Namkhai Norbu: Rifugio, Bodhicitta e consapevolezza

Sua Santità il Dalai Lama con Namkhai Norbu: Consapevolezza vuol dire comprendere la realtà per quello che essa è, senza modificarla e falsificarla.

Namkhai Norbu: Rifugio, Bodhicitta e consapevolezza

È questo il primo degli insegnamenti presentati durante il ritiro Dzog-chen di Merigar (Arcidosso) nell’aprile 1987.

Che cosa è l’insegnamento Dzog-chen?

Non è solo un sistema di pratiche di visualizzazione; lo scopo fondamentale che ci si propone è l’integrazione dello stato dell’individuo con la pratica continua della contemplazione. Non è una cosa facile, ci vuole molto allenamento prima di raggiungere l’integrazione della contemplazione con la nostra vita. Questo è il motivo per cui ci siamo riuniti qui in ritiro. È molto importante cercare di essere presenti e consapevoli nella nostra vita di ogni giorno, in questo modo si può trovare il vero stato della contemplazione. La contemplazione deve essere parte integrante della vita, non, una pratica da attuare in un tempio, per un periodo limitato.

Uno dei concetti più importanti nell’insegnamento buddhista è quello di Bodhicitta. È qualcosa di cui si parola con molto entusiasmo: il beneficio di tutti gli esseri senzienti. In realtà attuare ciò nella propria vita è veramente qualcosa di straordinario, ma questo non può accadere se semplicemente vengono recitati dei versi o se si allena la mente con questo pensiero. Bodhicitta non è una parola, non è un concetto o qualcosa che si pretende di avere. Bodhicitta vuol dire comprendere in profondità la propria condizione ed attraverso essa comprendere quella di tutti gli esseri. Per questo, qualsiasi pratica si :faccia, comunque, si viene a parlare di Bodhicitta.

In questo caso Bodhicitta vuol dire prima di tutto esaminare quale è la propria intenzione: se la propria intenzione non è corretta, bisogna correggerla. Ad esempio: già partecipare ad un ritiro presuppone un’intenzione precisa. Avere chiaro questo è centinaia, migliaia di volte meglio che recitare qualche verso di Bodhicitta. Quindi prima di iniziare questo ritiro dobbiamo focalizzare bene, le nostre intenzioni e lo scopo che ci proponiamo.

Ciò che si vuole ottenere è integrare la contemplazione con la vita di ogm giorno. Se questo si ottiene realmente, solo allora si potranno beneficiare gli altri esseri, e quelle belle parole tanto famose potranno finalmente diventare qualcosa di concreto. Altrimenti, pur pronunciando con la bocca parole bellissime o formulando con la mente pensieri edificanti, la nostra condizione di confusione, soggetta alle passioni, non sarà mai intaccata. Voi che siete venuti per partecipare a questo ritiro cercate di capire veramente il motivo per cui siete qui. Un ritiro non deve diventare una sorta di fuga. Molti di solito hanno questo atteggiamento: vivono nelle città, nella confusione e finalmente trovano la possibilità di evadere per un po’ di tempo. Se si fa così, però, non· si fa che peggiorare la propria. condizione. Quando si ritorna tutto è ancora più pesante, non è cambiato nulla, si ritrova la stessa casa in cui si viveva prima, la stessa situazione. Si dovrebbe riuscire un po’ a rallentare lo stato vorticoso della mente, a rilassarsi. Questo è lo scopo da raggiungere. Questo è proprio il principio dell’insegnamento. Esiste una famosa storia di Buddha in cui il Buddha stesso, dopo aver avuto l’esperienza dello stato profondo, al di là dei concetti, cercò di insegnarlo ai suoi discepoli. Nessuno comprese, allora Buddha disse: <<Ho cercato di comunicare questo stato inesprimibile, al di là dei concetti, ma non è stato possibile. Per questo motivo adesso io vado nella foresta a meditare da solo».

Cosa voleva dire? Che lo stato profondo della contemplazione è al di là del pensiero e delle spiegazioni. Però esiste un modo per trasmetterlo: attraverso l’esperienza del corpo, della voce e della mente. Ogni insegnante comunica l’insegnamento ai propri discepoli. E’ un atto di collaborazione. Bisogna capire bene e lavorare su questo. Quando avete capito qualcosa, cercate di portare la vostra esperienza in pratica nella vita quotidiana. Se la propria esperienza non è così concreta, si può a lungo far finta di essere un maestro che insegna a finti studenti, che fingono di ascoltare e, fingono di praticare, ma tutto ciò non ha alcun senso. Dobbiamo andare in concreto.

Una delle prime cose di cui si parla nell’insegnamento del Buddha è il Rifugio. Molti pensano che il Rifugio consista in versi da pronunciare, pensano che Rifugio sia – la frase: «Prendo rifugio nel Buddha, nel Dharma e nel Sangha» e la ripetono. Ma questo è un Rifugio relativo, non il vero Rifugio. Il vero Rifugio sta nel riconoscere l’insegnamento che si pratica come la via della propria liberazione. Ad esempio: voi conoscete bene il motivo per cui siete venuti qui; nessuno vi ha obbligato a farlo, avete l’intenzione di seguire questo insegnamento, ne comprendete il valore. Io non ho fatto alcuna pubblicità, non sono venuto a dirvi: «Venite qui, io ho un insegnamento fantastico, vi porto sulla via della liberazione». Ognuno di voi partecipa attivamente. Questo vuol dire che voi riconoscete questa via ed avete l’intenzione di percorrerla. Questo è il vero senso del rifugio. Se, mentre si sta camminando, una pioggia fortissima ci investe, cosa facciamo? Se nelle vicinanze troviamo una grotta entriamo nella grotta, se non c’è una grotta ma c’è un grande albero, allora ci rifugeremo sotto l’albero. Ciò vuol dire che nel momento in cui si ha un problema, si cerca di risolverlo. Noi sappiamo di avere dei problemi perché abbiamo un’esistenza relativa, legata al karma, quindi viviamo nel samsara, nella trasmigrazione.

Per risolvere ciò bisogna seguire una via. Seguire un insegnamento con questa volontà vuol dire «prendere Rifugio». Esistono molti modi di «prendere Rifugio»; molti pensano al rifugio come ad un voto da prendere. Si può prendere Rifugio in modo essenziale o in modo formale. Forse un po’ sotto l’influenza del cerimoniale cattolico, anche il rifugio viene considerato una specie di «battesimo» buddhista. Ricevere una specie di voto, un nome nuovo può dare una certa sicurezza: vuol dire essere diventati buddhisti. In realtà diventare buddhisti vuol dire comprendere profondamente il significato degli insegnamenti di Buddha. Ma ciò non significa che Buddha abbia detto di abbandonare le proprie tradizioni sociali e culturali. Buddha non ha mai insegnato qualcosa del genere. Ciò che Buddha ha veramente insegnato è la reale condizione dell’esistenza.

L’insegnamento del Buddha viene chiamato Dharma. Dharma in sanscrito vuol dire esistenza, in questo caso si intende la conoscenza dell’esistenza. Per acquisire ciò, bisogna iniziare dalla conoscenza di se stessi; se noi non comprendiamo prima di tutto noi stessi, è difficilissimo poi comprendere il mondo esterno. Buddha ha detto: «Apprendendo da se stessi, non si compia del male agli altri». Questo vuol dire che la conoscenza di se stessi è la base principale da cui si deve partire per modificare la realtà esterna. Bisogna comprendere il concetto reale di Rifugio. Ma ciò non vuol dire che non esistono i voti di Rifugio o di Bodhicitta. Se si comprende il senso reale di qualcosa, non vuol dire che si viene a negare tutto il resto. Se si vuol capire come è fatto un albero, prima di tutto si deve comprendere come è fatto il tronco. Se noi ci impegniamo solo a conoscerne i fiori, le foglie ed i rami, ne avremo sempre una conoscenza parziale.

Non bisogna tralasciare il principio che è alla base di un insegnamento. Se noi riusciamo a scoprire qual è la base fondamentale, pur conoscendo lo stato di confusione in cui viviamo, si potrà ottenere un miglioramento concreto. Quando ci si avvicina all’insegnamento, una delle prime cose che viene insegnata è l’allenamento della mente nelle quattro consapevolezze e questo è anche considerato come insegnamento preliminare a tutte le altre pratiche. In questo caso, però, preliminare non significa che questi insegnamenti siano una semplice procedura formale, una specie di passaporto per entrare nella pratica. In qualsiasi momento in cui si voglia incominciare a praticare, vi è sempre un momento precedente in cui si matura la decisione di praticare; questo momento è un momento in cui si ha una consapevolezza ed una presenza maggiore di quella che si ha di solito nel quotidiano. Questa consapevolezza è quella racchiusa nell’insegnamento delle quattro consapevolezze. Ecco perché la pratica delle quattro consapevolezze in realtà ci può aiutare sempre a vivere la nostra vita con maggiore presenza. L’allenamento .della mente nelle quattro consapevolezze consiste nella consapevolezza del (1) valore della rinascita umana, (2) dell’impermanenza della vita, (3) della legge di causa ed effetto del karma, (4) della trasmigrazione. Tutto ciò non è per fare un’analisi od uno studio filosofico, ma serve per avere un’idea più precisa della condizione degli uomini. Per esempio: quando noi parliamo del valore prezioso della rinascita umana, in realtà parliamo della capacità che hanno gli uomini di realizzare le cose, come anche di distruggerle. Viene detto che gli esseri umani vivono nel samsara e che vivono secondo le leggi ineluttabili del karma.

Ma chi ha creato il 9 karma? Noi stessi.

Ad esempio: se non siamo presenti, creiamo karma negativo; le capacità che noi abbiamo, quindi, ci consentono di comprendere le conseguenze negative ed anche di purificarle. In molti insegnamenti viene detto che una volta che si è ottenuta la preziosa rinascita umana, non bisogna perdere la grande occasione che essa ci offre. Viene fatto il paragone con un commerciante che ha l’occasione di andare su un’isola ricca di gioielli preziosi ma ritorna a mani vuote. Allo stesso modo, noi abbiamo l’occasione di trovare la via che porta alla liberazione. Se si ignora questo e non ci si aiuta in questa direzione, anche se si hanno tante belle idee, non si concluderà niente in concreto. Voglio dire in conclusione che è inutile imparare le quattro consapevolezze in modo intellettuale. Qualsiasi cosa venga imparata in modo intellettuale può servire tutt’al più a fare un bel discorso, ma non serve in modo pràtico. Al contrario, non è assolutamente necessario fare una bella analisi, non serve a molto. ,Ciò che dico scaturisce dalla mia esperienza personale. Quando ero bambino, ho studiato molto l’insegnamento buddhista analizzandolo nei suoi aspetti dottrinali e filosofici: io e tutti gli altri studenti eravamo molto preoccupati di impadronirci esattamente delle difficili questioni filosofiche proprie della filosofia buddhista. Sul problema della rinascita umana, dovevamo sapere a memoria le diciotto qualificazioni che distinguono un uomo, le dieci qualificazioni da perfezionare, le otto da abbandonare. Quando arrivavamo alla perfetta acquisizione mnemonica di ciò, pensavamo di sapere tutto quello che ci fosse da sapere sull’argomento. In pratica però non avevamo capito niente.

Se accade ciò, qualsiasi pratica o insegnamento si apprenda, non serve proprio a nulla. Se voi non sapete analizzare da un punto di vista filosofico il valore della rinascita umana, ma ne avete una conoscenza concreta, ne trarrete un beneficio prezioso. Alcuni maestri fanno allenare la mente nella consapevolezza della preziosità della rinascita umana facendo impegnare i propri discepoli in veri e propri esercizi di fissazione su questi argomenti. Se proprio non si ha nient’altro da fare, esercizi del genere possono essere utili, ma queste non sono pratiche fondamentali. Meditare in modo forzato sull’impermanenza del tempo, sul cambiare delle stagioni, sull’evolversi continuo degli eventi può essere certamente utile, ma potrebbe anche fare cadere in uno stato di sfiduciato pessimismo.

In tal caso sarebbe certamente più utile far rilassare un po’ i propri discepoli, piuttosto che farli concentrare su tutti questi pensieri. Praticare vuol dire principalmente acquisire una grande consapevolezza. Consapevolezza vuol dire capire quale è la nostra natura, la nostra condizione, non in modo concettuale, ma in modo pratico, non prescindendo dalla nostra stessa condizione. Anche questo non è un concetto, ma riguarda la nostra realtà.

Ieri non è più oggi, domani non è più oggi, tutti lo sanno. Qualsiasi cosa sia avvenuta nel tempo, ormai non è altro che storia. La nostra vita non è che una parte infinitesimale del lungo filo della storia. Quando nasce un bambino, inizia una nuova vita che prima o poi dovrà finire. Questo vuol dire impermanenza. La nostra condizione è legata strettamente con la fugacità dell’esistenza. Nessuno sa quando avverrà la propria fine; sarà tra dieci, venti, trenta anni, un mese, una settimana, nessuno lo può sapere. Nella nostra distrazione siamo portati a pensare di essere pressoché immortali. Avere una reale conoscenza di questo principio vuol dire essere consapevoli dell’impermanenza. Nell’insegnamento Dzog-chen la consapevolezza è importantissima. Consapevolezza vuol dire comprendere la realtà per quello che essa è, senza modificarla e falsificarla. Qualsiasi uomo è costituito da tre parti: il corpo, la voce e la mente. Ognuno di questi tre costituenti ha i propri limiti, noi abbiamo i nostri lati positivi e negativi: quando si comprende quale è la vera condizione, si vive nella consapevolezza. Seguire un insegnamento vuol dire imparare ad essere consapevoli e conoscere se stessi. https://maitreya.it/wp-content/uploads/2020/02/Paramita-23.pdf