirne gli insegnamenti e di praticarli nel seno del sangha”. La dichiarazione di questo impegno prende la forma di una cerimonia semplice, che consiste essenzialmente nell’affermazione di essere decisi ad andare avanti nello spirito del dharma. L’affermazione esplicita, nell’ambito della cerimonia del rifugio, conferisce al nostro impegno una forza ed un impatto ben maggiori di una adesione soltanto implicita, che rimarrebbe vaga e superficiale. Inoltre il rituale del rifugio produce una connessione spirituale con i Tre Gioielli. Un impegno franco è indispensabile, perché senza di esso non si avrebbe un avanzamento autentico. Ma questo impegno non comporta atteggiamenti, verso altre tradizioni, di chiusura e meno che mai di rigetto. Prendere rifugio determina una connessione positiva con i Tre Gioielli, che non richiede abiure o rifiuti di alcun genere. Si può o addirittura si deve mantenere fiducia nelle altre vie tradizionali autentiche. Un giusto atteggiamento comprende sia l’impegno autentico, sia l’apertura mentale: da un lato tolleranza e rispetto verso le diverse tradizioni spirituali autentiche come approcci complementari e dall’altro, per un reale progresso, impegno e pratica specifica nel dharma. Prendendo rifugio, accettiamo di abbandonare il nostro mondo ordinario e di mettere in discussione noi stessi e tutte le cose che fino a quel momento sono state le nostre referenze abituali. Ci impegniamo ad avanzare su un sentiero verso un mondo sconosciuto: alla partenza, non sappiamo dove veramente andiamo, dove arriveremo, ma avvertiamo che l’esperienza merita di essere fatta. All’inizio, siamo anche divisi tra il desiderio di seguire il dharma e le reticenze che ci fanno esitare. La presa di rifugio è il momento della scelta, della decisione di compiere il primo passo: abbandoniamo ogni esitazione e scegliamo di fare l’esperienza. È quasi una scommessa o una sfida, perché non abbiamo certezze; sentiamo dire che esiste un sentiero che porta al risveglio, ma non ne abbiamo né esperienza, né conoscenza. Non mancano segnali incor;iggianti, ma esistono anche forti incertezze e non disponiamo di vere e proprie garanzie. L’oggetto della scommessa è nella possibilità di avanzare verso il risveglio, di trasformarci interiormente e c’è quindi bisogno di fiducia, una fiducia sperimentale, come quella del ricercatore che accetta una ipotesi per sottoporla al test dell’esperimento. Un ricercatore non tenterebbe la verifica sperimentale di. una ipotesi se non ne intravedesse un certo fondamento. È di questo tipo la fiducia di cui abbiamo bisogno; non si tratta di fede cieca, ma di una apertura che ci incoraggi ad entrare nel sentiero. L’ipotesi che assumiamo è la possibilità di una evoluzione che ci riveli gradualmente la salvezza finale, la natura di buddha. Prendere rifugio in questo modo vuol dire essere aperti e disponibili. Il rifugio non ha controindicazioni ed è per questo che viene sempre consigliato, a chi ne abbia il desiderio.
9. Questa motivazione, questo orientamento verso il risveglio, espresso con la prima presa di rifugio, è ripetuto all’inizio di ogni pratica, qualunque essa sia. È l’ispirazione iniziale, la base di ogni pratica, cui offre l’orientamento spirituale e la consapevolezza dell’obiettivo; è un mezzo per entrare nell’influenza spirituale dei Tre Gioielli. Abbiamo già detto che la natura di buddha è onnipresente, dovunque ci si trovi e qualunque cosa si faccia; ma non viene percepita direttamente. Possiamo accostarci ed aprirci ad essa con l’ausilio di alcuni supporti: una immagine mentale del Buddha, i Tre Gioielli, possono facilitarne la presenza immanente e favorire al nostro interno un atteggiamento di apertura e di aspirazione. Recitare una formula di rifugio può aiutare a rivolgere la nostra mente verso il risveglio, orientando attenzione ed energie in questa direzione. La presa di rifugio è una forma di preghiera, non nel senso di una richiesta o di un colloquio con i Tre Gioielli, ma nel senso di una apertura della nostra mente alla presenza risvegliata e all’influenza spirituale della natura di buddha. Il rifugio può essere preso in modo formale o informale. Si può rivolgere la mente al risveglio o ai Tre Gioielli in modo informale con un semplice atto di pensiero, di ricordo, di apertura, nella pausa di qualche istante. Si può prendere rifugio, in modo formale o informale, in ogni momento, in qualsiasi circostanza della nostra vita quotidiana, ogni volta che avvertiamo il bisogno di una ispirazione o di una protezione. La forma è di grande aiuto, ma rimane essenziale avere una giusta attitudine interiore, che deve sempre accompagnare le formule e le cerimonie e che può essere coltivata anche senza le forme. Così praticato, il rifugio è cosa viva, sorgente di ispirazione, che ci accompagna in ogni momento della quotidianità.
10. Abbiamo parlato finora dei Tre Gioielli, che sono il rifugio fondamentale, essenziale all’inizio del cammino, sia nell’hinayana che nel mahayana. Trattiamo ora di altri aspetti del rifugio, presi in considerazione nel vajrayana, che distingue un rifugio esterno (formato dai Tre Gioielli già descritti), un rifugio interno ed uno segreto. Il rifugio interno è composto non da tre, ma da sei elementi: ai Tre Gioielli si aggiungono le Tre Sorgenti, che sono il lama, l’yidam ed il protettore. Questo rifugio pone l’accento su aspetti di particolare importanza per il vajrayana. Il maestro e il lignaggio di trasmissione formano la prima radice o sorgente, i lama. Le manifestazioni del buddha sulle quali il praticante sta meditando – gli yidam o divinità d’elezione e i dharmapala o protettori – formano rispettivamente la seconda e la terza sorgente. Non è il caso di approfondire qui questo tema, quello che importa è capire che il rifugio interno non è separato dal rifugio esterno, ma ne costituisce uno sviluppo. Nel vajrayana l’insieme dei sei aspetti del rifugio interno è riassunto nella persona del lama-radice, che, in quanto ultimo anello della catena di trasmissione degli insegnamenti, rende concreta in modo diretto, al nostro livello, la presenza del risveglio e dell’insegnamento. In questo contesto, il lama-radice è il rappresentante dei Tre Gioielli e lo si considera come colui che li incorpora: con la sua mente quale buddha, la sua parola quale dharma, il suo corpo quale sangha. Egli incarna anche le Tre Sorgenti: la sua mente è l’yidam, la mente risvegliata; la sua parola è il protettore, che mette in azione l’attività risvegliata e il suo corpo è lo stesso lama, come immagine delle Tre Sorgenti. In tal modo egli diventa la presenza vivente e direttamente accessibile dei Tre Gioielli e delle Tre Sorgenti.
C’è infine il rifugio segreto, che viene presentato in vario modo. Consiste nel prendere rifugio nei tre corpi del Buddha, come sono vissuti nell’esperienza di mahamudra. Questo rifugio è l’esperienza immediata della natura di buddha, al di là di ogni forma; è anche chiamato “rifugio di quiddità“.
Fra i Tre Gioielli – buddha, dharma e sangha – essenziale è il buddha; sangha e dharma ne sono una derivazione e nel buddha vengono assorbiti. Il sangha è l’insieme di coloro che praticano il dharma sulla via del risveglio e da questo punto di vista il rifugio nel dharma è più essenziale del rifugio nel sangha. Il dharma ha come scopo ultimo la realizzazione dello stato di buddha, in cui confluisce e da questo punto di vista il rifugio nel buddha è più essenziale del rifugio nel dharma. Lo stato di buddha consiste fondamentalmente nei tre corpi del buddha, di cui il più essenziale è il corpo di dharma, il dharmakaya. . Il rifugio ultimo è dunque questo dharmakaya del buddha, cioè la dimensione onnipresente, onnipervadente, al di là di ogni forma e di ogni attributo, la mente pura. Questo rifugio ultimo; la natura di buddha, è dentro di noi come stato puro della nostra coscienza. Questi diversi rifugi sono praticati con gradualità: dal rifugio esterno si passa all’interno e infine al segreto. Tale gradualità fa parallelo con quella delle pratiche che si sviluppano dall’hinayana al mahayana e al vajrayana e, nel quadro dei diversi yana, si passa dalla pratica a livello di realtà relativa a quella a livello di realtà ultima. La pratica del rifugio ci accompagna così lungo tutto il sentiero, dal primo passo fino alla sua conclusione.
Questo articolo è ripreso, con il cortese consenso dell’Istituto Karma Ling di Arvillard (Savoia), dal numero 131.1992 del trimestrale “Dharma”. (Trad. dal francese di Vincenzo Piga) https://maitreya.it/wp-content/uploads/2020/02/Paramita-44.pdf